Letture pericolose.
di
Ripe (with decay)
genere
prime esperienze
“Commissario, abbiamo un problema”.
Il commissario strizzò gli occhi fino ad una sottile fessura. Ripensò all’ultima sfuriata domestica a causa della quale lui e sua moglie non si guardavano in faccia e rientrando in casa era come oltrepassare un portale dimensionale per la Groenlandia. O al figlio che supponeva tale paternità sufficiente a garantirgli la promozione senza studiare. O a quella arpia della suocera che ficcava il naso ovunque. O al suo trader che gli aveva fatto bruciare qualche migliaio di euro in un’operazione sballata e a quel fuoco non ci si era scaldato nemmeno un senzatetto. Ma quando li riaprì il rompicoglioni era ancora lì.
“Anche più di uno” lo canzonò. Non aveva voglia di stronzate, stava per staccare. Ma l’altro insisteva con la caparbietà della giovinezza.
Lo squadrò magnanimo. Era un lungagnone insipido: il volto tirato come una coperta; la boccuccia piccola, irritante; gli occhi biglie opache come se qualcuno ci avesse giocato migliaia di volte. Erano cerchiati da boccioli viola di sonno arretrato. Sembrava spiritato, uno spaventapasseri ambulante.
“Secondo me dovrebbe dare un’occhiata”.
Reggeva il portatile tra le mani come una reliquia. Inforcò gli occhiali. “E diamocela, questa occhiata”. Confidò che una buona dose di condiscendenza rendesse tutto più rapido e indolore. “Ma che è? Ti sei messo a leggere ora? Cosa dovrei farmene di tutta questa roba?”.
“Le ho inviato il link”.
“Che link?”.
“Provi a dare una scorsa a questo testo”.
Il commissario strabuzzò gli occhi. “Racconti erotici? Ci siamo dati alla pornografia?”. Stava per rimettere gli occhiali nella custodia e sbatterlo fuori.
“L’erotismo non è pornografia”.
Spinse le labbra in fuori. “E che differenza c'è?”.
“Uno suggerisce e nasconde, l’altra urla e mostra tutto”.
“Ah”. Poi nascose le nocche della mano nel palmo dell’altra e recitò a caso: “Titolo: Mi scopo mia suocera a sangue e lei gode. Svolgimento: Mia suocera aveva 27 anni quando partorì mia moglie. E alla stessa età ho cominciato a scoparla. Ho versato in cinque mesi più sperma nella sua figa che in cinque anni dentro quella di sua figlia… Devo continuare?”. E accompagnò il suo implicito parere con mimica evidente, sfoggiando il sorriso con cui ci si rivolge ad un minorato mentale. Il giovane accusò il colpo, balbettando confuso.
C'è n’erano altri di quel tenore, tutte sporcaccionate racchiuse in un’apposita sezione dedicata a rapporti tra consanguinei di ogni tipo. E il numero dei racconti superava quota diecimila. Era allibito. Diecimila depravati che scrivevano – sempre che quello fosse scrivere – le peggio cose senza un minimo sussulto etico.
“Quindi?”.
“Legga quello che le ho evidenziato”.
Lesse quel marasma senza capo né coda che tuttavia lasciava un insopportabile retrogusto di squallore quotidiano. “Questa non sarebbe pornografia? È il resoconto di un incesto di un padre con la figlia. Ci stiamo impazzendo qua dentro?”. Iniziava ad andare in fibrillazione.
L’altro protese le braccia in segno di resa, nel tentativo di farlo calmare. “Ragioni commissario: non le ricorda niente?”.
Gli indovinelli gli piacevano ancora meno delle stronzate. “Dovrebbe?”.
“Bè, sì”. Si sentiva preso per i fondelli. “È accaduto qualche mese fa in provincia di ***”.
“Lo ricordo. Cosa c’entriamo noi?”.
“Niente. L’imputato ha avuto la residenza qui in città per cinque anni, e i colleghi hanno chiesto notizie sulla persona, e questo è quanto. Ma combacia tutto”.
“Certo che combacia: era su tutti i notiziari. Sarà un mitomane che vuole cavalcare l’onda. Queste perversioni hanno sempre un pubblico attento”.
“Non è così semplice. Ho fatto un po' di ricerche. Alcuni particolari sono stati omessi durante l’inchiesta per ragioni di riservatezza. A conoscerli possono essere solo i testimoni, gli inquirenti…”.
“... o chi ha commesso il fatto. Continua. Ma prima dimmi una cosa”.
“Se posso”.
“Com’è che ti sei messo a leggere ‘ste schifezze?”.
Arrossì. “Un brutto momento”.
“Cioè la fidanzata non te la dà?”.
“Non me la dà”.
Nascose il volto tra le mani. “Cosa mi tocca sentire”.
“C’è stata anche una buona dose di fortuna”.
“Quale?”.
“Quello è stato il primo racconto in cui mi sono imbattuto. E mi si è accesa la lampadina”.
“Lampadina?”. Corrugò la fronte. Ora iniziava a sentirsi a disagio. “Vuol dire che c'è dell'altro?”.
“Purtroppo sì”.
Gli mostrò un altro breve racconto. Si trattava della asettica descrizione di un rapporto a tre tra marito frustrato e impotente spettatore delle prodezze della moglie con partner occasionali. I sordidi particolari, snocciolati nudi e crudi senza troppe reticenze, sembravano afferire ad un caso di cronaca il cui protagonista principale era niente di meno che un noto anzi notissimo esponente politico, e che la politica aveva inteso insabbiare senza riuscirvi.
Annuiva. “Sembra una confessione. Quante ne hai trovate? Perché è questo il problema, no?”.
L’altro annuì. “Ho capito che qualcosa non andava e mi sono tuffato alla ricerca di altri testi che contenessero riferimenti precisi”. Ora capiva quell’espressione assente, da pesce fuor d’acqua. Lo immaginò immerso in consimili educative e pruriginose letture fino all’alba. L’agente fece una pausa scenografica. “E mi sono imbattuto in questo”.
Era un altro delizioso parto letterario di una mente malata ed apparteneva alla sezione dedicata alle prime esperienze. Ma la prima esperienza non era quella del sesso come sarebbe stato logico aspettarsi. L’espressione sul volto del commissario mentre procedeva nella lettura diventava sempre meno cordiale, ed una nera patina di orrore gli scese sugli occhi. “Gesù… Cristo!” riuscì appena a balbettare. "Avverti la polizia postale. Dobbiamo scoprire quale identità si cela dietro questo nickname, questo... Murder, I wrote. Se davvero è quello che pensiamo, dobbiamo agire prima che fugga o peggio… che c’è?”.
Il ragazzo aveva una faccia tirata, bianca come la carta. “Commissario, non può essere un tentativo di aprire una via di comunicazione, di lanciare una richiesta di aiuto?”.
Il superiore batté il palmo della mano sul ripiano della scrivania, facendo ballare tutto ciò che vi era sopra. “Ma che cazzate vai dicendo? Non siamo in un film giallo. Questo è uno squilibrato e ci sta dicendo che colpirà di nuovo. Noi siamo le forze dell'ordine: abbiamo il compito di assicurare i delinquenti alla giustizia. Agli psicologi il compito di ricamare. A me interessa rendere inoffensivo chi è in grado di fare queste cose”.
“Certo commissario. Ma ragioni. Non dovremmo soffermarci ancora su quel sito? Forse c’è altro da leggere, da controllare, da verificare…”.
“Basta!” gli urlò dritto sul muso, sbattendo un’altra manata. “Ci siamo rincoglioniti? Non abbiamo tempo da perdere. Voglio fatti. Mettiamoci all’opera”. Ma prima che prendesse la porta lo chiamò indietro. “Complimenti ragazzo. Hai fiuto, non solo fortuna. È per questo che il caso lo assegno a te. Voglio che lo porti a termine. Datti da fare”.
Il sottoposto annuì. Sembrava sul punto di replicare. Forse era ancora prematuro affidargli le redini di un’investigazione così complessa. Ma d’altra parte prima o poi avrebbe dovuto cominciare. E secondo il suo insindacabile giudizio quel momento era arrivato.
“E non mi deludere”.
Bingo.
Così gli aveva detto. C’era di che snervarsi. Come se avesse messo l’ultimo tassello di un puzzle. E in un certo senso era vero. Peccato solo che il puzzle rappresentasse il raccapricciante omicidio di una ragazza – una ragazza! – da parte di un maniaco sessuale che l’aveva torturata a lungo, per giorni interi secondo i medici legali, prima di ucciderla. Concludendo il proprio cammino verso l’inferno con il macabro rituale della mutilazione genitale.
Mentre sfrecciavano sulla provinciale il commissario non riusciva a togliersi dalla testa ciò che era stato ricostruito per deduzione e ciò che aveva visto. Persino i genitori non avevano retto alla macabra visione durante il riconoscimento.
La figlia, da poco maggiorenne, non aveva ancora sostenuto la maturità. Mancavano poche settimane. Di punto in bianco, sparita. Una fuga d’amore, si vociferava, qualche brutto voto a scuola. Notizie tendenziose e infondate: acqua e sapone, affrontava con dedizione lo studio senza grilli per la testa, compresi i ragazzi. Una settimana dopo il suo cadavere galleggiava in un sacco nero nelle limacciose tortuosità da serpente di un fiume. Loro erano a conoscenza di tutto. Quelle acque si trascinavano ora impetuose ora lente dalla periferia sud al centro di nuovo in periferia a nord, tagliando la città in due come un vecchio coltello. Le intravedeva dalle finestre di casa, le intravedeva dal commissariato. Le aveva rasentate la ragazza per andare a scuola, vi si era affidato il suo assassino per insidiarla.
Mentre sfrecciavano sulla provinciale il commissario non riusciva a togliersi dalla testa ciò che aveva letto in quel racconto. C’era tutto. A saperlo leggere, cogliere, presentire: c’era tutto. Il resoconto veridico e inconfutabile di una tragedia che l’intera cittadinanza aveva vissuto col fiato sospeso sulla propria pelle. Si mangiava le mani, perché al di là della sorte e dell'intuito il cruccio con cui avrebbero dovuto fare i conti per il resto della loro vita era lì davanti a loro che gridava la sua verità beffarda. Perché quel racconto era stato scritto prima del crimine commesso. E lui sapeva che non se lo sarebbero mai perdonato.
Il giovane agente affermava di aver riconosciuto il luogo grazie alla meticolosa descrizione offerta dall’assassino. Non potevano sbagliarsi. I particolari urbani e paesaggistici ritratti dai vetri rotti delle finestre: “È il casolare del vecchio eremita”. Illazione risibile per ottenere un mandato. Come se non bastasse, si erano perse le tracce della proprietà, ed ora l'edificio risultava giuridicamente abbandonato. Quella dell'eremita era una storia antica, scoppiata ormai in una bolla di sapone perché il protagonista era morto da anni. Tutti prima o poi avevano bazzicato quel luogo. Casa disabitata prediletta dai fantasmi per la credulità dei ragazzini che laggiù ottenevano un primo patentino di virilità – in realtà condominio diffuso, coi suoi tratti di boscaglia intricata, i recessi tormentosi, le zolle di terra bruciata, per sbandati drogati pusher buoni a diventare in un futuro ipotetico gli spettri del vecchio eremita buon’anima.
Mentre sfrecciavano sulla provinciale il commissario rivedeva come un flashback la terrificante sequenza di immagini che avevano portato ad un primo punto fermo: quello del passaggio della ragazza da persona dispersa a vittima di omicidio.
L'urlo liberatorio – l’abbiamo trovata! – che speravano echeggiasse nelle case era stato sostituito dalla soffocata, sgomenta affermazione degli uomini del corpo dei sommozzatori che senza troppe difficoltà avevano recuperato il sacco riemerso dopo il passaggio turbolento sotto un ponte, issandolo sul gommone e aprendolo per una iniziale valutazione. Una svista, una negligenza, o forse no: come se intenzionalmente l’assassino avesse evitato di occultarlo in modo definitivo. Avrei lasciato un ricordo per la mia città recitava quasi sul finire l’autore del racconto incriminato.
L’avevano trovata, sì. Ma a lei ormai non poteva più interessare.
Sostavano a bordo fiume, l’auto con i lampeggianti accesi alle spalle. Erano arrivati ultimi. In quei casi, tutti si arrivava ultimi, non esisteva una graduatoria di merito. Ultimi dietro l’assassino. Non ci voleva un anatomopatologo per comprendere le crudeltà che le erano state inflitte. “Dobbiamo prenderlo” aveva affermato il commissario pallido di rabbia. Ma poi il tempo aveva fatto giustizia delle buone intenzioni, e le indagini languivano.
“Sei sicuro?”. Qualche dubbio il commissario lo aveva. Gli sembrava tutto troppo semplice. Ma l’agente gli mostrò i riscontri che validavano la sua teoria, e non poté che convenire. Quanto l’assassino descriveva con minuzia di particolari si riusciva ad osservare soltanto dalle finestre di quel casolare, e da nessun'altra parte. Intorno non c’era nulla. “Maledetto bastardo” mormorò.
Sfondarono la porta. Dentro gli ambienti invasi dalle ombre schiumava un odore indescrivibile. Non era soltanto di stantio, di marcio e di putrefazione – in un angolo trovarono la carcassa di un animale.
Le imposte erano abbassate, e dove assenti i vetri sporchi filtravano la luce. Avanzarono tentoni con i led dei cellulari. Sorrise amaramente. Una volta avrebbero proceduto con il raggio potente delle torce, ora si affidavano a quei puntolini assurdi. Zeitgeist. Segno dei tempi e della vecchiaia. Tutto era in abbandono. Una stanza era stata utilizzata di recente come dormitorio. Ci voleva del coraggio.
“Dove andiamo? Qua non c’è niente” commentò perplesso.
“Commissario” la voce sussurrata gli giunse forte e chiara in quel brutto silenzio. Intravide la silhouette dell’agente stagliarsi più nitida e definita all’apertura di una porticina che dava sull’esterno. Una scaletta malridotta conduceva ad un ammezzato nel lato della casa che scoscendeva sull’ansa del torrente. La percorsero col cuore in gola. Si arrestava davanti ad una porticina di ferro ancora più piccola. La vegetazione riempiva ogni visuale, ed era perciò virtualmente invisibile dall’esterno.
Gli mostrò in modo plateale di impugnare la pistola. Aprirono. Un refolo d’aria umida fu risucchiato via. C’erano ancora alcuni gradini di cemento da scendere. Poi si ritrovarono in un piccolo ambiente dal soffitto basso, quella che forse nelle intenzioni dei costruttori doveva essere una tavernetta. Ma era impossibile stabilire quale destino d’uso avesse ricevuto: le finestre erano murate.
Tastò invano la parete adiacente alla ricerca di un interruttore. “Una luce, una luce” gli uscì di bocca in mezzo al fruscio delle acque e del fogliame rovistato dalla brezza, nella speranza irrealistica di trovare una fonte di illuminazione artificiale.
Improvvisa una vampa infiammò il quadrilatero. Si girò a mezzo per annuire all’agente che aveva esaudito il suo desiderio.
Il luogo in cui erano capitati non aveva niente a che fare con il piano visibile, superficiale della catapecchia. Sotto la plafoniera (e chissà da dove proveniva la corrente per accenderla) torreggiava una seduta chirurgica. Intorno, sui muri tappezzati di pannelli isolanti, una messe diabolica e senza fine di strumenti di tortura. Per terra, i residui del sangue dell’ultima vittima. Dopo il primo istante di sgomento il commissario riprese il controllo della situazione. “Ne abbiamo abbastanza. Chiama in centrale”.
Aveva appena finito di parlare che la luce del mondo intero si spense intorno a lui, e piombò nella più fitta incoscienza.
Al risveglio era sapientemente imbragato, imbavagliato, impossibilitato a qualunque reazione. L’agente aveva atteso quel momento predisponendo con cura l’occorrente.
“Eppure glielo avevo detto, commissario, che avevamo un problema” disse scuotendo la testa, e sembrava sinceramente costernato. “Le avevo raccomandato di non smettere di leggere, di ascoltare tra le righe una richiesta di aiuto, di fermarmi prima che fosse troppo tardi”.
E gli si avvicinò con il portatile, mostrando che cosa aveva partorito la sua mente malata per giustificare le proprie azioni, per rifiutare ogni responsabilità, addossando alla altrui negligenza il corso degli eventi. Era un altro racconto, pubblicato all’inizio di quella brutta faccenda con il medesimo nickname quando gli aveva messo sotto il muso il resoconto del precedente omicidio. Apparteneva sempre al genere prime esperienze.
Titolo: Uccido la mia prima vittima maschile. Svolgimento: “Commissario, abbiamo un problema”. Il commissario socchiuse gli occhi e rimase a lungo in silenzio. Potevo quasi sentire le rotelle dei suoi pensieri girare a vuoto. “E quale sarebbe?” rispose il commissario…
Il commissario strizzò gli occhi fino ad una sottile fessura. Ripensò all’ultima sfuriata domestica a causa della quale lui e sua moglie non si guardavano in faccia e rientrando in casa era come oltrepassare un portale dimensionale per la Groenlandia. O al figlio che supponeva tale paternità sufficiente a garantirgli la promozione senza studiare. O a quella arpia della suocera che ficcava il naso ovunque. O al suo trader che gli aveva fatto bruciare qualche migliaio di euro in un’operazione sballata e a quel fuoco non ci si era scaldato nemmeno un senzatetto. Ma quando li riaprì il rompicoglioni era ancora lì.
“Anche più di uno” lo canzonò. Non aveva voglia di stronzate, stava per staccare. Ma l’altro insisteva con la caparbietà della giovinezza.
Lo squadrò magnanimo. Era un lungagnone insipido: il volto tirato come una coperta; la boccuccia piccola, irritante; gli occhi biglie opache come se qualcuno ci avesse giocato migliaia di volte. Erano cerchiati da boccioli viola di sonno arretrato. Sembrava spiritato, uno spaventapasseri ambulante.
“Secondo me dovrebbe dare un’occhiata”.
Reggeva il portatile tra le mani come una reliquia. Inforcò gli occhiali. “E diamocela, questa occhiata”. Confidò che una buona dose di condiscendenza rendesse tutto più rapido e indolore. “Ma che è? Ti sei messo a leggere ora? Cosa dovrei farmene di tutta questa roba?”.
“Le ho inviato il link”.
“Che link?”.
“Provi a dare una scorsa a questo testo”.
Il commissario strabuzzò gli occhi. “Racconti erotici? Ci siamo dati alla pornografia?”. Stava per rimettere gli occhiali nella custodia e sbatterlo fuori.
“L’erotismo non è pornografia”.
Spinse le labbra in fuori. “E che differenza c'è?”.
“Uno suggerisce e nasconde, l’altra urla e mostra tutto”.
“Ah”. Poi nascose le nocche della mano nel palmo dell’altra e recitò a caso: “Titolo: Mi scopo mia suocera a sangue e lei gode. Svolgimento: Mia suocera aveva 27 anni quando partorì mia moglie. E alla stessa età ho cominciato a scoparla. Ho versato in cinque mesi più sperma nella sua figa che in cinque anni dentro quella di sua figlia… Devo continuare?”. E accompagnò il suo implicito parere con mimica evidente, sfoggiando il sorriso con cui ci si rivolge ad un minorato mentale. Il giovane accusò il colpo, balbettando confuso.
C'è n’erano altri di quel tenore, tutte sporcaccionate racchiuse in un’apposita sezione dedicata a rapporti tra consanguinei di ogni tipo. E il numero dei racconti superava quota diecimila. Era allibito. Diecimila depravati che scrivevano – sempre che quello fosse scrivere – le peggio cose senza un minimo sussulto etico.
“Quindi?”.
“Legga quello che le ho evidenziato”.
Lesse quel marasma senza capo né coda che tuttavia lasciava un insopportabile retrogusto di squallore quotidiano. “Questa non sarebbe pornografia? È il resoconto di un incesto di un padre con la figlia. Ci stiamo impazzendo qua dentro?”. Iniziava ad andare in fibrillazione.
L’altro protese le braccia in segno di resa, nel tentativo di farlo calmare. “Ragioni commissario: non le ricorda niente?”.
Gli indovinelli gli piacevano ancora meno delle stronzate. “Dovrebbe?”.
“Bè, sì”. Si sentiva preso per i fondelli. “È accaduto qualche mese fa in provincia di ***”.
“Lo ricordo. Cosa c’entriamo noi?”.
“Niente. L’imputato ha avuto la residenza qui in città per cinque anni, e i colleghi hanno chiesto notizie sulla persona, e questo è quanto. Ma combacia tutto”.
“Certo che combacia: era su tutti i notiziari. Sarà un mitomane che vuole cavalcare l’onda. Queste perversioni hanno sempre un pubblico attento”.
“Non è così semplice. Ho fatto un po' di ricerche. Alcuni particolari sono stati omessi durante l’inchiesta per ragioni di riservatezza. A conoscerli possono essere solo i testimoni, gli inquirenti…”.
“... o chi ha commesso il fatto. Continua. Ma prima dimmi una cosa”.
“Se posso”.
“Com’è che ti sei messo a leggere ‘ste schifezze?”.
Arrossì. “Un brutto momento”.
“Cioè la fidanzata non te la dà?”.
“Non me la dà”.
Nascose il volto tra le mani. “Cosa mi tocca sentire”.
“C’è stata anche una buona dose di fortuna”.
“Quale?”.
“Quello è stato il primo racconto in cui mi sono imbattuto. E mi si è accesa la lampadina”.
“Lampadina?”. Corrugò la fronte. Ora iniziava a sentirsi a disagio. “Vuol dire che c'è dell'altro?”.
“Purtroppo sì”.
Gli mostrò un altro breve racconto. Si trattava della asettica descrizione di un rapporto a tre tra marito frustrato e impotente spettatore delle prodezze della moglie con partner occasionali. I sordidi particolari, snocciolati nudi e crudi senza troppe reticenze, sembravano afferire ad un caso di cronaca il cui protagonista principale era niente di meno che un noto anzi notissimo esponente politico, e che la politica aveva inteso insabbiare senza riuscirvi.
Annuiva. “Sembra una confessione. Quante ne hai trovate? Perché è questo il problema, no?”.
L’altro annuì. “Ho capito che qualcosa non andava e mi sono tuffato alla ricerca di altri testi che contenessero riferimenti precisi”. Ora capiva quell’espressione assente, da pesce fuor d’acqua. Lo immaginò immerso in consimili educative e pruriginose letture fino all’alba. L’agente fece una pausa scenografica. “E mi sono imbattuto in questo”.
Era un altro delizioso parto letterario di una mente malata ed apparteneva alla sezione dedicata alle prime esperienze. Ma la prima esperienza non era quella del sesso come sarebbe stato logico aspettarsi. L’espressione sul volto del commissario mentre procedeva nella lettura diventava sempre meno cordiale, ed una nera patina di orrore gli scese sugli occhi. “Gesù… Cristo!” riuscì appena a balbettare. "Avverti la polizia postale. Dobbiamo scoprire quale identità si cela dietro questo nickname, questo... Murder, I wrote. Se davvero è quello che pensiamo, dobbiamo agire prima che fugga o peggio… che c’è?”.
Il ragazzo aveva una faccia tirata, bianca come la carta. “Commissario, non può essere un tentativo di aprire una via di comunicazione, di lanciare una richiesta di aiuto?”.
Il superiore batté il palmo della mano sul ripiano della scrivania, facendo ballare tutto ciò che vi era sopra. “Ma che cazzate vai dicendo? Non siamo in un film giallo. Questo è uno squilibrato e ci sta dicendo che colpirà di nuovo. Noi siamo le forze dell'ordine: abbiamo il compito di assicurare i delinquenti alla giustizia. Agli psicologi il compito di ricamare. A me interessa rendere inoffensivo chi è in grado di fare queste cose”.
“Certo commissario. Ma ragioni. Non dovremmo soffermarci ancora su quel sito? Forse c’è altro da leggere, da controllare, da verificare…”.
“Basta!” gli urlò dritto sul muso, sbattendo un’altra manata. “Ci siamo rincoglioniti? Non abbiamo tempo da perdere. Voglio fatti. Mettiamoci all’opera”. Ma prima che prendesse la porta lo chiamò indietro. “Complimenti ragazzo. Hai fiuto, non solo fortuna. È per questo che il caso lo assegno a te. Voglio che lo porti a termine. Datti da fare”.
Il sottoposto annuì. Sembrava sul punto di replicare. Forse era ancora prematuro affidargli le redini di un’investigazione così complessa. Ma d’altra parte prima o poi avrebbe dovuto cominciare. E secondo il suo insindacabile giudizio quel momento era arrivato.
“E non mi deludere”.
Bingo.
Così gli aveva detto. C’era di che snervarsi. Come se avesse messo l’ultimo tassello di un puzzle. E in un certo senso era vero. Peccato solo che il puzzle rappresentasse il raccapricciante omicidio di una ragazza – una ragazza! – da parte di un maniaco sessuale che l’aveva torturata a lungo, per giorni interi secondo i medici legali, prima di ucciderla. Concludendo il proprio cammino verso l’inferno con il macabro rituale della mutilazione genitale.
Mentre sfrecciavano sulla provinciale il commissario non riusciva a togliersi dalla testa ciò che era stato ricostruito per deduzione e ciò che aveva visto. Persino i genitori non avevano retto alla macabra visione durante il riconoscimento.
La figlia, da poco maggiorenne, non aveva ancora sostenuto la maturità. Mancavano poche settimane. Di punto in bianco, sparita. Una fuga d’amore, si vociferava, qualche brutto voto a scuola. Notizie tendenziose e infondate: acqua e sapone, affrontava con dedizione lo studio senza grilli per la testa, compresi i ragazzi. Una settimana dopo il suo cadavere galleggiava in un sacco nero nelle limacciose tortuosità da serpente di un fiume. Loro erano a conoscenza di tutto. Quelle acque si trascinavano ora impetuose ora lente dalla periferia sud al centro di nuovo in periferia a nord, tagliando la città in due come un vecchio coltello. Le intravedeva dalle finestre di casa, le intravedeva dal commissariato. Le aveva rasentate la ragazza per andare a scuola, vi si era affidato il suo assassino per insidiarla.
Mentre sfrecciavano sulla provinciale il commissario non riusciva a togliersi dalla testa ciò che aveva letto in quel racconto. C’era tutto. A saperlo leggere, cogliere, presentire: c’era tutto. Il resoconto veridico e inconfutabile di una tragedia che l’intera cittadinanza aveva vissuto col fiato sospeso sulla propria pelle. Si mangiava le mani, perché al di là della sorte e dell'intuito il cruccio con cui avrebbero dovuto fare i conti per il resto della loro vita era lì davanti a loro che gridava la sua verità beffarda. Perché quel racconto era stato scritto prima del crimine commesso. E lui sapeva che non se lo sarebbero mai perdonato.
Il giovane agente affermava di aver riconosciuto il luogo grazie alla meticolosa descrizione offerta dall’assassino. Non potevano sbagliarsi. I particolari urbani e paesaggistici ritratti dai vetri rotti delle finestre: “È il casolare del vecchio eremita”. Illazione risibile per ottenere un mandato. Come se non bastasse, si erano perse le tracce della proprietà, ed ora l'edificio risultava giuridicamente abbandonato. Quella dell'eremita era una storia antica, scoppiata ormai in una bolla di sapone perché il protagonista era morto da anni. Tutti prima o poi avevano bazzicato quel luogo. Casa disabitata prediletta dai fantasmi per la credulità dei ragazzini che laggiù ottenevano un primo patentino di virilità – in realtà condominio diffuso, coi suoi tratti di boscaglia intricata, i recessi tormentosi, le zolle di terra bruciata, per sbandati drogati pusher buoni a diventare in un futuro ipotetico gli spettri del vecchio eremita buon’anima.
Mentre sfrecciavano sulla provinciale il commissario rivedeva come un flashback la terrificante sequenza di immagini che avevano portato ad un primo punto fermo: quello del passaggio della ragazza da persona dispersa a vittima di omicidio.
L'urlo liberatorio – l’abbiamo trovata! – che speravano echeggiasse nelle case era stato sostituito dalla soffocata, sgomenta affermazione degli uomini del corpo dei sommozzatori che senza troppe difficoltà avevano recuperato il sacco riemerso dopo il passaggio turbolento sotto un ponte, issandolo sul gommone e aprendolo per una iniziale valutazione. Una svista, una negligenza, o forse no: come se intenzionalmente l’assassino avesse evitato di occultarlo in modo definitivo. Avrei lasciato un ricordo per la mia città recitava quasi sul finire l’autore del racconto incriminato.
L’avevano trovata, sì. Ma a lei ormai non poteva più interessare.
Sostavano a bordo fiume, l’auto con i lampeggianti accesi alle spalle. Erano arrivati ultimi. In quei casi, tutti si arrivava ultimi, non esisteva una graduatoria di merito. Ultimi dietro l’assassino. Non ci voleva un anatomopatologo per comprendere le crudeltà che le erano state inflitte. “Dobbiamo prenderlo” aveva affermato il commissario pallido di rabbia. Ma poi il tempo aveva fatto giustizia delle buone intenzioni, e le indagini languivano.
“Sei sicuro?”. Qualche dubbio il commissario lo aveva. Gli sembrava tutto troppo semplice. Ma l’agente gli mostrò i riscontri che validavano la sua teoria, e non poté che convenire. Quanto l’assassino descriveva con minuzia di particolari si riusciva ad osservare soltanto dalle finestre di quel casolare, e da nessun'altra parte. Intorno non c’era nulla. “Maledetto bastardo” mormorò.
Sfondarono la porta. Dentro gli ambienti invasi dalle ombre schiumava un odore indescrivibile. Non era soltanto di stantio, di marcio e di putrefazione – in un angolo trovarono la carcassa di un animale.
Le imposte erano abbassate, e dove assenti i vetri sporchi filtravano la luce. Avanzarono tentoni con i led dei cellulari. Sorrise amaramente. Una volta avrebbero proceduto con il raggio potente delle torce, ora si affidavano a quei puntolini assurdi. Zeitgeist. Segno dei tempi e della vecchiaia. Tutto era in abbandono. Una stanza era stata utilizzata di recente come dormitorio. Ci voleva del coraggio.
“Dove andiamo? Qua non c’è niente” commentò perplesso.
“Commissario” la voce sussurrata gli giunse forte e chiara in quel brutto silenzio. Intravide la silhouette dell’agente stagliarsi più nitida e definita all’apertura di una porticina che dava sull’esterno. Una scaletta malridotta conduceva ad un ammezzato nel lato della casa che scoscendeva sull’ansa del torrente. La percorsero col cuore in gola. Si arrestava davanti ad una porticina di ferro ancora più piccola. La vegetazione riempiva ogni visuale, ed era perciò virtualmente invisibile dall’esterno.
Gli mostrò in modo plateale di impugnare la pistola. Aprirono. Un refolo d’aria umida fu risucchiato via. C’erano ancora alcuni gradini di cemento da scendere. Poi si ritrovarono in un piccolo ambiente dal soffitto basso, quella che forse nelle intenzioni dei costruttori doveva essere una tavernetta. Ma era impossibile stabilire quale destino d’uso avesse ricevuto: le finestre erano murate.
Tastò invano la parete adiacente alla ricerca di un interruttore. “Una luce, una luce” gli uscì di bocca in mezzo al fruscio delle acque e del fogliame rovistato dalla brezza, nella speranza irrealistica di trovare una fonte di illuminazione artificiale.
Improvvisa una vampa infiammò il quadrilatero. Si girò a mezzo per annuire all’agente che aveva esaudito il suo desiderio.
Il luogo in cui erano capitati non aveva niente a che fare con il piano visibile, superficiale della catapecchia. Sotto la plafoniera (e chissà da dove proveniva la corrente per accenderla) torreggiava una seduta chirurgica. Intorno, sui muri tappezzati di pannelli isolanti, una messe diabolica e senza fine di strumenti di tortura. Per terra, i residui del sangue dell’ultima vittima. Dopo il primo istante di sgomento il commissario riprese il controllo della situazione. “Ne abbiamo abbastanza. Chiama in centrale”.
Aveva appena finito di parlare che la luce del mondo intero si spense intorno a lui, e piombò nella più fitta incoscienza.
Al risveglio era sapientemente imbragato, imbavagliato, impossibilitato a qualunque reazione. L’agente aveva atteso quel momento predisponendo con cura l’occorrente.
“Eppure glielo avevo detto, commissario, che avevamo un problema” disse scuotendo la testa, e sembrava sinceramente costernato. “Le avevo raccomandato di non smettere di leggere, di ascoltare tra le righe una richiesta di aiuto, di fermarmi prima che fosse troppo tardi”.
E gli si avvicinò con il portatile, mostrando che cosa aveva partorito la sua mente malata per giustificare le proprie azioni, per rifiutare ogni responsabilità, addossando alla altrui negligenza il corso degli eventi. Era un altro racconto, pubblicato all’inizio di quella brutta faccenda con il medesimo nickname quando gli aveva messo sotto il muso il resoconto del precedente omicidio. Apparteneva sempre al genere prime esperienze.
Titolo: Uccido la mia prima vittima maschile. Svolgimento: “Commissario, abbiamo un problema”. Il commissario socchiuse gli occhi e rimase a lungo in silenzio. Potevo quasi sentire le rotelle dei suoi pensieri girare a vuoto. “E quale sarebbe?” rispose il commissario…
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