L'oggetto del maturo
di
morty
genere
gay
Non avrei mai pensato che finisse così: a gambe aperte, sudato, tremante, sotto il corpo di Fabio. Ma se ci penso… l’avevo voluto fin dall’inizio.
Fabio l’ho conosciuto tramite un mio amico: uno che sistemava vecchie radio, amplificatori, roba d’altri tempi. Ma io di quella roba me ne fregavo. Volevo solo rivedere quell’uomo con la camicia sempre sbottonata di troppo, la voce ruvida e le mani da artigiano che sembravano fatte per comandare. E per toccare.
Aveva 39 anni. Io 20. Ma non m’importava un cazzo.
Un giorno mi disse: «Se vuoi, vieni a casa mia. Ho un paio di cose che potresti imparare.»
Non era solo elettronica. Lo sapevamo tutti e due.
Casa sua era ordinata, silenziosa, maschile. Odorava di caffè, stagno, e pelle. Appena entrato, lui mi fissò. Uno sguardo lungo, sfacciato, come se stesse già spogliandomi con gli occhi.
«Ti piacciono le cose vecchie, eh?» disse con un mezzo sorriso.
«Dipende da quanto sanno fare con le mani.»
Lui non rispose. Si avvicinò. Lentamente. Io avevo il cuore che martellava, ma non mi tirai indietro. Anzi, lo volevo più vicino. Lo volevo addosso.
Mi prese per la nuca e mi baciò. Du-ro. Niente dolcezza. Niente esitazioni. Mi baciava come se fosse suo diritto, e io… io glielo lasciavo fare.
Mi spogliò lì, nel corridoio. Mi slacciò i jeans, tirandoli giù con forza. Le sue mani mi afferrarono il culo, stringendo, palpeggiando, esplorando. «Da quanto lo vuoi, eh?» mi ringhiò all’orecchio.
«Da sempre.»
Mi fece inginocchiare sul tappeto e si sbottonò i pantaloni. Il cazzo gli uscì già duro, spesso, grosso come avevo immaginato. Me lo sbatté sulle labbra.
«Apri. Voglio sentirti gemere mentre ti scopi la gola.»
Obbedii. Avevo la bocca piena di lui, gli occhi che lacrimavano mentre mi prendeva la testa con entrambe le mani e mi spingeva giù, lento, profondo. Non si fermava. Godeva nel sentirmi soffocare leggermente, gemeva basso, ruvido.
Quando lo tirò fuori, avevo la saliva che mi colava dal mento. Lui si abbassò, mi prese per i fianchi e mi spinse sul divano, a pancia in giù.
«Hai un culo che chiede solo di essere scopato, Simone.»
Sputò sulla mano, poi tra le mie chiappe. Mi preparò con due dita, spinte dentro senza troppi preamboli. Urlai piano, ma non volevo che si fermasse. Anzi. Lo volevo tutto.
E quando lo sentii allinearsi e spingere… cazzo. Era grosso. Mi apriva, mi prendeva. Una spinta lenta all’inizio, poi più forte. Mi afferrava per i fianchi e mi scopava come se non gliene fregasse niente del resto del mondo.
«Ti piace sentirti usato, vero?»
«Sì… scopami… più forte…»
Mi prendeva senza sosta. Colpi duri, profondi, mentre il suo respiro si faceva sempre più pesante. Sentivo il sudore sulla sua pelle, il calore del suo corpo che mi schiacciava. Mi trattava come una cosa sua.
Quando venni, lo feci senza toccarmi, urlando nel cuscino. E poco dopo, lo sentii esplodere dentro di me, ansimando il mio nome tra i denti.
Restammo così. Lui dentro di me. Io esausto. Ma completamente vivo.
Fabio mi baciò sulla schiena. «Non è finita, Simone. Non ho ancora finito con te.»
E io sapevo che l’avrei voluto ancora. Di nuovo. Più forte.
Fabio l’ho conosciuto tramite un mio amico: uno che sistemava vecchie radio, amplificatori, roba d’altri tempi. Ma io di quella roba me ne fregavo. Volevo solo rivedere quell’uomo con la camicia sempre sbottonata di troppo, la voce ruvida e le mani da artigiano che sembravano fatte per comandare. E per toccare.
Aveva 39 anni. Io 20. Ma non m’importava un cazzo.
Un giorno mi disse: «Se vuoi, vieni a casa mia. Ho un paio di cose che potresti imparare.»
Non era solo elettronica. Lo sapevamo tutti e due.
Casa sua era ordinata, silenziosa, maschile. Odorava di caffè, stagno, e pelle. Appena entrato, lui mi fissò. Uno sguardo lungo, sfacciato, come se stesse già spogliandomi con gli occhi.
«Ti piacciono le cose vecchie, eh?» disse con un mezzo sorriso.
«Dipende da quanto sanno fare con le mani.»
Lui non rispose. Si avvicinò. Lentamente. Io avevo il cuore che martellava, ma non mi tirai indietro. Anzi, lo volevo più vicino. Lo volevo addosso.
Mi prese per la nuca e mi baciò. Du-ro. Niente dolcezza. Niente esitazioni. Mi baciava come se fosse suo diritto, e io… io glielo lasciavo fare.
Mi spogliò lì, nel corridoio. Mi slacciò i jeans, tirandoli giù con forza. Le sue mani mi afferrarono il culo, stringendo, palpeggiando, esplorando. «Da quanto lo vuoi, eh?» mi ringhiò all’orecchio.
«Da sempre.»
Mi fece inginocchiare sul tappeto e si sbottonò i pantaloni. Il cazzo gli uscì già duro, spesso, grosso come avevo immaginato. Me lo sbatté sulle labbra.
«Apri. Voglio sentirti gemere mentre ti scopi la gola.»
Obbedii. Avevo la bocca piena di lui, gli occhi che lacrimavano mentre mi prendeva la testa con entrambe le mani e mi spingeva giù, lento, profondo. Non si fermava. Godeva nel sentirmi soffocare leggermente, gemeva basso, ruvido.
Quando lo tirò fuori, avevo la saliva che mi colava dal mento. Lui si abbassò, mi prese per i fianchi e mi spinse sul divano, a pancia in giù.
«Hai un culo che chiede solo di essere scopato, Simone.»
Sputò sulla mano, poi tra le mie chiappe. Mi preparò con due dita, spinte dentro senza troppi preamboli. Urlai piano, ma non volevo che si fermasse. Anzi. Lo volevo tutto.
E quando lo sentii allinearsi e spingere… cazzo. Era grosso. Mi apriva, mi prendeva. Una spinta lenta all’inizio, poi più forte. Mi afferrava per i fianchi e mi scopava come se non gliene fregasse niente del resto del mondo.
«Ti piace sentirti usato, vero?»
«Sì… scopami… più forte…»
Mi prendeva senza sosta. Colpi duri, profondi, mentre il suo respiro si faceva sempre più pesante. Sentivo il sudore sulla sua pelle, il calore del suo corpo che mi schiacciava. Mi trattava come una cosa sua.
Quando venni, lo feci senza toccarmi, urlando nel cuscino. E poco dopo, lo sentii esplodere dentro di me, ansimando il mio nome tra i denti.
Restammo così. Lui dentro di me. Io esausto. Ma completamente vivo.
Fabio mi baciò sulla schiena. «Non è finita, Simone. Non ho ancora finito con te.»
E io sapevo che l’avrei voluto ancora. Di nuovo. Più forte.
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