Una fottuta dipendenza

di
genere
gay

Ero stato spinto, anzi schiacciato, letteralmente incastrato contro una pila instabile di scatole, roba dimenticata da chissà chi, ammassata in quel lurido vicolo dietro il club, proprio lì dove il mondo smetteva di preoccuparsi di ciò che succedeva, e con i pantaloni abbassati fino a metà coscia, me ne stavo lì, più vulnerabile di un pesce che sguazza nella rete del pescatore.

Il tipo dietro di me, beh, era un mostro, almeno venti centimetri più alto di me, muscoloso come un toro in piena carica, e non perse tempo a mostrarmi chi avrebbe condotto il gioco. Mi scaraventò contro quelle scatole come se non fossi altro che un sacco vuoto, e in un attimo, senza la minima esitazione, mi ha tirò giù i pantaloni, la mossa rapida di chi sa il fatto suo. E poi, come se niente fosse, si slacciò i jeans, come chi sta per prendersi ciò che aveva già deciso che fosse suo.

Mi voltai, o meglio, tentai di voltarmi il più possibile in quella posizione del cazzo, e lì lo vidi, quell’uccello lungo e grosso, lucido del lubrificante che stava spalmando con una calma inquietante e cerimoniale.
I nostri sguardi si incrociarono. Lui sorrise, un sorriso che trasudava arroganza, lo sceneggiatore era lui.
"Pronta, troia?" mi chiese, ma non era proprio una domanda, bensì un'affermazione travestita. Non avevo molte opzioni, cazzo.
Mi leccai le labbra, annuii: "Andiamo, tanto siamo qui, no?"
Si avvicinò, e lo sentii, oh se lo sentii, quell’uccello lubrificato che cominciava a strofinarsi contro la fessura del mio culo, un movimento lento, metodico, fatto apposta per ricordarmi ogni secondo cosa stava per succedere. Lo posizionò lì, proprio sul mio buco, con precisione chirurgica, e cominciò a spingere, piano, ma inesorabile. Non c’era scampo, non c’era nemmeno il tempo di cambiare idea. Non che volessi, per carità.

Era solo mezz'ora prima, o forse anche meno, che lo vidi nel club, mentre ballava come se il mondo intero fosse il suo personale palcoscenico. Lo osservai, lo scrutai, lo studiai attentamente per alcuni minuti, cercando di carpire ogni dettaglio dei suoi movimenti, ogni sfumatura di quel sorriso sicuro che portava stampato in faccia. Poi, con un sorriso, mi avvicinai a lui.
Cominciammo a ballare, il solito gioco. Tentammo di parlare sopra la musica assordante che rimbombava ovunque, un’onda sonora che faceva vibrare le ossa, ma alla fine chi parlava davvero? I nostri sorrisi fecero tutto il lavoro, uno scambio muto di intenzioni, un linguaggio silenzioso che non necessitava di parole, né tantomeno di traduzione.
E poi, cazzo, non ce la feci più. Salii in punta di piedi, presi il suo viso tra le mani con una decisione che non sapevo di avere, e baciai quelle labbra dure, come se volessi imprimere un marchio. Gli urlai nell’orecchio, sovrastando la musica, come un pazzo che conosceva già il destino che l’attendeva: "Usciamo!"

Sentii quella mano, pesante come un macigno, piantarsi con forza nella parte centrale della mia schiena, un gesto rapido, preciso, che non lasciava spazio a dubbi. La pressione mi schiacciò contro la pila di scatole, inchiodandomi lì, senza via di fuga. Non c'era modo di resistere, mi sembrava di essere un ragazzino bloccato dalla presa ferrea di un padre furioso, impotente di fronte a quella forza che mi immobilizzava. Poi, cristo, sentii il mio buco del culo dilatarsi sotto la spinta inesorabile di quell’uccello che premeva contro di esso, sempre più forte, sempre più deciso. Era come se il tempo si fosse rallentato, ogni secondo dilatato in un'eternità di sensazioni contrastanti.
E io, cazzo, non potevo fare altro che gemere, un suono strozzato che moriva contro il colletto della mia giacca, che mordicchiavo disperatamente per non urlare.
Perché chi cazzo voleva essere sentito in un posto del genere? Chi voleva far sapere al mondo che cosa stava succedendo in quel vicolo, dietro il club, in quel frammento di realtà che sembrava sospeso fuori dal tempo?

Lui continuava a spingere, con una determinazione spaventosa, ed io sentii ogni singolo millimetro de suo uccello attraversare lo stretto anello di muscoli del mio culo. Il dolore e il piacere si fusero insieme, in un groviglio indistricabile che esplodeva nella mia mente come una reazione chimica incontrollata. Spingeva dentro, tirava indietro, poi spingeva ancora più a fondo, e ad ogni colpo, ad ogni singola cazzo di spinta, scuoteva il mio corpo, quel corpo snello e fragile che sembrava privo di volontà, in balia di quelle forze primordiali.

Le scatole tremavano sotto il mio peso, oscillavano pericolosamente, ma non crollavano. E lui, gemendo e grugnendo come un animale, continuava ad affondare il suo grosso uccello, sempre più in profondità nel mio sfintere, come se non ci fosse mai una fine. Ogni spinta sembrava condurmi più lontano da me stesso, più vicino a quel confine dove il piacere e il dolore si confondono, si annullano a vicenda, lasciando solo il vuoto.

Potei sentirlo, sentii ogni cazzo di centimetro della sua carne spessa allungarsi dentro di me, riempirmi, cazzo, riempirmi fino a farmi quasi esplodere. Il mio buco si allargava, venivo impalato come una vittima sacrificale su un altare d'ignominia, e io non potei fare altro che abbandonarmi a quella sensazione di essere invaso, riempito completamente. Il mio uccello, duro come una fottuta pietra, strusciava contro il cartone di fronte a me, producendo un fruscio ritmico che andava in perfetta sincronia con le sue spinte.

Alla fine, cazzo, alla fine, lui mi riempì completamente, spinse tutto il suo uccello dentro di me, senza alcuna riserva, senza un minimo di esitazione. Il suo petto si premette contro la mia schiena, la sua carne contro la mia carne, e in quel preciso istante tutto sembrò fermarsi. Si bloccò, anche solo per un attimo, come se volesse assaporare fino in fondo la sensazione del mio buco che si stringeva intorno al suo albero. Una sensazione che, probabilmente, lo stava facendo impazzire, lo faceva godere più di quanto avrebbe mai voluto ammettere. Prese fiato, solo per ripartire ancora più forte, ancora più deciso.

Lentamente, molto lentamente, tirò fuori l’uccello dal mio culo slabbrato, e sembrava voler prolungare quel momento il più possibile, come se fosse in estasi. Poi, senza pietà, lo spinse di nuovo dentro, una spinta così decisa che sembrava voler spaccare tutto. Tirò indietro e lo fece di nuovo, e ancora. Ogni singola spinta era una scarica elettrica, una scossa che attraversava il mio corpo come un lampo, prendendomi con forza, cazzo, prendendomi veloce, senza tregua. Spingeva, tirava, spingeva, e ad ogni fottuto colpo sentii la pressione accumularsi dentro di lui, come un vulcano sul punto di esplodere.
Urlai, gemetti come un fottuto ossesso, e per fortuna c'era il rumore costante e lontano del traffico che copriva i miei gemiti disperati, le mie urla di piacere e di dolore. Nessuno doveva sapere cosa stava succedendo in quel vicolo, in quel preciso istante. Non certo mia moglie che mi aspettava a casa pensandomi da mia madre.

Le sue spinte divennero del tutto frenetiche, meccaniche, quasi disumane. Mi infilò l’uccello nel culo con una fretta malata, febbrile, come se ogni secondo contasse, come se ogni spinta fosse un ticchettio dell'orologio che lo avvicinava a un qualche apice inevitabile. Ogni colpo era secco, preciso, i suoi fianchi si muovevano con la forza di una macchina fuori controllo, e io, cazzo, rimbalzavo contro quella pila di scatole che sembrava sul punto di crollare da un momento all’altro. La mia faccia era schiacciata contro il cartone, il mio corpo veniva spinto avanti e indietro, senza alcuna possibilità di controllo, mentre lui continuava a martellarmi l’uccello nel culo come se non esistesse altro al mondo.

Il respiro? Non esisteva più per me. Tutto ciò che sentivo era quel ritmo folle, quella frenesia disumana che lo consumava, che mi consumava.

Poi lo sentii. Si irrigidì di colpo, una scossa elettrica attraversò il suo corpo, e proprio in quel momento, quell'istante congelato nel tempo, venne dentro di me. Il suo uccello pulsava, lo sentii chiaramente, quasi come se stesse battendo in sincronia con il mio cuore. Sparò il suo carico profondo, più profondo di quanto avessi pensato possibile. Mi schiacciò contro le scatole con tutta la sua forza, come se volesse fondersi con me, come se volesse essere parte di me in quel preciso momento.
Rimase lì, il suo uccello ancora dentro di me, fermo, pulsante, mentre respirava profondamente. Il suono del suo respiro era l'unica cosa che riuscivo a sentire, rimbombava nelle mie orecchie, sovrastando tutto il resto, coprendo ogni altro rumore, ogni altro pensiero.

Quando finalmente tirò fuori il suo uccello, sembrò che il tempo si fosse fermato; ogni movimento divenne pesante, ogni passo più lento, ogni istante si protraesse all'infinito. Fece un passo indietro e, senza proferire parola, accese una sigaretta. Il fumo si mescolò all’aria fredda e umida del vicolo, avvolgendo la scena in una nebbia sottile. Si infilò nuovamente il cazzo nei jeans, abbottonò la patta con una calma inquietante e si girò verso la strada.

Mi lanciò uno sguardo, un miscuglio di complicità e indifferenza, come se stesse per dire qualcosa di profondo, ma non lo fece. Sorrise, un sorriso che lasciò in sospeso tutto ciò che era appena accaduto, e poi se ne andò. Lo osservai sparire tra le luci lontane della strada, come un fantasma che svanisce, come se quell'episodio fosse solo un altro momento fugace di una lunga notte che avrebbe dimenticato entro poche ore.

Restai lì, appoggiato a quelle scatole traballanti, ansimante, il mio corpo ancora scosso da quello che era appena successo. Il suo sperma colava dal mio culo, lento e appiccicoso, come un ricordo indelebile, e il mio uccello, duro come una sbarra di ferro, sembrava implorare attenzione. Ero ancora lì, cazzo, con il cuore che batteva all’impazzata, e non potevo resistere. Lo presi in mano e iniziai a masturbarmi nel vicolo, i miei gemiti soffocati si perdevano tra il rumore del traffico, fino a venire con un gemito strozzato, un'esplosione di piacere che risuonò come un eco in quel luogo isolato.

Dopo, mi pulii come meglio potevo, usando degli asciugamani di carta che avevo in tasca, un accessorio che avevo sempre pronto per situazioni come questa. Mi sistemai, il mio uccello ormai flaccido, e andai al parcheggio dove avevo lasciato l’auto come se nulla fosse. Mia moglie mi aspettava a casa, avevo fatto tardi.

Mentre guidavo, con la musica che rimbombava dall’autoradio, qualcosa dentro di me si agitava, come un parassita che si era ormai fatto casa nel mio cervello. Ecco la verità: cazzo, ormai non potevo più farne a meno. Era come se questa roba, questo gioco sporco e perverso, mi avesse inghiottito e risputato fuori completamente cambiato. Ero dipendente, senza nessuna cazzo di via d’uscita. Non era solo il sesso, non era nemmeno la sensazione fisica di essere preso e usato. No, era la maledetta adrenalinica certezza che tutto ciò fosse sbagliato, un continuo camminare sul filo del rasoio, e sapere che un giorno, cazzo, prima o poi, il filo si sarebbe spezzato.

Ogni volta che lo facevo, pensavo fosse l’ultima. Che avrei smesso, che mi sarei ripreso un po' di dignità, come se quella parola avesse ancora un significato per me. Ma era una bugia, cazzo, e lo sapevo bene.
Mi dicevo: "Questa è l'ultima, giuro."
Ma in fondo, lo sapevo. Come uno che si racconta frottole per non guardare in faccia la verità: ero in trappola. Un tossico. Non di droga, no, era molto peggio. Dipendevo da questo fottuto ciclo, da quella sensazione di svuotamento totale, di abbandono di me stesso in queste situazioni dove non c'era nemmeno un cazzo di controllo. Forse era proprio questo che mi fotteva, l’assenza totale di controllo, l’essere semplicemente una fottuta marionetta, un pezzo di carne pronto per essere usato.

E ogni volta che lo facevo, tornavo indietro peggio di prima. Ogni volta che uno sconosciuto sborrava nel mio culo in un vicolo, lasciavo indietro una parte di me, come se stesse evaporando, dissolvendosi. E il giorno dopo, cazzo, mi svegliavo vuoto. Ma poi arrivava di nuovo il bisogno, come una morsa che ti stringe fino a quando non puoi più respirare, e allora ti butti di nuovo dentro, come uno stronzo.

Forse è questo il punto. Forse è così che si finisce, incastrati in questo ciclo perverso, mentre il mondo va avanti, e tu non sei altro che un’ombra che si trascina di notte, cercando disperatamente qualcosa che non troverà mai. Una fottuta dipendenza che non avrà mai fine.
scritto il
2024-10-20
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