Deja-vu. Introduzione. O 0/4
di
Tosca
genere
pulp
Nota per me, per quando proverò a rileggerlo: ti ho fregata, cretina.
Adesso non ti puoi più tirare indietro.
Devi ballare fino alla fine.
Deja-vu.
Un’introduzione.
Sono passati sei anni da quando ho scritto, anzi, da quando ho iniziato a scrivere questo racconto.
Le prime parti sono sparse sul sito, scritte sotto lo pseudonimo Ylgr.
Colei che ulula. La donna lupo.
Insomma, ‘na brutta bestia.
Stavo manifestando i primi sintomi di quel crollo che sarebbe arrivato a breve, crollo aiutato dalla mole di lavoro arrivata col Covid e dalla morte dei miei genitori. A rileggere quello che scrivevo all’epoca, risulta fin troppo chiaro. Ma col senno di poi è facile, son bravi tutti.
Però, come ho scritto nell’altro racconto, mi son promessa di dare una chiusura a tutto quello che ho lasciato in sospeso. Ed ora tocca a lui. Deja-vu.
Deja-vu.
Un’introduzione.
Scusa (ti spiace se uso il tu? No, vero?), non ho resistito alla tentazione di ripetere la frase.
Per comodità, per facilitare la lettura ed evitare il muro di testo, ho suddiviso il racconto in quattro parti, una per ogni protagonista.
Che poi i protagonisti sono tre, la quarta è la conclusione, il pettine che districherà i nodi.
Ne pubblicherò una ad ogni luna nuova, rispettando lo spirito del racconto. Questa è, come ho scritto, solo un’introduzione, un modo per iniziare il racconto che ho riscritto, corretto e finalmente finito.
Questa è la promessa che ti faccio.
Grazie per il tempo che dedicherai alla lettura.
Un abbraccio.
Laura Francesca Tosca.
Lo Shameless bar ormai è deserto.
La festa è finita, la musica si è fermata, chi doveva festeggiare ha festeggiato, chi doveva scopare ha scopato e chi doveva sparire è sparito.
Di quello che sarebbe potuto essere questo albergo, delle sue potenzialità, lascio decidere a chi ha avuto modo di apprezzarlo.
A me, alla fine, non ha mosso interesse questo posto. Ok che qualche cinese (non ricordo quale, sono troppi e, a voler fare la battuta razzista potrei aggiungere che sono tutti simili. Ma non lo farò) ha detto che una ciotola è più utile quando è vuota, ma a me interessava ciò che c’era dentro questo contenitore di umanità.
E, a costo di passare per stronza snob, neppure tutto il contenuto.
Solo quelle poche pepite che non sarebbero passate tra le maglie del setaccio.
Io sono ancora lì.
Lui è ancora lì.
Due dinosauri che si sono ostinatamente rifiutati di andare avanti, evolversi o almeno fare un favore a tutti e diventare petrolio.
O due fantasmi.
Non l’ho mai capito, cosa siamo.
Non siamo amici, non siamo amanti, non siamo nemici e neppure semplici conoscenti.
È sempre stato complicato. O forse è così semplice che siamo noi troppo stupidi e riusciamo a rendere tutto incasinato.
È sempre lì, dietro il bancone.
Il barista, il regista silenzioso.
Quello che tutti apprezzano e che nessuno conosce sul serio.
Che sa i cazzi di tutti e tutte.
Se ne sta dietro il bancone perché ci tiene, a mantenere le distanze. È il suo personalissimo Vallo di Adriano.
È un introverso e accetto questa cosa.
La accetto, si, ma non la rispetto.
Perché io, quello che c’è dall’altra parte, lo voglio.
Ha ragione quell’altra, quando ha detto che ha il profumo che c'è lì. Gli deve essere rimasto addosso a furia di fare avanti e indietro, da buon onironauta.
Per l’occasione non ho indossato l’abito buono e neppure il camice.
Niente trucco se non quello che ho ancora su da ieri sera, che quando sono tornata non avevo voglia di struccarmi e ora sembro la testimonial del wwf.
Ma frega nulla.
Ho indossato la tuta viola e le sneakers e, per fargli e farmi capire che il tempo ora non conta, ho tolto anche l’orologio avuto in dono da mio padre per la specialistica.
E, che sia chiaro, non me ne separo mai. Mai.
-Con te son stata proprio una bella merda, ne’?
Probabilmente non è la frase migliore per iniziare una conversazione, ma è stata la prima cosa che mi è venuta in mente.
Mi siedo sullo sgabello e posati i gomiti sul bancone inizio il nostro solito gioco.
Le mie invasioni di campo, il suo ritirarsi.
Al quale segue di solito un suo contrattacco e la mia fuga.
Ma non si fugge questa volta.
Come a farmi il verso, posa le mani sul bancone e mi osserva, in silenzio.
Sostengo lo sguardo ma, nella testa, mi chiedo se è questa l’espressione che vorrei vedere sul suo viso.
Non riesco mai a decifrarlo sul serio e la cosa mi fa incazzare. Mi piace, mi piace da morire avere a che fare con lui, ma mi fa incazzare non riuscire a rigirarmelo come vorrei.
O forse è questa, la cosa che mi piace sul serio.
Non lo so.
È serio?
È incazzato?
C’ha i cazzi suoi per la testa?
Per fortuna accenna un sorriso e, come previsto, si ritrae un po'.
Il gioco è iniziato.
-Ho passato di peggio. E comunque capita a tutti, non facciamone un dramma.
Ecco, questo bancone vorrei e potrei scavalcarlo ora, per saltargli in braccio.
Ma non ci riesco, non è ancora il momento.
-comunque ieri l’ho assaggiato il coso lì, quello che hai detto. Lo Sparkling Bourbon. Avevi ragione, è meglio dei gincampari che bevevo ai tempi della facoltà. E non sono venuta qua per parlare di questo. Sono venuta qua
-Ce ne beviamo uno assieme?
Mi interrompe e devo fare una fatica bestia per non sclerare. Sono la prima a farlo nelle occasioni informali e, proprio per questo motivo, è una cosa che non sopporto.
Gli faccio cenno di si con la testa e rimango ad osservarlo.
Come cavolo riesca a mantenere la calma, a mostrarsi sempre composto lo sa solo lui.
Probabilmente è solo una cosa di facciata, dentro non può essere così di ghiaccio.
Un respiro profondo e, in barba alle regole dei duelli, approfitto del fatto mi stia dando le spalle mentre è intento a prendere i due bicchieri per fare la mia mossa.
-L’ho finita la storia, finalmente. Dopo te la racconto. Come è che io e te non siamo mai finiti a letto?
Ecco, brava Laura. Brava. Ora come minimo mi tira un bicchiere in faccia e scappa via.
Non fa nessuna delle due cose.
Fa solo spallucce e prima uno, poi l’altro, riempie i bicchieri.
Si volta solo dopo aver finito e, ne sono sicura, si è preso tutto il tempo per lasciarmi rosolare e pure sulle spine. Mi sono esposta e ora il coltello dalla parte del manico c'è l’ha lui.
L’ha sempre avuto lui.
Lo guardo in viso, lo sfido apertamente fissandolo ma sto qua non doveva fare lo scrittore. O l’antiquario. O quello che fa.
No.
Avrebbe dovuto fare il giocatore di poker.
Non ha il sangue freddo, ha proprio la faccia da culo.
Posa il bicchiere sul tavolo e, senza aspettarmi, inizia a bere dal suo.
Liquido trasparente, odore inconfondibile.
Gin, liscio.
Andiamo bene.
Prendo il bicchiere con la mano buona e, fanculo la dignità, mi scolo il contenuto.
Lo sento bruciare prima in gola, poi nello stomaco.
Chiudo gli occhi e, quando li riapro, lui è ancora lì.
Almeno non mi ha resa il favore ed è sparito.
-sentiamo sta storia.
Dai, un bel respiro profondo e iniziamo.
-I primi a chiamarlo in quel modo, furono i giornalisti.
In seguito, anche tra le mura delle centrali, iniziarono a chiamarlo così.
Willy Pete.
Alcuni provarono ad utilizzare Mangiafuoco, altri si fermarono a serial killer.
Ma Willy Pete, fu il nome con cui iniziarono a chiamarlo tutti.
Mai a voce alta, soprattutto all'avvicinarsi delle notti di luna nuova, per scaramanzia.
Non si nomina la tigre, nella giungla.
A farlo, prima o poi te la ritrovi davanti.
Per un lungo periodo, fu l'unica cosa che ebbero in mano, di suo.
Un nome.
Un nome che gli era stato affibbiato.
Nessun messaggio, nessuna rivendicazione, nessuna firma, nessuna sfida.
Nulla. Solo i cadaveri, o quel che ne rimaneva.
Una vittima, ogni luna nuova.
Con quella appena ritrovata, il conteggio delle vittime aveva appena raggiunto la doppia cifra.
"È un cazzo di bollettino di guerra. E la stiamo perdendo."
La rabbia per quel pensiero, le fece scordare l'odore. Lo spettacolo.
La nausea.
Non per molto.
All'accademia ti preparano, ti fanno sedere scomoda e ti fanno mangiare amaro, ma è il campo che ti fa rivedere i pasti.
Frasi fatte, sentite più volte nei primi anni provenire dai colleghi più anziani.
Parole tremendamente vere.
Malgrado avesse preso parte alle indagini dal loro inizio, il disgusto, la frustrazione non l'avevano ancora abbandonata.
L'Errore, quello con la e maiuscola.
Farne una questione personale.
Scambiò un'occhiata con il collega, un muto segno d'intesa, prima di chiamare i superiori.
Risposero al primo squillo e la cosa non la sorprese.
Espose in maniera asettica quanto rinvenuto, evitando con cura di far trapelare troppe emozioni con la voce.
Confermò la presenza della scientifica e il pieno rispetto di tutte le procedure, da parte di tutti i presenti.
La stampa sarebbe arrivata da li a breve e, con un po' di fortuna, l'avrebbe evitata, scaricando la patata bollente a chi di dovere.
O a chi sarebbe capitato suo malgrado sotto i riflettori.
Con le mani in tasca, protetta dal freddo dagli abiti pesanti, inspirò a fondo.
Stava respirando la stessa aria che aveva respirato lui?
Di sicuro stava pestando lo stesso suolo.
Cosa aveva provato?
Si era eccitato?
Di sicuro aveva programmato tutto.
Scosse il capo, scacciando i pensieri.
Non scambiarono una sola parola, durante il tragitto che li avrebbe ricondotti alla centrale.
Non ce ne fu bisogno.
Il collega rimase a redare il rapporto e lei, cedendogli volentieri l'onere, tornò a casa.
Mai sopportata la burocrazia.
Mai capita, la burocrazia.
Ascoltò la radio in auto, nel tornare a casa.
Cercò di coprire con la musica quell'unico pensiero, quell'unica domanda.
Quando abbiamo iniziato a dar la caccia ai fantasmi piromani?
Malgrado gli sforzi, non riuscì a non ripercorrere le tappe.
Quello che avevano scoperto.
Quel poco che avevamo scoperto.
Le dieci vittime non avevano alcun collegamento.
Erano state tutte bruciate vive, in luoghi isolati, durante le notti di luna nuova.
Quello ha contribuito all'origine del nome Willy Pete.
Come il fosforo bianco.
Il fatto fossero ancora vive venne confermato, fin da subito, dalla scientifica.
Cosa avrebbero potuto fare?
Indire il coprifuoco?
Sorrise tra se e se, amaramente, per l'involontario gioco di parole.
Entrò in casa, tolse le scarpe e abbracciò il marito.
Solo dopo, in bagno, dopo aver fatto la doccia, infilò la fede al dito, ripetendosi che avrebbe dovuto farla finita.
Cenarono assieme, sul divano, di fronte alla tv spenta.
Evitarono ogni riferimento al lavoro, alle loro giornate.
Era il loro accordo.
Più tardi, mentre il respiro di lui si faceva regolare nel sonno, lei rimase sotto le coperte, nuda accanto quell'uomo cui aveva giurato fedeltà.
Fissò a lungo la mano sinistra, l'anulare e l'anello che vi era infilato, mentre il seme di suo marito si andava raffreddando, sul suo ventre, poco distante dalla cicatrice.
Quella notte, sognò fiamme.
L'indomani, avrebbe ripreso la caccia al fantasma, mentre i suoi avrebbero cacciato lei, nel sonno.
Adesso non ti puoi più tirare indietro.
Devi ballare fino alla fine.
Deja-vu.
Un’introduzione.
Sono passati sei anni da quando ho scritto, anzi, da quando ho iniziato a scrivere questo racconto.
Le prime parti sono sparse sul sito, scritte sotto lo pseudonimo Ylgr.
Colei che ulula. La donna lupo.
Insomma, ‘na brutta bestia.
Stavo manifestando i primi sintomi di quel crollo che sarebbe arrivato a breve, crollo aiutato dalla mole di lavoro arrivata col Covid e dalla morte dei miei genitori. A rileggere quello che scrivevo all’epoca, risulta fin troppo chiaro. Ma col senno di poi è facile, son bravi tutti.
Però, come ho scritto nell’altro racconto, mi son promessa di dare una chiusura a tutto quello che ho lasciato in sospeso. Ed ora tocca a lui. Deja-vu.
Deja-vu.
Un’introduzione.
Scusa (ti spiace se uso il tu? No, vero?), non ho resistito alla tentazione di ripetere la frase.
Per comodità, per facilitare la lettura ed evitare il muro di testo, ho suddiviso il racconto in quattro parti, una per ogni protagonista.
Che poi i protagonisti sono tre, la quarta è la conclusione, il pettine che districherà i nodi.
Ne pubblicherò una ad ogni luna nuova, rispettando lo spirito del racconto. Questa è, come ho scritto, solo un’introduzione, un modo per iniziare il racconto che ho riscritto, corretto e finalmente finito.
Questa è la promessa che ti faccio.
Grazie per il tempo che dedicherai alla lettura.
Un abbraccio.
Laura Francesca Tosca.
Lo Shameless bar ormai è deserto.
La festa è finita, la musica si è fermata, chi doveva festeggiare ha festeggiato, chi doveva scopare ha scopato e chi doveva sparire è sparito.
Di quello che sarebbe potuto essere questo albergo, delle sue potenzialità, lascio decidere a chi ha avuto modo di apprezzarlo.
A me, alla fine, non ha mosso interesse questo posto. Ok che qualche cinese (non ricordo quale, sono troppi e, a voler fare la battuta razzista potrei aggiungere che sono tutti simili. Ma non lo farò) ha detto che una ciotola è più utile quando è vuota, ma a me interessava ciò che c’era dentro questo contenitore di umanità.
E, a costo di passare per stronza snob, neppure tutto il contenuto.
Solo quelle poche pepite che non sarebbero passate tra le maglie del setaccio.
Io sono ancora lì.
Lui è ancora lì.
Due dinosauri che si sono ostinatamente rifiutati di andare avanti, evolversi o almeno fare un favore a tutti e diventare petrolio.
O due fantasmi.
Non l’ho mai capito, cosa siamo.
Non siamo amici, non siamo amanti, non siamo nemici e neppure semplici conoscenti.
È sempre stato complicato. O forse è così semplice che siamo noi troppo stupidi e riusciamo a rendere tutto incasinato.
È sempre lì, dietro il bancone.
Il barista, il regista silenzioso.
Quello che tutti apprezzano e che nessuno conosce sul serio.
Che sa i cazzi di tutti e tutte.
Se ne sta dietro il bancone perché ci tiene, a mantenere le distanze. È il suo personalissimo Vallo di Adriano.
È un introverso e accetto questa cosa.
La accetto, si, ma non la rispetto.
Perché io, quello che c’è dall’altra parte, lo voglio.
Ha ragione quell’altra, quando ha detto che ha il profumo che c'è lì. Gli deve essere rimasto addosso a furia di fare avanti e indietro, da buon onironauta.
Per l’occasione non ho indossato l’abito buono e neppure il camice.
Niente trucco se non quello che ho ancora su da ieri sera, che quando sono tornata non avevo voglia di struccarmi e ora sembro la testimonial del wwf.
Ma frega nulla.
Ho indossato la tuta viola e le sneakers e, per fargli e farmi capire che il tempo ora non conta, ho tolto anche l’orologio avuto in dono da mio padre per la specialistica.
E, che sia chiaro, non me ne separo mai. Mai.
-Con te son stata proprio una bella merda, ne’?
Probabilmente non è la frase migliore per iniziare una conversazione, ma è stata la prima cosa che mi è venuta in mente.
Mi siedo sullo sgabello e posati i gomiti sul bancone inizio il nostro solito gioco.
Le mie invasioni di campo, il suo ritirarsi.
Al quale segue di solito un suo contrattacco e la mia fuga.
Ma non si fugge questa volta.
Come a farmi il verso, posa le mani sul bancone e mi osserva, in silenzio.
Sostengo lo sguardo ma, nella testa, mi chiedo se è questa l’espressione che vorrei vedere sul suo viso.
Non riesco mai a decifrarlo sul serio e la cosa mi fa incazzare. Mi piace, mi piace da morire avere a che fare con lui, ma mi fa incazzare non riuscire a rigirarmelo come vorrei.
O forse è questa, la cosa che mi piace sul serio.
Non lo so.
È serio?
È incazzato?
C’ha i cazzi suoi per la testa?
Per fortuna accenna un sorriso e, come previsto, si ritrae un po'.
Il gioco è iniziato.
-Ho passato di peggio. E comunque capita a tutti, non facciamone un dramma.
Ecco, questo bancone vorrei e potrei scavalcarlo ora, per saltargli in braccio.
Ma non ci riesco, non è ancora il momento.
-comunque ieri l’ho assaggiato il coso lì, quello che hai detto. Lo Sparkling Bourbon. Avevi ragione, è meglio dei gincampari che bevevo ai tempi della facoltà. E non sono venuta qua per parlare di questo. Sono venuta qua
-Ce ne beviamo uno assieme?
Mi interrompe e devo fare una fatica bestia per non sclerare. Sono la prima a farlo nelle occasioni informali e, proprio per questo motivo, è una cosa che non sopporto.
Gli faccio cenno di si con la testa e rimango ad osservarlo.
Come cavolo riesca a mantenere la calma, a mostrarsi sempre composto lo sa solo lui.
Probabilmente è solo una cosa di facciata, dentro non può essere così di ghiaccio.
Un respiro profondo e, in barba alle regole dei duelli, approfitto del fatto mi stia dando le spalle mentre è intento a prendere i due bicchieri per fare la mia mossa.
-L’ho finita la storia, finalmente. Dopo te la racconto. Come è che io e te non siamo mai finiti a letto?
Ecco, brava Laura. Brava. Ora come minimo mi tira un bicchiere in faccia e scappa via.
Non fa nessuna delle due cose.
Fa solo spallucce e prima uno, poi l’altro, riempie i bicchieri.
Si volta solo dopo aver finito e, ne sono sicura, si è preso tutto il tempo per lasciarmi rosolare e pure sulle spine. Mi sono esposta e ora il coltello dalla parte del manico c'è l’ha lui.
L’ha sempre avuto lui.
Lo guardo in viso, lo sfido apertamente fissandolo ma sto qua non doveva fare lo scrittore. O l’antiquario. O quello che fa.
No.
Avrebbe dovuto fare il giocatore di poker.
Non ha il sangue freddo, ha proprio la faccia da culo.
Posa il bicchiere sul tavolo e, senza aspettarmi, inizia a bere dal suo.
Liquido trasparente, odore inconfondibile.
Gin, liscio.
Andiamo bene.
Prendo il bicchiere con la mano buona e, fanculo la dignità, mi scolo il contenuto.
Lo sento bruciare prima in gola, poi nello stomaco.
Chiudo gli occhi e, quando li riapro, lui è ancora lì.
Almeno non mi ha resa il favore ed è sparito.
-sentiamo sta storia.
Dai, un bel respiro profondo e iniziamo.
-I primi a chiamarlo in quel modo, furono i giornalisti.
In seguito, anche tra le mura delle centrali, iniziarono a chiamarlo così.
Willy Pete.
Alcuni provarono ad utilizzare Mangiafuoco, altri si fermarono a serial killer.
Ma Willy Pete, fu il nome con cui iniziarono a chiamarlo tutti.
Mai a voce alta, soprattutto all'avvicinarsi delle notti di luna nuova, per scaramanzia.
Non si nomina la tigre, nella giungla.
A farlo, prima o poi te la ritrovi davanti.
Per un lungo periodo, fu l'unica cosa che ebbero in mano, di suo.
Un nome.
Un nome che gli era stato affibbiato.
Nessun messaggio, nessuna rivendicazione, nessuna firma, nessuna sfida.
Nulla. Solo i cadaveri, o quel che ne rimaneva.
Una vittima, ogni luna nuova.
Con quella appena ritrovata, il conteggio delle vittime aveva appena raggiunto la doppia cifra.
"È un cazzo di bollettino di guerra. E la stiamo perdendo."
La rabbia per quel pensiero, le fece scordare l'odore. Lo spettacolo.
La nausea.
Non per molto.
All'accademia ti preparano, ti fanno sedere scomoda e ti fanno mangiare amaro, ma è il campo che ti fa rivedere i pasti.
Frasi fatte, sentite più volte nei primi anni provenire dai colleghi più anziani.
Parole tremendamente vere.
Malgrado avesse preso parte alle indagini dal loro inizio, il disgusto, la frustrazione non l'avevano ancora abbandonata.
L'Errore, quello con la e maiuscola.
Farne una questione personale.
Scambiò un'occhiata con il collega, un muto segno d'intesa, prima di chiamare i superiori.
Risposero al primo squillo e la cosa non la sorprese.
Espose in maniera asettica quanto rinvenuto, evitando con cura di far trapelare troppe emozioni con la voce.
Confermò la presenza della scientifica e il pieno rispetto di tutte le procedure, da parte di tutti i presenti.
La stampa sarebbe arrivata da li a breve e, con un po' di fortuna, l'avrebbe evitata, scaricando la patata bollente a chi di dovere.
O a chi sarebbe capitato suo malgrado sotto i riflettori.
Con le mani in tasca, protetta dal freddo dagli abiti pesanti, inspirò a fondo.
Stava respirando la stessa aria che aveva respirato lui?
Di sicuro stava pestando lo stesso suolo.
Cosa aveva provato?
Si era eccitato?
Di sicuro aveva programmato tutto.
Scosse il capo, scacciando i pensieri.
Non scambiarono una sola parola, durante il tragitto che li avrebbe ricondotti alla centrale.
Non ce ne fu bisogno.
Il collega rimase a redare il rapporto e lei, cedendogli volentieri l'onere, tornò a casa.
Mai sopportata la burocrazia.
Mai capita, la burocrazia.
Ascoltò la radio in auto, nel tornare a casa.
Cercò di coprire con la musica quell'unico pensiero, quell'unica domanda.
Quando abbiamo iniziato a dar la caccia ai fantasmi piromani?
Malgrado gli sforzi, non riuscì a non ripercorrere le tappe.
Quello che avevano scoperto.
Quel poco che avevamo scoperto.
Le dieci vittime non avevano alcun collegamento.
Erano state tutte bruciate vive, in luoghi isolati, durante le notti di luna nuova.
Quello ha contribuito all'origine del nome Willy Pete.
Come il fosforo bianco.
Il fatto fossero ancora vive venne confermato, fin da subito, dalla scientifica.
Cosa avrebbero potuto fare?
Indire il coprifuoco?
Sorrise tra se e se, amaramente, per l'involontario gioco di parole.
Entrò in casa, tolse le scarpe e abbracciò il marito.
Solo dopo, in bagno, dopo aver fatto la doccia, infilò la fede al dito, ripetendosi che avrebbe dovuto farla finita.
Cenarono assieme, sul divano, di fronte alla tv spenta.
Evitarono ogni riferimento al lavoro, alle loro giornate.
Era il loro accordo.
Più tardi, mentre il respiro di lui si faceva regolare nel sonno, lei rimase sotto le coperte, nuda accanto quell'uomo cui aveva giurato fedeltà.
Fissò a lungo la mano sinistra, l'anulare e l'anello che vi era infilato, mentre il seme di suo marito si andava raffreddando, sul suo ventre, poco distante dalla cicatrice.
Quella notte, sognò fiamme.
L'indomani, avrebbe ripreso la caccia al fantasma, mentre i suoi avrebbero cacciato lei, nel sonno.
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