La terapia
di
Gentlemanbastard667
genere
confessioni
Cap1
La terapia.
Lei entrò nello studio con il passo sicuro di chi è abituata a controllare ogni cosa. Tacchi sottili, un tailleur elegante, capelli raccolti con una precisione quasi maniacale. Era bella, in un modo sofisticato,ma c’era rigidità nelle sue spalle, come se portasse un peso che nessuno doveva vedere.
Lo trovò in piedi, accanto a una poltrona di pelle nera. Non dietro la scrivania, non in una posizione distante, ma vicino, in un punto studiato con attenzione. Lui era alto, imponente, vicino ai due metri, con un corpo possente ma perfettamente proporzionato. Il suo viso era scolpito da tratti decisi, e la pelle rasata metteva in risalto la linea forte della mascella. Nessun capello da spettinare, nessuna esitazione nei movimenti. Indossava solo una camicia nera, sbottonata quel tanto che bastava per rivelare il collo robusto e la forza contenuta sotto il tessuto.
Lo studio era semplice, essenziale, ma ogni dettaglio parlava di lui. Pareti di un grigio profondo, librerie in legno scuro, pochissimi oggetti in vista. Un tatami arrotolato in un angolo accennava alla sua seconda vita.
Nessun eccesso, nessuna distrazione. Solo spazio, ordine, e la sensazione che lì dentro tutto fosse sotto il suo controllo.
Lei si fermò davanti a lui.
— Si accomodi.
La sua voce era profonda, senza fretta. Lei si sedette, lisciandosi la gonna con un gesto automatico, mentre lui fece lo stesso accanto a lei, lasciando tra loro solo pochi centimetri di distanza. Non troppo vicini, non troppo lontani. Quanto bastava per farle sentire la sua presenza senza toccarla.
— Sa già perché sono qui, immagino.
Lui la guardò. Uno sguardo diretto, che non lasciava scampo.
— Voglio sentirlo dire da te.
Un piccolo silenzio. Il primo di tanti. Lei si umettò le labbra.
— Una mia amica mi ha detto di venire.
Lui non rispose subito. Non c’era sorpresa nei suoi occhi.
— E tu hai sempre bisogno che qualcuno ti dica cosa fare?
Lei irrigidì la schiena.
— No.
— E allora perché sei qui?
Per un attimo non seppe cosa rispondere. Poi abbassò lo sguardo, come se ammetterlo a se stessa fosse più difficile che dirlo a lui.
— Perché lei mi ha detto che la sua vita è totalmente cambiata. Ha detto di aver scoperto una nuova parte di sé. Di aver trovato… una libertà che non credeva possibile.
Lui restò in silenzio per un lungo istante, lasciando che le sue parole si facessero spazio dentro di lei. Poi parlò, con la stessa calma di sempre.
— E tu vuoi essere libera?
Lei esitò, le mani che si stringevano appena sulle ginocchia.
— Io… non so cosa voglio.
Lui la osservò, senza intervenire, senza interromperla. Lei distolse lo sguardo, fissando un punto indefinito davanti a sé.
— Ho una vita normale. Un matrimonio stabile. Mio marito è un uomo perbene, lavora molto, è rispettabile. Abbiamo una casa grande, due figli adolescenti, una routine solida. Vacanze, cene con gli amici, doveri. Tutto è… come dovrebbe essere.
Mentre parlava, le sue dita si chiusero attorno al bordo della gonna, stringendolo con più forza del necessario. Le spalle si inarcarono appena in avanti, quasi a proteggersi, e una gamba si accavallò sull’altra con un gesto rigido, difensivo. Si leccò le labbra, un tic involontario che scomparve subito nel tentativo di mantenere il controllo.
— Come dovrebbe essere.
Lui ripeté le sue parole con calma, senza alzare il tono, senza giudizio. Ma la sua voce aveva un peso. Un’inflessione appena percettibile, il suono di chi vede qualcosa di invisibile agli altri. Lei sentì un brivido salirle lungo la schiena.
— Sì. Non mi manca nulla.
— E allora perché sei qui?
Lentamente, lui inclinò appena il capo, studiandola. I suoi occhi non erano semplicemente scuri, ma profondi, impenetrabili. Non esprimevano fretta, non cercavano di strapparle una risposta, eppure sembravano già sapere.
Lei si irrigidì. La sua mano si mosse appena, come per sistemare un ciuffo inesistente dietro l’orecchio, ma in realtà era solo un modo per sfuggire a quello sguardo. Il battito nel petto accelerò, fastidioso. Lui la vedeva. La vedeva davvero, in un modo a cui non era abituata.
Il silenzio si allungò tra loro. Il suo istinto le diceva di riempirlo, di giustificarsi, di razionalizzare. Ma lui non le dava quella via d’uscita.
Lui rimase fermo, la postura rilassata, ma con un’intensità palpabile.
Lei sentiva il battito nel petto accelerare, fastidioso, come se il suo stesso corpo stesse tradendo lo sforzo di restare composta.
Poi lui si mosse. Lentamente, senza fretta. Si alzò, facendo scivolare una mano lungo il bordo della poltrona, lasciandole un attimo di spazio per respirare.
— Vuoi bere qualcosa?
La domanda arrivò con naturalezza, senza pressione. Lei sollevò lo sguardo
-Quanto può essere normale offrire da bere ad una cliente?
Lui si voltò a guardarla mentre apriva un mobile bar, un accenno di sorriso sul volto.
— Io non sono normale.
La sua voce era bassa, pacata, ma con una certezza assoluta. Versò un dito di liquore in un bicchiere e lo porse verso di lei.
— Un goccio di qualsiasi bevanda tu preferisca dà acqua a qualcosa di più forte.
Lei esitò, poi prese il bicchiere tra le dita. Lui non aggiunse altro. Solo attese, lasciandole il tempo di comprendere che quel gesto era una premura.
Lei abbassò lo sguardo sul bicchiere, poi tirò un respiro lento, profondo. Non si era nemmeno accorta di quanto fosse tesa fino a quel momento.
Portò il bicchiere alle labbra senza fretta, assaporando il calore della bevanda. Un gesto semplice, quasi un rituale. Quando rialzò lo sguardo, lui era ancora lì, immobile, gli occhi puntati su di lei con la stessa intensità di sempre.
Ma ora qualcosa dentro di lei era cambiato. Non era più solo in difesa.
— Beh… grazie. Davvero, non so che dire.
Lui sorrise appena, inclinando il capo con amabilità, senza fretta.
— Beh, intanto potresti rivelarmi il tuo nome, che non mi hai ancora detto.
Lei sgranò leggermente gli occhi, sorpresa dalla semplicità della richiesta. Poi abbassò lo sguardo, sorridendo appena, quasi imbarazzata per la sua stessa dimenticanza.
— Giulia. Mi chiamo Giulia.
— Piacere, Giulia.
La sua voce avvolse il suo nome come se lo assaporasse. Come se fosse qualcosa che ora gli apparteneva.
Lui la osservò per un istante, poi prese un sorso dal proprio bicchiere senza distogliere lo sguardo.
— Giulia… È un nome che si adatta a te. Elegante, ma con qualcosa che ancora non mostri del tutto.
Lei abbassò gli occhi per un attimo, come se quelle parole l’avessero sfiorata più di quanto volesse ammettere.
Lui continuò con la sua solita voce pacata, priva di qualsiasi fretta.
— Sai, Giulia… La maggior parte delle persone pensa di conoscersi davvero. Di sapere chi sono, cosa vogliono, cosa li rende felici. Ma poi basta un dettaglio, un incontro, un momento fuori dall’ordinario… e tutto cambia.
Fece una breve pausa, lasciando che quelle parole scivolassero dentro di lei. Poi poggiò il bicchiere sul tavolino accanto a lui, senza mai rompere il contatto visivo.
— Sei qui perché senti che qualcosa manca. Non perché qualcuno te l’ha detto, non perché è una curiosità passeggera. Sei qui perché dentro di te lo sai già.
L’aria nella stanza sembrava farsi più densa. Giulia inspirò piano, come per trattenere una risposta che non era ancora pronta a dare. Ma lui non aveva bisogno che rispondesse subito. Aveva tutto il tempo del mondo.
Si accarezzò distrattamente il bordo del bicchiere con un dito, lasciando che il calore della bevanda le scaldasse le mani. Stranamente, sentiva il corpo rilassarsi, le spalle sciogliersi, il respiro farsi più fluido.
Era insolito. Era… nuovo.
Alzò lo sguardo su di lui, incerta, come se stesse cercando di capire cosa la stesse facendo sentire in quel modo.
— È strano. Mi sento… a mio agio.
Le parole uscirono quasi con sorpresa, come se solo pronunciandole si rendesse conto di quanto fosse raro, di quanto non le capitasse da tempo. O forse, pensò, non le era mai capitato davvero.
Si bagnò appena le labbra, gli occhi che vagavano nella stanza come se cercassero un appiglio.
— Sento che potrei dire tutto. Tutto ciò che mi angoscia, tutto quello che mi pesa.
Si interruppe, stringendo il bicchiere tra le mani.
— Ma non trovo le parole.
Un attimo di silenzio.
Lui non la incalzò, non cercò di colmare quello spazio vuoto. Si limitò a osservarla, lasciandole il tempo di sentire quel momento fino in fondo. Senza forzarla, senza fretta.
E nel silenzio, Giulia capì che non era necessario affrettarsi. Che avrebbe trovato le parole quando fosse stata pronta.
Lui sorrise appena.
— Sono già soddisfatto di quello che hai raggiunto oggi.
Lei lo guardò, incerta. Com’era possibile? Non aveva detto quasi nulla. Eppure, nel modo in cui lui la osservava, c’era la certezza che avesse già visto tutto.
— Possiamo rivederci la settimana prossima.
Poi lui si alzò. Un gesto semplice, eppure il suo movimento sembrò dominare l’intera stanza. Il suo corpo riempiva lo spazio con un’aura indiscutibile di controllo. E Giulia lo sentì.
Lo sentì su di sé.
Un brivido le percorse la schiena, una scarica elettrica di paura ed eccitazione, mescolate in un modo che la lasciò senza fiato. E prima ancora di rendersi conto di cosa stesse facendo, anche lei si alzò.
Come in trance.
Come se un comando silenzioso l’avesse attraversata, un impulso inconscio e imperioso che il suo corpo non poteva ignorare.
Lui fece un passo verso di lei, accorciando le distanze quel tanto che bastava perché potesse percepire la sua presenza con ogni fibra del suo essere. Poi, senza bisogno di spiegazioni, le porse un piccolo biglietto.
— Ci vediamo la settimana prossima. Per allora dovrai solo trovare il tempo di recarti in questo posto.
Giulia abbassò lo sguardo sul biglietto, il cuore che le batteva forte. Un indirizzo. Un numero di cellulare.
— Chiama prima di recarti lì.
Le sue parole erano chiare, definitive. Non una richiesta. Un dato di fatto.
Lei deglutì, sollevando lo sguardo per incontrare i suoi occhi. Il calore che la invase fu così improvviso e intenso da lasciarla senza fiato. La sua eccitazione crebbe in un’ondata incontrollabile, esplodendo in una sensazione così fisica che la avvertì chiaramente tra le gambe.
Non riuscì a dire nulla. Solo annuire. Solo restare lì, davanti a lui, sapendo che ormai era entrata in un gioco più grande di lei. E che lui ne deteneva tutte le regole.
Lui si avvicinò ancora di un passo, poi con lentezza sfiorò le sue labbra con il pollice, raccogliendo una goccia di liquore rimasta lì. Un tocco leggero, eppure carico di intenzione.
Giulia trattenne il respiro mentre lo osservava portare il dito alle proprie labbra, assaporando quella goccia con la stessa calma con cui l’aveva tolta.
Poi, senza aggiungere altro, si voltò e tornò a sedersi dietro la scrivania.
— Alla prossima settimana, Giulia.
Lei uscì dallo studio con il cuore ancora in gola. Fissò in fretta l’appuntamento con la segretaria, poi scese le scale di corsa per chiudersi in macchina.
Il desiderio la divorava, il suo corpo pulsava di bisogno. Con un respiro tremante, infilò la mano sotto la gonna e raggiunse l’orgasmo in pochi secondi.
Quando il piacere si placò, riordinò i pensieri e accese l’auto. Ma prima di partire, alzò lo sguardo verso lo studio.
Lui era lì, alla finestra.
Per pochi secondi i loro occhi si incontrarono. Poi lui sparì dietro le tende.
Giulia, scossa, mise in moto e si immerse nel traffico. Fuggendo da ciò che aveva appena vissuto. O forse, da ciò che stava per iniziare.
(Gentlemanbastard@libero.it)
La terapia.
Lei entrò nello studio con il passo sicuro di chi è abituata a controllare ogni cosa. Tacchi sottili, un tailleur elegante, capelli raccolti con una precisione quasi maniacale. Era bella, in un modo sofisticato,ma c’era rigidità nelle sue spalle, come se portasse un peso che nessuno doveva vedere.
Lo trovò in piedi, accanto a una poltrona di pelle nera. Non dietro la scrivania, non in una posizione distante, ma vicino, in un punto studiato con attenzione. Lui era alto, imponente, vicino ai due metri, con un corpo possente ma perfettamente proporzionato. Il suo viso era scolpito da tratti decisi, e la pelle rasata metteva in risalto la linea forte della mascella. Nessun capello da spettinare, nessuna esitazione nei movimenti. Indossava solo una camicia nera, sbottonata quel tanto che bastava per rivelare il collo robusto e la forza contenuta sotto il tessuto.
Lo studio era semplice, essenziale, ma ogni dettaglio parlava di lui. Pareti di un grigio profondo, librerie in legno scuro, pochissimi oggetti in vista. Un tatami arrotolato in un angolo accennava alla sua seconda vita.
Nessun eccesso, nessuna distrazione. Solo spazio, ordine, e la sensazione che lì dentro tutto fosse sotto il suo controllo.
Lei si fermò davanti a lui.
— Si accomodi.
La sua voce era profonda, senza fretta. Lei si sedette, lisciandosi la gonna con un gesto automatico, mentre lui fece lo stesso accanto a lei, lasciando tra loro solo pochi centimetri di distanza. Non troppo vicini, non troppo lontani. Quanto bastava per farle sentire la sua presenza senza toccarla.
— Sa già perché sono qui, immagino.
Lui la guardò. Uno sguardo diretto, che non lasciava scampo.
— Voglio sentirlo dire da te.
Un piccolo silenzio. Il primo di tanti. Lei si umettò le labbra.
— Una mia amica mi ha detto di venire.
Lui non rispose subito. Non c’era sorpresa nei suoi occhi.
— E tu hai sempre bisogno che qualcuno ti dica cosa fare?
Lei irrigidì la schiena.
— No.
— E allora perché sei qui?
Per un attimo non seppe cosa rispondere. Poi abbassò lo sguardo, come se ammetterlo a se stessa fosse più difficile che dirlo a lui.
— Perché lei mi ha detto che la sua vita è totalmente cambiata. Ha detto di aver scoperto una nuova parte di sé. Di aver trovato… una libertà che non credeva possibile.
Lui restò in silenzio per un lungo istante, lasciando che le sue parole si facessero spazio dentro di lei. Poi parlò, con la stessa calma di sempre.
— E tu vuoi essere libera?
Lei esitò, le mani che si stringevano appena sulle ginocchia.
— Io… non so cosa voglio.
Lui la osservò, senza intervenire, senza interromperla. Lei distolse lo sguardo, fissando un punto indefinito davanti a sé.
— Ho una vita normale. Un matrimonio stabile. Mio marito è un uomo perbene, lavora molto, è rispettabile. Abbiamo una casa grande, due figli adolescenti, una routine solida. Vacanze, cene con gli amici, doveri. Tutto è… come dovrebbe essere.
Mentre parlava, le sue dita si chiusero attorno al bordo della gonna, stringendolo con più forza del necessario. Le spalle si inarcarono appena in avanti, quasi a proteggersi, e una gamba si accavallò sull’altra con un gesto rigido, difensivo. Si leccò le labbra, un tic involontario che scomparve subito nel tentativo di mantenere il controllo.
— Come dovrebbe essere.
Lui ripeté le sue parole con calma, senza alzare il tono, senza giudizio. Ma la sua voce aveva un peso. Un’inflessione appena percettibile, il suono di chi vede qualcosa di invisibile agli altri. Lei sentì un brivido salirle lungo la schiena.
— Sì. Non mi manca nulla.
— E allora perché sei qui?
Lentamente, lui inclinò appena il capo, studiandola. I suoi occhi non erano semplicemente scuri, ma profondi, impenetrabili. Non esprimevano fretta, non cercavano di strapparle una risposta, eppure sembravano già sapere.
Lei si irrigidì. La sua mano si mosse appena, come per sistemare un ciuffo inesistente dietro l’orecchio, ma in realtà era solo un modo per sfuggire a quello sguardo. Il battito nel petto accelerò, fastidioso. Lui la vedeva. La vedeva davvero, in un modo a cui non era abituata.
Il silenzio si allungò tra loro. Il suo istinto le diceva di riempirlo, di giustificarsi, di razionalizzare. Ma lui non le dava quella via d’uscita.
Lui rimase fermo, la postura rilassata, ma con un’intensità palpabile.
Lei sentiva il battito nel petto accelerare, fastidioso, come se il suo stesso corpo stesse tradendo lo sforzo di restare composta.
Poi lui si mosse. Lentamente, senza fretta. Si alzò, facendo scivolare una mano lungo il bordo della poltrona, lasciandole un attimo di spazio per respirare.
— Vuoi bere qualcosa?
La domanda arrivò con naturalezza, senza pressione. Lei sollevò lo sguardo
-Quanto può essere normale offrire da bere ad una cliente?
Lui si voltò a guardarla mentre apriva un mobile bar, un accenno di sorriso sul volto.
— Io non sono normale.
La sua voce era bassa, pacata, ma con una certezza assoluta. Versò un dito di liquore in un bicchiere e lo porse verso di lei.
— Un goccio di qualsiasi bevanda tu preferisca dà acqua a qualcosa di più forte.
Lei esitò, poi prese il bicchiere tra le dita. Lui non aggiunse altro. Solo attese, lasciandole il tempo di comprendere che quel gesto era una premura.
Lei abbassò lo sguardo sul bicchiere, poi tirò un respiro lento, profondo. Non si era nemmeno accorta di quanto fosse tesa fino a quel momento.
Portò il bicchiere alle labbra senza fretta, assaporando il calore della bevanda. Un gesto semplice, quasi un rituale. Quando rialzò lo sguardo, lui era ancora lì, immobile, gli occhi puntati su di lei con la stessa intensità di sempre.
Ma ora qualcosa dentro di lei era cambiato. Non era più solo in difesa.
— Beh… grazie. Davvero, non so che dire.
Lui sorrise appena, inclinando il capo con amabilità, senza fretta.
— Beh, intanto potresti rivelarmi il tuo nome, che non mi hai ancora detto.
Lei sgranò leggermente gli occhi, sorpresa dalla semplicità della richiesta. Poi abbassò lo sguardo, sorridendo appena, quasi imbarazzata per la sua stessa dimenticanza.
— Giulia. Mi chiamo Giulia.
— Piacere, Giulia.
La sua voce avvolse il suo nome come se lo assaporasse. Come se fosse qualcosa che ora gli apparteneva.
Lui la osservò per un istante, poi prese un sorso dal proprio bicchiere senza distogliere lo sguardo.
— Giulia… È un nome che si adatta a te. Elegante, ma con qualcosa che ancora non mostri del tutto.
Lei abbassò gli occhi per un attimo, come se quelle parole l’avessero sfiorata più di quanto volesse ammettere.
Lui continuò con la sua solita voce pacata, priva di qualsiasi fretta.
— Sai, Giulia… La maggior parte delle persone pensa di conoscersi davvero. Di sapere chi sono, cosa vogliono, cosa li rende felici. Ma poi basta un dettaglio, un incontro, un momento fuori dall’ordinario… e tutto cambia.
Fece una breve pausa, lasciando che quelle parole scivolassero dentro di lei. Poi poggiò il bicchiere sul tavolino accanto a lui, senza mai rompere il contatto visivo.
— Sei qui perché senti che qualcosa manca. Non perché qualcuno te l’ha detto, non perché è una curiosità passeggera. Sei qui perché dentro di te lo sai già.
L’aria nella stanza sembrava farsi più densa. Giulia inspirò piano, come per trattenere una risposta che non era ancora pronta a dare. Ma lui non aveva bisogno che rispondesse subito. Aveva tutto il tempo del mondo.
Si accarezzò distrattamente il bordo del bicchiere con un dito, lasciando che il calore della bevanda le scaldasse le mani. Stranamente, sentiva il corpo rilassarsi, le spalle sciogliersi, il respiro farsi più fluido.
Era insolito. Era… nuovo.
Alzò lo sguardo su di lui, incerta, come se stesse cercando di capire cosa la stesse facendo sentire in quel modo.
— È strano. Mi sento… a mio agio.
Le parole uscirono quasi con sorpresa, come se solo pronunciandole si rendesse conto di quanto fosse raro, di quanto non le capitasse da tempo. O forse, pensò, non le era mai capitato davvero.
Si bagnò appena le labbra, gli occhi che vagavano nella stanza come se cercassero un appiglio.
— Sento che potrei dire tutto. Tutto ciò che mi angoscia, tutto quello che mi pesa.
Si interruppe, stringendo il bicchiere tra le mani.
— Ma non trovo le parole.
Un attimo di silenzio.
Lui non la incalzò, non cercò di colmare quello spazio vuoto. Si limitò a osservarla, lasciandole il tempo di sentire quel momento fino in fondo. Senza forzarla, senza fretta.
E nel silenzio, Giulia capì che non era necessario affrettarsi. Che avrebbe trovato le parole quando fosse stata pronta.
Lui sorrise appena.
— Sono già soddisfatto di quello che hai raggiunto oggi.
Lei lo guardò, incerta. Com’era possibile? Non aveva detto quasi nulla. Eppure, nel modo in cui lui la osservava, c’era la certezza che avesse già visto tutto.
— Possiamo rivederci la settimana prossima.
Poi lui si alzò. Un gesto semplice, eppure il suo movimento sembrò dominare l’intera stanza. Il suo corpo riempiva lo spazio con un’aura indiscutibile di controllo. E Giulia lo sentì.
Lo sentì su di sé.
Un brivido le percorse la schiena, una scarica elettrica di paura ed eccitazione, mescolate in un modo che la lasciò senza fiato. E prima ancora di rendersi conto di cosa stesse facendo, anche lei si alzò.
Come in trance.
Come se un comando silenzioso l’avesse attraversata, un impulso inconscio e imperioso che il suo corpo non poteva ignorare.
Lui fece un passo verso di lei, accorciando le distanze quel tanto che bastava perché potesse percepire la sua presenza con ogni fibra del suo essere. Poi, senza bisogno di spiegazioni, le porse un piccolo biglietto.
— Ci vediamo la settimana prossima. Per allora dovrai solo trovare il tempo di recarti in questo posto.
Giulia abbassò lo sguardo sul biglietto, il cuore che le batteva forte. Un indirizzo. Un numero di cellulare.
— Chiama prima di recarti lì.
Le sue parole erano chiare, definitive. Non una richiesta. Un dato di fatto.
Lei deglutì, sollevando lo sguardo per incontrare i suoi occhi. Il calore che la invase fu così improvviso e intenso da lasciarla senza fiato. La sua eccitazione crebbe in un’ondata incontrollabile, esplodendo in una sensazione così fisica che la avvertì chiaramente tra le gambe.
Non riuscì a dire nulla. Solo annuire. Solo restare lì, davanti a lui, sapendo che ormai era entrata in un gioco più grande di lei. E che lui ne deteneva tutte le regole.
Lui si avvicinò ancora di un passo, poi con lentezza sfiorò le sue labbra con il pollice, raccogliendo una goccia di liquore rimasta lì. Un tocco leggero, eppure carico di intenzione.
Giulia trattenne il respiro mentre lo osservava portare il dito alle proprie labbra, assaporando quella goccia con la stessa calma con cui l’aveva tolta.
Poi, senza aggiungere altro, si voltò e tornò a sedersi dietro la scrivania.
— Alla prossima settimana, Giulia.
Lei uscì dallo studio con il cuore ancora in gola. Fissò in fretta l’appuntamento con la segretaria, poi scese le scale di corsa per chiudersi in macchina.
Il desiderio la divorava, il suo corpo pulsava di bisogno. Con un respiro tremante, infilò la mano sotto la gonna e raggiunse l’orgasmo in pochi secondi.
Quando il piacere si placò, riordinò i pensieri e accese l’auto. Ma prima di partire, alzò lo sguardo verso lo studio.
Lui era lì, alla finestra.
Per pochi secondi i loro occhi si incontrarono. Poi lui sparì dietro le tende.
Giulia, scossa, mise in moto e si immerse nel traffico. Fuggendo da ciò che aveva appena vissuto. O forse, da ciò che stava per iniziare.
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