La mia prima ragazza - cap. 6
di
The Best Of
genere
tradimenti
Rimasi ricoverato in Ospedale per quindici giorni, ed Alice non venne a trovarmi nemmeno una volta.
Quello che venne tutti i giorni fu Armando che, oltre a portarmi gli appunti delle lezioni, mi aggiornava su quello che faceva Alice.
A dire suo, sembrava che Alice non frequentasse più i ragazzi dell’Università ma, secondo Armando, qualcosa non quadrava perché lei aveva preso l’abitudine di saltare, ogni giorno, le lezioni delle undici e delle dodici. La si rivedeva presente alla lezione delle 14, dopo la pausa di un’ora.
Avrei voluto saperne di più ma, da dov’ero, mi era impossibile e ne avrei parlato a fondo con mio padre, che sentivo ogni giorno e che, pur non capendolo, sembrava sapesse tutto di Alice. Purtroppo, tra il passaggio degli infermieri per la somministrazione dei farmaci e il giro dei medici per le visite di controllo, non riuscivo a chiamarlo prima delle undici e trenta e lui, pur rispondendo, a quell’ora era sempre di fretta e con l’affanno. “Lucio, ma proprio non riesci a chiamarmi prima di quest’ora? Io sono impegnatissimo dalle undici e venti alle tredici e quaranta di ogni giorno.” Ma che orari aveva mio padre?
Ed è certo che in quell’ufficio ci fossero delle collaboratrici imbranate. Non ci fu un giorno in cui non sentii mio padre fare qualche rimprovero: “stai ferma!”, “attenta, che mi fai male.”, “apri meglio”, “ma dai! È così che si stringe?”, e soli tre o quattro “brava”, quasi tutti seguiti da un “stai imparando a prenderlo.” Parlava di lavoro ed io lo seguivo distrattamente; cosa mi interessava del suo lavoro?
L’ultimo giorno che lo sentii, lo disturbai sicuramente tanto, perché doveva essere in riunione con almeno altri due dirigenti; io ne sentii le voci. “Allora, io la prendo davanti”, disse uno e l’altro:“d’accordo, quindi io passo dietro.” e poi, “ragazza, riserva il rapporto orale al dottore.” Il dotttore, doveva essere mio padre.
Almeno, questa collaboratrice risultò in gamba, perché sentii tutti e tre complimentarsi, mio padre compreso.
Ma capii che lo avevo disturbato tantissimo quando, probabilmente alle prese con qualcosa di veramente importante, iniziò a balbettare nel rispondere alle mie domande: “Papà, so che tu non puoi saperne nulla, ma, per caso, hai visto Alice?” Nello stesso momento uno degli altri dirigenti si mise a parlare ed io sentii solo un “mettiti lì, Al…” ma la voce di mio padre si alzò improvvisamente di quattro tonalità ed io non sentii che lui, peraltro per dire cose strampalate: “Alice? Chi? La nostra collaboratrice? Certo, l’ha sta… Che l’ho vista.” “Perché me lo chiedi?”
Compresi che era inutile insistere. Era talmente preso dal suo lavoro al punto di pensare che avessi chiesto di una sua collaboratrice, che nemmeno conoscevo.
La prima cosa che feci, quando mi dimisero, erano le undici, fu quella di telefonare ad Alice, invitandola a prendere qualcosa insieme al bar. L’università era chiusa per uno sciopero.
“Oggi non posso, Lucio. Ho un impegno dalle undici e venti alle tredici e quaranta.”
Quegli orari mi dissero qualcosa, ma non riuscii a collegarli a nulla. Del resto, a cosa mai avrei potuto collegarli? Ma che orari erano? Strani!
“Va bene, Alice. Di mattina sei impegnata, ma c’è pure il pomeriggio. No? Poi, dovresti farti perdonare, non pensi?”
Mi rispose in malo modo: “perdonare, io? Di cosa? Posso frequentare tutti gli amici che voglio, di qualunque età, e non mi interessa se sei….” Si bloccò mentre parlava.
“Non finisci? Lo so che puoi uscire con chi vuoi. Non mi sembra di averti fatto storie o creato paranoie. Però, perché stai con me e poi esci con gli amici? Magari a loro lo prendi in bocca e ti fai scopare, e magari adesso la loro sborra la bevi pure, e con me nemmeno me lo prendi in mano. Mi hai fatto picchiare. Certo che ti devi fare perdonare.”
Rispose stizzita: “Lucio dimmi un’altra volta che sono stata io farti picchiare e ti lascio.”
“Ma sei stata tu a dirgli di gonfiarmi di botte.”
“Io? No. Hai capito male. Avrà capito male anche Marcello. Io ti ho difeso, in Tribunale; non ho confermato le parole di Marcello, quando…”
“Alice, se inzi una frase la finisci. Quando, cosa?”
“Quando ha detto che sei un pervertito.”
“Ma io non sono un pervertito.”
“Lucio, mi hai appena detto che io prendo in bocca i cazzi di altri ragazzi, che mi faccio scopare da loro e che, adesso, bevo anche la loro sborra, e che tu, per queste cose, non mi fai storie e non mi crei paranoie. Mi dici quale ragazzo normale accetterebbe di sapermi mentre succhio il cazzo ad un altro ragazzo e poi mi metto a pecorina e mi faccio fottere e, alla fine, quello mi viene in bocca ed io bevo tutta la sua sborra? Tu, invece, le accetti e non mi chiedi nemmeno di prendertelo in mano.”
“Alice, allora è vero che usi la bocca e la fica con gli altri. Il culo ancora no? Poi, se tu che non vuoi prendermelo in mano.”
“Lucio, hai capito male.” e chiuse.
Stiedi tutto il giorno chiuso in casa, malinconico. Alle 17 mi arrivò un messaggio di Alice: “tra venti minuti al bar. Puntuale.”
Mi vestii e andai di corsa al bar, la mia Alice voleva farmi una sorpresa; è fu una grande sorpresa.
Lei arrivò con soli tredici minuti di ritardo, ed arrivò su una coupé guidata da un ragazzo.
Li vidi scendere e venirmi incontro.
“Ciao Lucio, lui è Rocco.”
Quello mi strinse la mano, sorridendomi. Era più grande di noi di almeno sei anni e indossava giacca e cravatta, lo avrei definito una persona distinta.
“Lucio, pensavo di fermarci qualche minuto con te, ma Rocco ha un’esigenza impellente. Non resiste e deve approfittare della mia disponibilità e della mia preparazione. Capisci, si?”
“Certo, Alice. Andate.”
Lei mi sorrise, mi fece una carezza e li vidi scappare in macchina.
La delusione fu forte e non riuscivo a riprendere. Dopo venti minuti che ero rimasto lì, solo e sconfitto, decisi di telefonare a mio padre. Mi rispose subito.
“Lucio, dimmi. No, solo un attimo, Lucio.” Lo sentii rivolgersi a qualcuno. “Entrate pure. Rocco, quanto tempo, è bello rivederti in compagnia. Che mi volevi dire, Lucio?”
Quello che venne tutti i giorni fu Armando che, oltre a portarmi gli appunti delle lezioni, mi aggiornava su quello che faceva Alice.
A dire suo, sembrava che Alice non frequentasse più i ragazzi dell’Università ma, secondo Armando, qualcosa non quadrava perché lei aveva preso l’abitudine di saltare, ogni giorno, le lezioni delle undici e delle dodici. La si rivedeva presente alla lezione delle 14, dopo la pausa di un’ora.
Avrei voluto saperne di più ma, da dov’ero, mi era impossibile e ne avrei parlato a fondo con mio padre, che sentivo ogni giorno e che, pur non capendolo, sembrava sapesse tutto di Alice. Purtroppo, tra il passaggio degli infermieri per la somministrazione dei farmaci e il giro dei medici per le visite di controllo, non riuscivo a chiamarlo prima delle undici e trenta e lui, pur rispondendo, a quell’ora era sempre di fretta e con l’affanno. “Lucio, ma proprio non riesci a chiamarmi prima di quest’ora? Io sono impegnatissimo dalle undici e venti alle tredici e quaranta di ogni giorno.” Ma che orari aveva mio padre?
Ed è certo che in quell’ufficio ci fossero delle collaboratrici imbranate. Non ci fu un giorno in cui non sentii mio padre fare qualche rimprovero: “stai ferma!”, “attenta, che mi fai male.”, “apri meglio”, “ma dai! È così che si stringe?”, e soli tre o quattro “brava”, quasi tutti seguiti da un “stai imparando a prenderlo.” Parlava di lavoro ed io lo seguivo distrattamente; cosa mi interessava del suo lavoro?
L’ultimo giorno che lo sentii, lo disturbai sicuramente tanto, perché doveva essere in riunione con almeno altri due dirigenti; io ne sentii le voci. “Allora, io la prendo davanti”, disse uno e l’altro:“d’accordo, quindi io passo dietro.” e poi, “ragazza, riserva il rapporto orale al dottore.” Il dotttore, doveva essere mio padre.
Almeno, questa collaboratrice risultò in gamba, perché sentii tutti e tre complimentarsi, mio padre compreso.
Ma capii che lo avevo disturbato tantissimo quando, probabilmente alle prese con qualcosa di veramente importante, iniziò a balbettare nel rispondere alle mie domande: “Papà, so che tu non puoi saperne nulla, ma, per caso, hai visto Alice?” Nello stesso momento uno degli altri dirigenti si mise a parlare ed io sentii solo un “mettiti lì, Al…” ma la voce di mio padre si alzò improvvisamente di quattro tonalità ed io non sentii che lui, peraltro per dire cose strampalate: “Alice? Chi? La nostra collaboratrice? Certo, l’ha sta… Che l’ho vista.” “Perché me lo chiedi?”
Compresi che era inutile insistere. Era talmente preso dal suo lavoro al punto di pensare che avessi chiesto di una sua collaboratrice, che nemmeno conoscevo.
La prima cosa che feci, quando mi dimisero, erano le undici, fu quella di telefonare ad Alice, invitandola a prendere qualcosa insieme al bar. L’università era chiusa per uno sciopero.
“Oggi non posso, Lucio. Ho un impegno dalle undici e venti alle tredici e quaranta.”
Quegli orari mi dissero qualcosa, ma non riuscii a collegarli a nulla. Del resto, a cosa mai avrei potuto collegarli? Ma che orari erano? Strani!
“Va bene, Alice. Di mattina sei impegnata, ma c’è pure il pomeriggio. No? Poi, dovresti farti perdonare, non pensi?”
Mi rispose in malo modo: “perdonare, io? Di cosa? Posso frequentare tutti gli amici che voglio, di qualunque età, e non mi interessa se sei….” Si bloccò mentre parlava.
“Non finisci? Lo so che puoi uscire con chi vuoi. Non mi sembra di averti fatto storie o creato paranoie. Però, perché stai con me e poi esci con gli amici? Magari a loro lo prendi in bocca e ti fai scopare, e magari adesso la loro sborra la bevi pure, e con me nemmeno me lo prendi in mano. Mi hai fatto picchiare. Certo che ti devi fare perdonare.”
Rispose stizzita: “Lucio dimmi un’altra volta che sono stata io farti picchiare e ti lascio.”
“Ma sei stata tu a dirgli di gonfiarmi di botte.”
“Io? No. Hai capito male. Avrà capito male anche Marcello. Io ti ho difeso, in Tribunale; non ho confermato le parole di Marcello, quando…”
“Alice, se inzi una frase la finisci. Quando, cosa?”
“Quando ha detto che sei un pervertito.”
“Ma io non sono un pervertito.”
“Lucio, mi hai appena detto che io prendo in bocca i cazzi di altri ragazzi, che mi faccio scopare da loro e che, adesso, bevo anche la loro sborra, e che tu, per queste cose, non mi fai storie e non mi crei paranoie. Mi dici quale ragazzo normale accetterebbe di sapermi mentre succhio il cazzo ad un altro ragazzo e poi mi metto a pecorina e mi faccio fottere e, alla fine, quello mi viene in bocca ed io bevo tutta la sua sborra? Tu, invece, le accetti e non mi chiedi nemmeno di prendertelo in mano.”
“Alice, allora è vero che usi la bocca e la fica con gli altri. Il culo ancora no? Poi, se tu che non vuoi prendermelo in mano.”
“Lucio, hai capito male.” e chiuse.
Stiedi tutto il giorno chiuso in casa, malinconico. Alle 17 mi arrivò un messaggio di Alice: “tra venti minuti al bar. Puntuale.”
Mi vestii e andai di corsa al bar, la mia Alice voleva farmi una sorpresa; è fu una grande sorpresa.
Lei arrivò con soli tredici minuti di ritardo, ed arrivò su una coupé guidata da un ragazzo.
Li vidi scendere e venirmi incontro.
“Ciao Lucio, lui è Rocco.”
Quello mi strinse la mano, sorridendomi. Era più grande di noi di almeno sei anni e indossava giacca e cravatta, lo avrei definito una persona distinta.
“Lucio, pensavo di fermarci qualche minuto con te, ma Rocco ha un’esigenza impellente. Non resiste e deve approfittare della mia disponibilità e della mia preparazione. Capisci, si?”
“Certo, Alice. Andate.”
Lei mi sorrise, mi fece una carezza e li vidi scappare in macchina.
La delusione fu forte e non riuscivo a riprendere. Dopo venti minuti che ero rimasto lì, solo e sconfitto, decisi di telefonare a mio padre. Mi rispose subito.
“Lucio, dimmi. No, solo un attimo, Lucio.” Lo sentii rivolgersi a qualcuno. “Entrate pure. Rocco, quanto tempo, è bello rivederti in compagnia. Che mi volevi dire, Lucio?”
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