Memorie dal grand hotel

Scritto da , il 2012-06-16, genere etero

UN PEZZO D’UOMO, UN UOMO TUTTO D’UN PEZZO. Cesare Mammì era un provetto. E un grande. Discreto, attento, sempre con tatto molto. E il meccanismo girava, la barca andava, come se fosse d’abbrivo, e non per l’esperto nocchiero. Con cautela, ma con scioltezza. Con accortezza ma senza eccessivo indugio, ci si addentrava per le segrete stanze di chi, quella sera, volesse schiuderne una. La apriva a poco a poco, non in una sera, in sere susseguenti ma alternate. Un avvicendarsi che si modulava da sé, per una complicità compiacente. Senza interferenze. A soggetto, come in un teatro dell’arte. Dell’arte di vivere, non di quella della messinscena. Non si barava. Non s’inventava. Non si favoleggiava. La verità, nient’altro che la verità. Tutta, No. Per regola mai stabilita, era cosa più unica che rara dir un nome, solo il ruolo delle persone. D’altronde, questo era subito chiaro, evidente, con i nomi ci s’ingarbugliava, ci si confondeva, non li si riteneva a mente. Chi avesse voluto avventurarsi sul terreno dell’usare i nomi delle persone, sarebbe subito incappato in equivoci su nominativi eguali, imbarazzi per nomi dimenticati, delusioni nel volerli far ricordare così, d’emblée. Spesso anche i luoghi restavano indeterminati: “a casa mia …”, “dalle mie parti …”, “da noi …”, “al mio paese …”, … Anche qui, ostilità del nome, e della sua collocabilità geografica immediata. Insomma, omissioni per esigenza di chiarezza. Mai complicare, sempre andar via lisci. Mai suscitar domande, soprattutto quelle cui non si sarebbe poi voluto rispondere. Mai captatio benevolentiae, ché sortivano, anzi, l’effetto inverso. Non divagare, non deviare, non aprir parentesi, che poi a chiuderle, a ricollegare i nessi si faceva fatica, ci s’imbrogliava, ci si dannava perdendo l’attenzione. Niente enfasi. Concessa, anzi benvoluta e condivisa l’emozione. Insomma, tutto il pacchetto dell’oratore perfetto, che un oratore, pur conoscendolo, non metteva mai in pratica. Non riuscendo a trattenere, peraltro, l’attenzione del pubblico per più di dieci minuti. Al massimo. Lì, in quell’Hotel, a quei momenti, i minuti eran come ore. Cesare, Robert Chatté, lo chèf, Ashley Spolding e Ashley Eriksonon, due cameriere ai tavoli, restavano volentieri oltre l’orario di chiusura, per quella sorta di The Pickwick Papers. Il motorino d’avviamento, che non perdeva mai colpi, era, inutile dirlo, Cesare, col suo naturale e aperto parlar di sé. A ben vedere avrebbe potuto anche essere che imbottisse gli ascoltatori di minchiate, come un imbonitore d’un magico rimedio. Un novello dottor Dulcamara. Udite, udite o rustici; / Attenti, non fiatate./ Io già suppongo e immagino / Che al par di me sappiate / Ch'io son quel grande medico,/ dottore enciclopedico / chiamato Dulcamara, la cui virtù emana,/ e i portenti infiniti / son noti all'Universo … e in altri siti. Rassicurava del contrario che non fosse il solo a mostrarsi così in libertà, e, dal discorrere degli altri, in inspecie del personale e degli ospiti fissi e di lungo corso, i cui racconti eran reciprocamente integrati, completati, riconfermati. Non sarebbe mai stata possibile una recita collettiva così ben organizzata. Eppoi, a che pro affannarsi tanto? Infine, a che questa stolta cultura del sospetto, questa sconsiderata dietrologia da guerra fredda?! Caduta ormai da tempo la troika ch’era adusa oracolar sì che il bulldog Winston ebbe a dire ch’era un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma. Per la fortuna di generazioni di cremlinologi che sapevano guardare nella matrioska dei comunicati ufficiali, fino ad arrivar all’ultima, quella che altro non nascondeva, e poteva quindi, probabilmente essere la vera. Da piangere come a pelar bucce di cipolla strato a strato. Il vostro cronista è poi propenso a ritenere che, avendo a che far con dietrologi incalliti, la vera arte del celare sia dire il vero tutto. Oh tempora, oh mores! Non è forse meglio prender il detto per il significato che esprime, e, se al vero non corrisponde, peste colga il menzognero. Juan Tenorio Rodriguez Urtago e Villena y Salamaca–qui è d’obbligo nominarlo per esteso, si fanno le presentazioni- era stato subitamente accolto nell’intima cerchia delle confidenze del dopocena. Soprattutto, ad onor del vero, il merito andava ascritto alle doti della sua ospite. Quella sera, a cena, Juan aveva ancora accanto Anabel, I sui capelli biondi, erano raccolti sulla nuca, viso senza trucco, una bellezza serena. Con qualcosa in più. Una grazia personale, che la differenziava, la faceva emergere sulle altre. Un fisico notevole, ma anche una passione fuori dal comune. Le piaceva vivere alla giornata, e credeva fermamente che le occasioni migliori fossero quelle che capitano per caso, quelle non programmate. “Ho sempre fatto tutto ciò che mi incuriosiva, senza pormi alcun limite. Ho fatto anche arti marziali, corsi di sopravvivenza, esercitazioni al poligono, a livello competitivo –il che spiegava la sua struttura complessiva. Principalmente per passione e per dare sfogo alla mia voglia di trasgredire ed esibirmi. Questo aveva messo a punto con Juan, e a questo si era attenuta. Non solo, aveva mostrato una capacità di colloquiar con familiarità, con confidenza, amichevolmente, confidenzialmente, informalmente, semplicemente. Viepiù, di comprendere e condividere i sentimenti altrui. Insomma, di far parlare anche i sassi. Del piccolo Circolo Pickwick facevano parte: la nobildama Donna Elena Zakythinis Spanidis, socia anziana e stabilmente fissa. Marcello Rusconi, un ingegnere trasfertista di una grande azienda del continente con filiali un po’ in ogni dove, tra le quali aveva a far di spola per rappezzar gli strappi fatti da altri. La dott.sa Sabrina Moncada, avvocato, giudice conciliatore itinerante, in materia del lavoro e sindacale, e mediatrice; Carmine Eremia, un uomo d’affari che si occupava di “export-import”, almeno, questa era la sua versione ufficiale. Oltre, va da sé, il personale dell’Hotel già sopra menzionato. Con loro tutti Cesare si permetteva caldi suggerimenti per la comanda, che tutti accettavano di buon grado, e che, anzi, sollecitavano, avendo più volte provato come fossero migliori delle loro. Giungendo buoni ultimi, avevano ormai compreso come alcune pietanze avessero perso ormai in freschezza, o in sapore. E, sovente, lo chef s’ingegnava a improvvisar sui due piedi di suo ghiribizzo per loro e per il personale che restava, se s’era fatto di molto tarda l’ora. Con grande attenzione e cura sia il buon Cesare, che il bonario Robert traevan sempre dal loro cilindro un alcunché anche per Juan, sofferente d’un piranha la cui ghiottoneria era stata sollecitata dal suo piloro. Né insistevano mai inopportunamente quando sul volto di lui era scavata una sofferenza che rigettava anche d’acqua un sorsetto. Con Ashley Spalding e Ashley Eriksonon, le due pulciotte dello staff, faceva da chioccia, ed era per loro la buona compagnia che l'uom francheggia / sotto l'asbergo del sentirsi pura. Non solo per loro, anche se con loro massimamente. Era l’usbergo d’ogni giovane precario cui s’ingegnava ch’avesse il rinnovo del contratto. “Meglio formare, e far crescere, che cambiare continuamente e dover cominciar sempre daccapo”, era la sua massima. “Se no, è una fatica di Sisifo: grandi sforzi, fatica molta, ritorni zero”. Con loro aveva un occhio attento a ogni istante, lesto a far loro evitare l’incaglio prima che vi s’incagliassero, facendoli virar ad acque più sicure. Ne sollecitava l’iniziativa, li stimolava a colmar e compensar con le virtù loro proprie quelle carenti o scalchignanti. Lo faceva con garbo tale che nessuno s’era mai impuntato per orgoglio o stizza. Au contraire, più d’una donzella l’aveva gratificato del vezzeggiativo papi, in tempi non sospetti per quell’appellativo. Le due pulciottine sunnominate avevano iniziato lì, all’Hotel, la loro attività, fin dagli stage procurati dall'Istituto Alberghiero. Così che erano quasi delle veterane rispetto ad altro personale più anziano d’età, ma non di lavoro. In Trìgòna il settore agroturisticoalberghiero era lo sbocco che offriva maggiori e non stagionali opportunità di lavoro. La concorrenza e la selezione andavano quindi d’obbligo, e superarle richiedeva capacità e abilità vere. A nulla servivano raccomandazioni e conoscenze: senza professionalità, padronanza, spigliatezza il servizio ne scapitava a danno non solo di quel lavoratore, ma del nome stesso dell’azienda, picciola o grande che si fosse. Avendo il cliente sempre ragione, anche se a torto, non era consentito far fronte al servizio con anatre zoppe. Spesso capitava che con i clienti più assidui o abituali, al crescer della familiarità e della confidenza scapitassero la compostezza e la rigorosità, era lesto a rimenar i termini del rapporto entro gli steccati della conformità. Mai il richiamo era coram populo, a che serviva umiliare? Coglieva l’opportunità che si presentasse di un a parte, o tratteneva a fine servizio. Formalità e rigore che cadevano in quei dopocena. Del Circolo non faceva parte, per le sue diverse mansioni, un cameriere alle camere, Vito Camalli, che si vedrà poi era ganzo di Cristina, che purtanto s’era distinto in una cortesia veramente squisita. Al rientrar di Juan, una sera, s’erano incrociati. Vito stava portando un vassoio di meravigliose e d’aroma fragranti arance. “Che belle! e che delizia devono essere …” Aveva maravigliato Juan spudoratamente ingolosito, piranha o no. Aveva poi fatto salire con lui Vito, che avrebbe dovuto far uso dell’ascensore riservato al servizio, che non voleva saperne di liberarsi. Vito s’era profuso in ringraziamenti, mostrando anche vero dispiacimento che un ricevimento dato dal piraha nello stomaco di Juan, che pareva non riservato ai soli intimi, l’aveva costretto a non salire a cena. Quando avevano bussato alla porta, Juan era andato ad aprire ch’era già pronto per coricarsi, e sapeva di essere non poco buffo con il pigiamino estivo, a maniche e gambe corte. Pur compito e serioso, Vito, all’aprirsi della porta e all’apparir di Juan aveva a stento trattenuto le risa. Sforzandosi d’esser contegnoso, e con squisita cortesia, recava un vassoio con un gran piatto di arance affettate, e un altro con dell’ottimo e profumato san Daniele, un cestino di pane, e un calice di vino. Di quelli che più che sul quartino vanno sul mezzo. Era entrato a deporre il tutto sul tavolo: “Con gli omaggi del maitre … e miei, per lei e il suo piranha …”, ops, frittatona bell’e fatta, dome dirsi suole, il Diavolo non sa far coperchi, ”… e alla signora, avessi saputo … ma spero che basti”. Il volto di Vito stentava a contenere e nemmeno riusciva a celare un ghigno sardonico, mefistofelico. Gli occhi lucidi della febbre della pettegolata che gli urgeva far fuggir dal seno. Uno scoop da copertina della settimana, per il tabloid vocale del Grand’Hotel. Juan era rimasto senza parole, aveva bofonchiato qualcosa che poteva parere tanto un maldestro ringraziamento quanto un grugnito di rabbia, ed era rimasto poi convinto che, chiusa la porta, Vito si fosse piegato in due dalle risa pur correndo veloce come Apollo a recar la nuova. Mentre stava andandosene, dopo aver deposto l’omaggio, con un tempismo perfetto per una commedia all’italiana, era uscita dal bagno, cinti i magnanimi lombi con un asciugamani, e nulla più, Anabel Blanco. Touché!!! Dopo di che, va’ da sé: La calunnia è un venticello / Un'auretta assai gentile / Che insensibile sottile / Leggermente dolcemente / Incomincia a sussurrar. / Piano piano terra terra / Sotto voce sibillando / Va scorrendo, va ronzando,/ Nelle orecchie della gente / S'introduce destramente,/ E le teste ed i cervelli / Fa stordire e fa gonfiar./ Dalla bocca fuori uscendo / Lo schiamazzo va crescendo:/ Prende forza a poco a poco,/ Scorre già di loco in loco,/ Sembra il tuono, la tempesta / Che nel sen della foresta,/ Va fischiando, brontolando,/ E ti fa d'orror gelar./ Alla fin trabocca, e scoppia,/ Si propaga si raddoppia / E produce un'esplosione / Come un colpo di cannone,/ Un tremuoto, un temporale, / Un tumulto generale / Che fa l'aria rimbombar./ E il meschino calunniato / Avvilito, calpestato/ Sotto il pubblico flagello / Per gran sorte va a crepar. A Juan, appena ne aveva fatto conoscenza, e senza considerare la condivisione del pedatorio tifo per Internazionale, Real Madrid e Arsenal, era tornato in mente suo zio, che era, poi, Jaime Serrano Crespo de Urtago y Sevilla, fratello di quel Jago che già abbiamo incontrato. Di sembianza umile e piana, né trista né serena, avea schiena diritta e volontà di ferro, come il giardiniere tenace. Capovolgendo la metafora del guanto: la sua era una mano di velluto in un guanto di ferro. Guanto che in famiglia appendeva al chiodo. In Juan era sempre rimasta viva, non direi tanto la memoria, quanto una tenera e commossa nostalgia di una lunga vacanza di Natale, costretto a letto da una di quelle malattie essenziali (Malattia essenziale, o idiopatica: malattia, che non dipende da altre, e la cui causa è ignota). che avevano travagliato la sua infanzia e adolescenza. Lo aveva costretto a letto una grande spossatezza e prostrazione. La notte della Vigilia, rincantucciato al tenue tepore del coltrone imbottito, era stato vinto dalla sua trepidante curiosità di sincerarsi se il tanto agognato e sollecitato dono fosse alfin stato concesso. Oh ... !
MA GUARDA CHI È BABBO NATALE!. Fin da quei suoi otto anni aveva perduto la verginità sulla credenza infantile di Babbo Natale. Destatosi nella notte, in quello che a lui, di quelli che tutti a nanna dopo Carosello, era parso il cuore della notte, per l’irrefrenabile urgenza di fare pipì, in toccata e fuga, nel pitale riposto nel comodino, aveva scorto ombre cinesi dietro i vetri smerigliati della porta della stanza da letto. L’emozione aveva travolto freddo e contenuto il bisogno: stava per coglier sul fatto Babbo Natale! A piedi nudi, su un pavimento gelido, cui la lor pianta s’era fatta insensibile, si era accostato alla porta, chinandosi poi a spiare nella penombra attraverso la cornice lasciata trasparente. Quali e quante domande eran rifrullate vertiginosamente nella sua testolina! Come Fosse entrato Babbo Natale, e perché, soprattutto, dall’ingresso principale percorrendo un’interminabile corridoio -l’abitazione di Juan era stata edificata poggiandola al muro di un grande deposito dal quale era separata giusto dal lungo corridoio- parcheggiando probabilmente la sua renna –ché di una sola gli era stata detto- sulla grande terrazza –l’abitazione era stata edificata in un secondo tempo, sopra gli uffici del deposito- e non quindi sul balconcino della cucina. Dove era lasciato un cesto di fieno del quale l’indomani mattina restavano solo minimi avanzi. Nella cucina, poi, eran stati lasciati una grossa tazza per il latte che stava in un pentolino sulla cucina economica tiepida, e un piattino di golosi biscotti. Del tutto restavano pure minimi avanzi in briciole e in un cenno fondo di latte. Poi si era sconcertato. Era rimasto confuso, perplesso, turbato. Il piccolo Juan sapeva che il suo cervello non era uno Speedy Gonzales, ma un diesel, o, come si direbbe oggi, aveva il processore lento. Nel budello del corridoio, si movevano le sagome note di sua mamma e suo padre, felpato ticchettio di maschi e femminei tacchi, e pur maschi e femminei sussurri. Finalmente si era disvelato l’arcano mistero per cui il presunto Babbo Natale puntualmente e caparbiamente ignorasse il suo desire, vergato ogni anno in bella scrittura, sulla letterina in nobile carta pergamena, ornata di fregi in rilucenti paillettes d’oro e argento, quanto meno a parer di fanciullo. Da un lato la cocente delusione, dall’altra il sollievo per il poter finalmente escludere alfine che la sua preghiera fosse negletta perché facesse ammenda di una qualche mancanza. L’inquietudine poi: perché anche i genitori lasciavano inevaso il suo desiderio. Per punizione pur essi? Perché, allora, trovava doni tanti, ed anche di costo, anche se, per usar desueta e arcana terminologia marxiana, o marziana forse- per Juanito, al tempo, importasse più del valore di scambio quello d’uso. Il rovello era rimasto insoluto e sospeso il mattino seguente, scoprendo che il piatto forte dei doni era costituito da una scatola di legno chiaro e lustro con sopra scritta la dicitura, a lui sconosciuta: meccano completo. Già prevedeva il bis del precedente Natale, che gli aveva portato un magnifico quanto impensato e neppure considerato, non rientrando né tra i suoi desiderata né tra i suoi interessi, il plastico con trenino elettrico con tanto di ambientazione maremonti. Si era sorbito le magnificate lodi e le pedanti istruzioni per l’uso. Poi, fin al giorno dell’Epifania, compreso, non aveva potuto mettervi mano. Non che poi molto gli interessasse dilettarsi in cotal svago, ma, si sa, i bimbi son curiosi più che scimmiette. Alla guida del cavallino ferrato –per dirla come gli indiani d’America- s’eran alternati il babbo e quel maestro di scuola di Juanito, divenuto stretto –anche troppo- amico di famiglia. Tanto che alla fin della storia, quando aveva rischiato di perder l’anno di scuola per le troppe assenze per malattia, s’era generosamente adoprato per ottenergli un “rimandato a settembre” in tutte le materie, offrendosi inoltre di colmar, nell’intervallo dell’estate, le gran lacune dell’infermo. Offerta non disinteressata, ahi lui per Juanito, ma qui principierebbe altra e triste historia.Tornando al trenino elettrico, quando Juanito aveva potuto mettervi mano, infilata la spina del trasformatore nella presa di corrente, aveva visto levarsi, non un bel dì sull’estremo confin del mare –come la madama Butterfly- ma in quell’istante istesso e dall’istesso trasformatore il fatal fil di fumo, tanto desiato dalla madama, quanto infausto per il piccolo ferroviere. Va da sé come subito, senza neppur sommario processo, fosse stato giudicato colpevole di grave sabotaggio, e senza appello condannato a severa ammenda: metà della paghetta settimanale, ch’altro poi non era la somma per acquistare un fumetto, in forma di strip, che avrebbe così, a lungo, acquistar solo a puntate alterne. Non poi gran danno, aveva costatato Juanito, imperrocché coteste strip, in ampio anticipo, eran brodo allungato, come le telenovele e le soap-opera, da risultar tanto scipo e privo di sostanza che manco valeva penarsi per l’acquisto. E aveva dirottato la somma su un mensile illustrato d’istoriche vicissitudini. Ho divagato. Tornando a quella notte di Natale degli otto anni di Juanito, lo troviamo mentre, fiacco e avvilito, ed avendo preso una pelata di freddo, a piedi nudi nel parquet, era tonato ad infilarsi al calduccio, sotto la coltri, dimentico finanche d’ogni corporale urgenza. Sopraffatto da un pesante sonno, la febbre che già lo minava, s’era metamorfosata in un violento febbrone, e l’aveva viepiù sprofondato in un pesante sonno che de' miseri mortali | è co'l suo dolce oblio posa e quiete | sopì co' sensi i suoi dolori. Sopì anche il negletto ritegno del suo corporal bisogno, ch’ebbe così libero sfogo. La vergognosa incontinenza era stata, fortunatamente, subito accreditata all’equino febbrile accesso. I c.d. regali di Natale li aveva potuti intravvedere, traverso il velo che gli danzava innanzi agli occhi, portato a braccia, avvolto in pesante coperta, dal papà. Un solo aveva suscitato in lui un anche se flebil lumicino di curiosità: una cassetta di legno chiaro e lustro, con scritta che doveva parer impressa a foco. Una decina di giornate se n’eran andate in un dormiveglia che era andato trovano con faticosa pena il normale ritmo della veglia e del sonno. Ricordava ancora un vago e inconsistente insieme d’immagini, sensazioni, percezioni che si alternavano nervose e incoerenti. Nutrito con amorevole cura, a volte come un bimbo che andava imboccato, prima con spremute di agrumi, semolini, pastine e brodini, mele grattate, la sua dieta era andata facendosi sempre più consistente, e alfine incluso anche il classico e imprescindibile panetùn. Quando aveva potuto tenersi in piedi da solo, e aveva tentato di rimettersi in panni normali, una grande sorpresa. Accade che le sembianze d’una persona vadano mutando nel tempo, e, che se ciò anche avviene in tempi molto rapidi, sono proprio la persona stessa e chi le sta giorno per giorno accanto, sian quelle che meno abbiano a notar i cambiamenti. Come assumendo la mutazione in dosi hahnemanniane. Vero era anche che il viso di Juanito sembrava essersi solo un poco affilato e fattosi pallido, ma il suo corpo era stato completamente rimodellato e riforgiato. I pantaloni, non più trattenuti da un cordino elastico che bastava regolare, gli cascavano di dosso e lo coprivano solo fino agli stinchi. Juanito, così, per burla, aveva provato a tenersi in vita i calzoni, ponendosi in vita il suo guanciale: era giusto di quella misura, d’un cuscino ben ripieno, ch’era alfin mancante. Per non tediar troppo in pesi e misure, altrettanto bene, se fatto di legno, sarebbe stata, quella del guanciale, la pedana sulla quale il Juan-ante, sarebbe dovuto salire per portarsi all’altezza di quel Juan-post. Mentre andava recuperando forza ed energia, e con esse vestimenti alla sua nuova misura, era principiata anche la sua pesante ed estenuante fatica di recupero dello studio scolastico negletto. Non sembrivi banale la cosa, né di conto poco: eran studi che solo qualche anno dopo avrebbero potuto parer misera inezia allo studente stesso, ma per l’età eran pur sempre buona tenzone, e in più si trattavasi delle basi istesse su cui avrebbero poi dovute poggiar i più sempre più ponderosi studi a seguire. Una casa di scienza e coscienza che, basata in salda roccia avrebbe potuto crescer robusta e armoniosa; se raffazzonata su smottanti sabbie, si sarebbe alzata pericolante e sghemba. Le lunghe mattinate lo estenuavano, e subito dopo il pranzo era travolto dalla pennica del giusto. I meriggi scorrevano lunghi e tediosi, passati stravaccato sul divano del salotto, un po’ a legger, un po’ ad ascoltar la radio, sempre con in agguato il torpore della sonnolenzia. Sul far della sera, quando monotonia e tedio andavano pericolosamente scivolando allo sfinimento, giungeva a trarlo dal suo scontento zio Jaime. Era stato lui, sera dopo sera, a svelargli, con pazienza ed attenzione, i misteri della misteriosa cassetta di legno, levigata e lustra, spiccava come con l’effetto del marchiato a fuoco: meccano completo. Sedeva con Juanito, sul tappeto del salotto, incurante delle reprimenda a tener più beneducato contegno, e lo iniziava a quel gioco, che tanto poco pareva un gioco, costituito da sbarrette di acciaio forate e piastre quadrate, rettangolari, triangolari, trapezoidali, di parallelogramma e parallelepipedo, che, fissate le une alle altre con viti, bulloncini e brugole, permettevano la costruzione di macchine in miniatura, congegni e strutture varie. Juanito aveva seguito, attento e affascinato, senza lasciarsi prender da foga, né travolger dall’impeto di chi vuol arrivare a conoscer e praticare tutto e subito, possibilmente prima ancor di iniziare, le spiegazioni e le istruzioni di Jaime. Lo zio aveva iniziato a farlo esercitare collegando due semplici pezzi, impratichendosi all’uso corretto degli attrezzi, e alla precisione delle congiunzioni. Era andato poi aumentando il numero degli elementi, da poche e senza pretesa di dar loro forma alcuna, poi ad assemblar strutture più articolate, poi ancora più composite, fino ai semicomponenti della costrutto completo. Era stata, poi, la volta degli ingranaggi, dei loro meccanismi, e, infine, della loro applicazione per movimentare l’oggetto costruito, o una sua parte, e procedere alla messa in opera del tutto. Ed ecco il capodopera, che doveva consacrare la fine dell’apprendistato: un’alta incastellatura, simile a quella delle trivelle petrolifere, con un braccio bilanciato, a sostenere un piccolo aereo, che roteava, e, ogni tot giri, rilasciava un oggetto che voleva esser simulacro di bomba, pur non avendone le sembianze. Ovviamente, nessuno aveva voluto credere che si trattasse di opera sua e non del, nonno, anche se Jaime aveva ripetutamente e seriamente reso onore al merito del nipote. Non aveva avuto importanza per lo stesso Juan, che si sentiva orgoglioso, non più inetto, e avrebbe sempre adorato zio Jaime. Quest’ultimo era nato in famiglia non certo in ristrettezze, che l’aveva destinato a studi di economia, perché arrivasse a ottenere un solido e sicuro impiego in una banca, semmai negli uffici di un’importante azienda. Jaime non condivideva per nulla quella scelta, già attratto e portato per studi e pratiche tecniche.
SI VA ALLA GUERRA. Comunque, a sparigliare le carte, su tutti s’era abbattuta la guerra. Non un conflitto dichiarato, che, però, aveva finito con il coinvolgere quasi tutta l’Europa. Si era arruolato nelle milizie volontarie. In seguito aveva avuto modo di apprezzare le milizie volontarie per la loro rivoluzionaria organizzazione: erano composte da volontari e quindi combattevano per loro stessi e per i loro comuni obbiettivi; il soldo, le condizioni di vita in guerra e le uniformi erano le stesse sia per i soldati semplici che per gli ufficiali; gli appartenenti a diversi gradi potevano interagire e discutere apertamente tra loro. Questo tipo di organizzazione, nonostante avesse portato a problemi di efficienza e perdite di tempo, aveva garantito comunque un notevole numero di volontari, una bassa percentuale di diserzioni e una sufficiente disciplina. All’inizio aveva vissuto la banalità della guerra di trincea che aveva soltanto un misto di noia e scomodità, di caccia ai ratti che erano davvero grossi come gatti, o poco ci mancava, e delle esplorazioni del territorio tra le linee nemiche, compiute strisciando nascosti dalla nebbia o dall'oscurità notturna. Vari erano stati i problemi al fronte, quali la mancanza di legna, tabacco e munizioni decenti, così come i pericoli derivanti da incidenti dovuti all’insufficiente esercitazione e dalla pessima qualità delle armi. Jaime si era già fatto un nome nell’organizzare la revisione e manutenzione delle armi, e il controllo del munizionamento. Aveva avuto modo di rendersi conto della marginalità delle operazioni cui erano state assegnate le milizie. Di sua iniziativa, nel reparto, aveva iniziato a rispolverare tecniche di guerra del primo conflitto mondiale, che avrebbero potuto compensare la loro debole forza d’urto. E pure di resistenza. Aveva costituto pattuglie speciali di esploratori di fanteria, e, quei pochi che Jaime era riuscito ad addestrare come genieri, preparate ad agire anche dietro le linee nemiche, per tranciare o far brillare i reticolati nemici, e tagliare o intercettare i collegamenti telefonici. Compito loro era divenuto fare ma anche disfare le piazzole delle trincee e le ostruzioni difensive. La punta di lancia dell'attacco erano stati i gruppetti che, con i tubi esplosivi, le bottiglie molotov, i mortai e le bombe a mano, dovevano neutralizzare i punti forti fortini della cintura difensiva nemica. Per risolvere lo specifico problema difensivo, invece, si erano affrettati a costituire pattuglie di arresto le quali dovevano provvedere alla posa e la difesa di campi minati in funzione di arresto per interdire l'accesso e il transito di zone ove non era stato possibile o conveniente stabilire una organizzazione difensiva più salda. Il lavoro era ingrato poiché si trattava di maneggiare mine di ogni tipo, per lo più sconosciute, recuperate, a volte avariate e, sempre, pericolose e infide. I guastatori di Jaime si erano lanciati animosamente nella sgradita attività, intendendone l’importanza nel particolare momento. Si erano subito adattati ad azioni di guerra ben diverse da quelle cui sono state sommariamente addestrati, e ancor più sommariamente equipaggiati. Le cariche di demolizione erano state convertite per arrestare, invece, i carrarmati di cui il nemico era dotato. Non molti, era vero, ma, ma pur sempre micidiali. Jaime aveva inventato anche il modo di immobilizzarli con cariche fatte brillare, con detonatori a distanza, a innesco elettrico. Si preparavano le mine e si eseguiva qualche ricognizione nei settori, dove pattuglie di pochi uomini potevano procedere senza suscitare eccessiva reazione nemica. Non era stata la sua sola iniziativa. La guerriglia, un modo di fare la guerra che solo in seguito avrebbe dimostrato la sua validità, a quell’epoca era una novità assoluta, tant’è che non costituiva neppure materia di studio nelle scuole militari degli eserciti. N susseguirsi di colpi di mano, di agguati, di imboscate. Mordi e fuggi. Un tormento continuo per il nemico che non capiva da dove provenissero gli attacchi, che li sorprendevano dietro le loro linee. E che erano anche fonte di rifornimento. Tutto ciò che poteva servire era bene accetto, da chiunque venisse. L’autorità del Comandante era corrispondente alla sua autorevolezza, e quest’ultima era corrispondente ai risultati positivi. Poiché era intelligente, ed abile, lasciava grande spazio agli specialisti, o a chi avesse proposte utili ad incrementare le potenzialità belliche del reparto. Jaime era stato colpito da come inquadrati erano sia uomini che donne, insieme. Non c’erano distinzioni nei compiti assegnati, se non che alle donne era più facilmente assegnato quello di staffette. Il perché a Jaime non era risultato chiaro, nessuno aveva saputo dargli una spiegazione plausibile. Eppure si trattava di azioni pericolose quanto quelle dei suoi incursori. I cecchini nemici conoscevano ormai i passaggi obbligati, che, anche se erano obbligati perché abbondavano di ripari naturali quali massi, sporgenze, avvallamenti, canaloni, avevano comunque zone scoperte, da percorrere allo scoperto. In quei punti contavano velocità, destrezza, furbizia ... e fortuna. Jaime aveva proposto che per quel compito fosse affidato a dei volontari, tra i quali sarebbero poi stati scelti, indifferentemente dal sesso, i più piccoli, veloci, agili, smaliziati.
La proposta era stata approvata dal Comandante, e aveva suscitato entusiasmo, non solo tra le donne. C’era uomini che si erano sentiti o più capaci per quel compito, o sminuiti nel vedere affidato un incarico così pericoloso solo alle donne. Queste ultime, va’ da sé, erano state subito le più grandi fan di Jaime. Ancor più quando anche gli altri compiti erano stati ridefiniti secondo abilità e competenze. Le volontarie avevano una loro leader ovviamente, Svetlana Alekseevna, russa siberiana, che, altrettanto ovviamente, aveva subito stretto alleanza con Jaime. Con non poco imbarazzo. Lei aveva tredici anni più di lui: c'era una ragionevole cautela sul fatto che la cosa potesse funzionare. La loro prima conversazione era stata grottesca: la comunicazione funzionava quasi meglio con i gesti che con le parole. Decifrare certi messaggi tra due persone che hanno una differenza di età elevata, e una padronanza della lingua d’uso comune approssimativa, era complicato. Il loro rapporto era nato e cresciuto su due piani paralleli: da un lato quello legato all'esperienza che stavamo vivendo, molto forte. Dall’altro quello affettivo. L'entusiasmo per la vita, ed erano tempi durissimi, lei era sempre in guerra. Accettava sempre tutto ciò che le veniva proposto. Era sempre a caccia di qualcosa che non conosceva. Ripeteva: “I nostri nonni e le nostre nonne hanno combattuto nella grande rivoluzione. Dovevano farcela senza niente, anche senza pallottole, combattere con il coltello. E hanno insegnato ai loro figli e ai loro nipoti come essere forti. Chi cresce in Russia deve sempre affrontare momenti difficili, credo che questo sia un motivo per cui noi vinciamo sempre”. Bella senz’anima la definivano in molti. Gli uomini, tutti. Bionde chiome, occhi verdi trasparenti, e seducenti. Seduzione di una divinità composita e imperscrutabile che comandava ed era obbedita senza che dovesse usare il pugno di ferro, o infliggere punizioni. Sapeva illuminarsi di sorrisi, come grugnire ordini. Li accomunava anche la loro attenzione per gli uomini e le donne che erano ai loro ordini. Erano entrambi duri, esigenti, esigenti inflessibili, perché dall’osservanza attenta e dalla risolutezza nell’osservare ed eseguire le loro istruzioni, i loro comandi, dipendeva la vita di quegli uomini e donne. Avrebbero voluto essere comprensivi e indulgenti, in momenti di riposo e di quiete, ma non era proprio possibile. Ammesso che ancora ce ne fossero di diverse, in quella guerra pietà l’era morta. Éer questo si erano dati da fare perché nel fraternizzare trovassero amicizia, solidarietà, e anche qualche affetto più profondo. Nonostante i reparti fossero misti, la tendenza era quella di ritrovarsi in piccoli gruppi di sole donne e soli uomini, e questo non era un bene, non cementava l’unione che avrebbe dovuto esserci tra commilitoni, indipendentemente dal genere. Così avevano sollecitato apertamente un formazione di gruppi e gruppetti all’interno dei plotoni e delle squadre. Il secondo ostacolo era stato quello di convincere i maschietti, alla presenza delle loro commilitone, che non era necessario si dessero da fare per alleggerire i compiti, fino a sostituirsi, anche saltando il riposo, alle ragazze durante il periodo del ciclo. Coloro che avessero avuto problemi avrebbero marcato visita, ma il considerare tutte le donne, in quel periodo, come handicappate da soccorrere in tutti i modi, era un atteggiamento maschilista e contrario al principio di eguaglianza. Va’ da sé, o forse no, ma così è andata, che durante quegli incontri, squadra per squadra, chi aveva dimostrato più disagio, ed imbarazzato fino al diventar paonazzo, o nascondersi dietro una tosse insistente, un pensiero così pesante da dover reggere il capo, rivolto in basso, o altri sotterfugi del genere, erano stati i maschietti. Tutti uomini duri, rotti ai pericoli e alle battaglie. Ma anche, se non soprattutto, brava gente, che non poteva o non sapeva non vedere in quelle donne, chi le proprie mogli, chi le sorelle, chi le fidanzate. Forse in famiglia non si sarebbero comportati così, sarebbero stati più rudi e meno attenti, ma lì la morte non era un’eventualità remota, incombeva sovrana. A casa non avrebbero avuto relazioni con altre donne se non con la propria compagna, e anche lì c’era un certo riserbo, una timidezza, un rispetto quasi reverenziale. C’era anche un istinto che non era animale, era l’emergere dal profondo dell’istinto di sopravvivenza, che, alla fine, portava a cercare il modo di sentirsi ancora vivi, in quella circostanza in cui, come già si è detto, ma non v’è modo diverso di dirlo, la morte aleggiava sovrana, infilandosi in ogni pensiero ed emozione, pervadendo ogni istante, frastornando la mente, e stringendo con forza il cuore. Consapevoli delle implicazioni che le loro sollecitazioni avrebbero sicuramente avuto, si erano preoccupati che gli addetti ai rifornimenti provvedessero al rifornimento e alla distribuzione di profilattici, a uomini e donne, per correre meno rischi.
Jaime e Svetla facevano gruppo a parte, necessariamente, va’ da sé. Sul far della notte piaceva loro raggiungere un piccolo ma fitto bosco di pini, non lontano dall’accampamento, ma abbastanza lontano. Lì sedevano, su un pezzo di tronco, che avevano addossato a quello di un albero, in modo da potervi appoggiare la schiena entrambi. Vicini, spalla a spalla. Lì fumavano, passandosi la stessa sigaretta, o lo stesso sigaro, con la brace rivolta verso il palmo della mano, per non segnalare la propria posizione. Era un’abitudine alla quale Jaime aveva addestrato tutto il reparto. Non solo, aveva istruito i suoi incursori, uomini e donne, a fumare il sigaro, tenendolo tra le labbra con la brace nascosta in bocca. Era il modo per avere sempre pronto il fuoco per l’innesco delle micce, senza che la punta luminosa li tradisse, segnalandoli ai cecchini nemici. C’era stato qualche inconveniente, qualche ustione, ma roba di piccolo conto. Per non essere da meno, quasi tutto il reparto aveva preso quell’abitudine. Nel bosco, il contatto delle loro braccia e delle gambe, l’incontrarsi delle mani per scambiarsi il fumo senza scottarsi e, soprattutto, senza lasciar cadere scintille pericolose, avevano creato un’intimità complice. Nessuno dei due voleva forzare la situazione: che le cose andassero come dovevano o come volevano. Non si sarebbero opposti, né trattenuti. Dare uno dei due una spinta, no. Tanto, era solo questione di tempo. E di sopravvivenza, va’ da sé, anche se lungo le loro linee sembrava essersi instaurata una tregua spontanea, non concordata, della quale le due parti avevano approfittato in tacito accordo. Una notte Svetla aveva preavvertito Jaime di portare con sé le proprie coperte, lei aveva fatto altrettanto. L’aveva guidato ad una minuscola radura, formatasi dall’abbattimento di alcuni alberi. Lì aveva steso a terra le coperte, imitato da Jaime, e si erano sdraiati, sempre spalla a spalla, le mani incrociate dietro la testa, a far da cuscini, lo sguardo rivolto al cielo. Jaime era rimasto sbalordito da un evento per lui inatteso e insolito. Luce livida pallor lunare bianco lucente lucentezza candida lo splendore quando nel cielo sereno, terno, di un blu intenso, profondo, vedeva dall'alto fiammeggiar le stelle/, e tutto di scintille in giro, mirava il ciel sereno, le vie dorate. Non erano sotto forma di puntini luminosi, ricamati sulla tela di fondo di palcoscenico. Emettevano bagliori scintillante di luce viva, intensa, in forma estesa e diffusa nell’infinito profondo. La luna come un sol dorò la nebbia della macchia, d’ una luce, il cui splendor frequente la notte fugge. Illuminata, circondata, e avvolta tutt'intorno da contorno di luce, di cerchi e archi luminosi. Il suo aspetto pareva severo e corrucciato di sdegno e superbia. Lontano si vedevano catene di monti, sui quali infinitesime luci brillavano come frammenti di stelle, e che si diramavano da un massiccio montuoso, in forme e curve, rotonde, pronunciate in modo arrogante. Belle di una bellezza primitiva e selvaggia. Smussate, scavate, frantumate dall’opera secolare dei ghiacciai, erano ancora lì, e si sarebbero sempre proiettate verso il cielo, stagliate sullo sfondo dell’orizzonte. Su un tappeto capovolto di luci, milioni di luci, che, però, tutte insieme, non sarebbero bastate a illuminare il cuore degli uomini che giacevano nelle tenebre, gli occhi serrati, pur sempre meno dell’anima loro. Non c’era miglior occasione, e scenario più complice per confessare il proprio turbamento! Svetla, all'apice della sua contemplazione, nel contorno della natura fiorita, non aveva perso la deliziosa occasione di scoprire anche i piaceri che Jaime avrebbe saputo darle. Trovava che, quando non aveva ancora avuto un rapporto sessuale con il partner, come si usa dire oggi, le era più facile trovarsi fuori dalle mura di una stanza, per evitare l'ansia, non certo la paura, che provocava in lei la timidezza nei confronti dall'uomo dal quale era attirate sessualmente. Sparare in fronte a un nemico, ficcargli la baionetta nelle budella, pugnalarlo al cuore o tagliargli la gola, le provocavano solo soddisfazione, più profonda e intima se aveva fatto bene il lavoro. Quanto ai sentimenti, o ad assaporare i piaceri del sesso, era imbranata, goffa, impacciata come una scolaretta. Anzi, più di molte sue amiche di scuola, che già alla fine degli studi, cioè verso i tredici-quattordici anni, poi dipendeva da quanti anni avessero ripetuto, si erano fatte la loro prima esperienza. All'inizio erano entrambi insicuri di quello che volevano veramente l'un l'altro. I loro sguardi si erano cercati, nell'attesa d'un sorriso, di un segno di connivenza. Lei, indecisa, era arrossita. Jaime, più determinato aveva tuffano una mano nell'apertura della sua scollatura, insinuandola sotto la camicia, e posandogliela su un seno. Spogliandola con la mente. Ogni minima cosa era diventata un pretesto per avvicinarsi, baciarsi, toccarsi. Esplorarsi, insomma. Le parole che si sussurravano, pronunciate nella propria lingua, estranea all’altro, niente avevano a che vedere con la complicità che stava nascendo tra i loro corpi calamitati. La notte era il loro trattino d’unione, le mani si muovevano all’unisono, come per cogliere lo stesso fiore, i respiri si acceleravano. Svetla, arresasi alla sua audacia combattiva, grande quanto il suo desiderio, si era decide ad affrontare Jaime. Immersi nelle meraviglie della natura, nascosti dagli sguardi del mondo, scoprivano una complicità che li spingeva all'unione fisica, attirati irresistibilmente l'uno dall'altro. Le schiene protette da un tappeto di stoffa, attenti a non si graffiarsi su un sasso o un ramo. Ad ogni contatto fremevano d'impazienza. Il semplice sfiorarsi produceva una scarica di piacere. Era il soffio del vento che sentivano sulla guancia oppure l'alito dell’altro? E l'umidità su tutto il corpo, era veramente l'effetto della notte? Se lei si era lasciata andare per prima, lui, stracolmo di passione, la stringeva e la divorava di baci. In mezzo alla radura, sulle coperte, non importava, si erano spogliati dei pantaloni, e stretti uno contro l'altra. Non c'era più niente che contasse, solo il loro desiderio da saziare. Jaime si era inginocchiato accanto a lei, attento a proteggere le ginocchia dal suolo. Ora i corpi si cercavano senza più riserve, le labbra si attaccavano, le lingue si intrecciavano. Svetla, eccitata dall'erezione si Jaime, gli aveva afferrato il pene e lo stimolava ancora di più. I loro corpi si erano del tutto illanguiditi, si offrivano alle appassionate carezze sulla pelle. Il suo pube riceveva il soffio della brezza come tante coccole che la preparavano a godere. I corpi appassionati profumavano di libertà. Quando la passione dei due si era scatena e il pene di lui l’aveva penetrata, i loro movimenti si erano sincronizzati. Facevano l'amore con naturalezza, come se fossero soli al mondo; si saziavano dei loro corpi, continuando a toccarsi e a scoprirsi, nonostante la scomodità. Faccia a faccia, lui disteso su di lei, per evitare di schiacciarla, non si abbandonava completamente, si appoggiava sui gomiti e sulle ginocchia. Aveva messo le gambe tra quelle di lei, che erano leggermente piegate. Svetla cercava di ottenere il contatto tra il clitoride e il pube di lui, per ottenere la stimolazione più efficace. Aveva piegato di più le ginocchia, e messo le mani tra i loro corpi, per aumentare la pressione sul clitoride. Non si stavano muovendo molto, e perché quella parentesi di appassionato abbandono durasse a lungo, e perché si sentivano così umanamente vivi, arrendendosi l’uno all’altro, senza nulla temere, che l’orgasmo pareva loro più che l’apice del piacere, la sua fine. L’esaurirsi del vivo incanto, dell’ intima gioia che nasceva dal possesso e dalla partecipazione a un appagamento spirituale, morale e materiale. Svetla aveva il bacino era bloccato dal peso di Jaime. Si baciavano il volto, il collo e le spalle. Per poterla accarezzare Jaime si era liberato un braccio, facendo completamente peso sull'altro. Anche se era una cosa alquanto scomoda, potevano stare faccia a faccia, guardarsi negli occhi, baciarsi, con un contatto del corpo molto forte. Lui aveva più libertà di movimento dei fianchi, e la stava usando, al risparmio. Sapevano di non poter dare sfogo al loro orgasmo con la voce, entrambi avevano soffocato le grida di piacere in un lamento cupo, intenso insaziabile.
Che i loro maneggi, o, se preferite, la loro corrispondenza d’amorosi sensi, e sessi, rimanesse segreta, sarebbe stata una pia illusione. Era divenuta di dominio comune, specialmente perché non era né appariva come una storia di sesso, simile alle molte che andavano svolgendo in quelle circostanze estreme. Era evidente che, come si usava dire, tra loro c’era anche del tenero. La truppa ne era stata rinfrancata, come fosse una grande famiglia dove l’autorità dei genitori, inflessibili ma giusti, fosse stata grandemente umanizzata dall’evidenza dell’amore e dell’armonia dimostrati apertamente da mamma e papà, dall’amore che li legava, dalla tenerezza che si dimostravano. Avere genitori in armonia rasserenava e rinsaldava, assicurava che anche loro, i figli e le figlie, erano partecipi di quell’affetto, e, quando i modo erano bruschi e rigorosi, facevano parte della loro educazione, per il loro bene. Il Comandante loro diretto superiore era, invece, più preoccupato, e perplesso. Il reparto di Jaime e Svetla sembrava rispondere a loro e loro soli, una compagnia di ventura. I risultati erano però innegabili, e aveva ancora in animo di trasferire uno dei due a far da istruttore agli altri reparti ai suoi ordini. Una soluzione che non lo convinceva ancora del tutto. Lo lasciava dubbioso proprio il loro rapporto. Anche lui, se non lui per primo, aveva capito che si trattava di una cosa seria, nonostante la differenza di età notevole. O, aveva pensato, proprio questo la rendeva di più, o altro, dai frequenti fidanzamenti stretti solo per la spinta dei bisogni sessuali, che, in situazioni di pericolo di vita, sbocciavano frequenti e naturali come antidoto al sentirsi continuamente morituri. Poteva anche accadere, pensava il Comandante, che la loro divisione fosse vissuta male, soprattutto dalla truppa, mandando a puttane tutto il lavoro fatto. E non era detto che, in reparti tutti misti, ciò che era riuscito ad una coppia uomo-donna, riuscisse ad un singolo. Una soluzione avrebbe potuto essere di nominare i due istruttori, togliendoli dal fronte di combattimento, perché si occupassero solo dell’addestramento. Ma, che sarebbe capitato al loro/suo reparto? Non erano ancora apparsi sostituti naturali, era ancora troppo presto per questo. Non poteva però non riportare sotto il suo comando quel reparto. Gli era tornata in mente una massima che spesso metteva in pratica nel suo lavoro civile: “Il buon capo è quello che sa delegare”. Poteva servire? Era applicabile in quell’evenienza? ‘Certochesì!’, si era detto, complimentandosi con se stesso, ‘Creo un nuovo livello di comando ... beh, in verità non lo creo, lo ripristino in questa gerarchia che non lo prevede. In fondo è solo una questione di nomi ... almeno spero. Comunque non comunicherò a nessuno la mia decisione, la metterò agli atti, e poi si vedrà. Intanto credo di risolvere al meglio quello che stava diventando un problema. Ottimo!’ Aveva convocato Svetlana e Jaime, e li aveva nominati suoi aiutanti di campo. Al di là del nome, la loro funzione sarebbe stata quella di vicecomandanti aggiunti, non però uno per ognuno dei suoi due battaglioni, ma affidandoli entrambi a ... entrambi i suoi aiutanti. Era ora a vedersi come la truppa, tutti volontari ricordiamolo, avrebbero accolto il cambiamento, e vi avrebbero reagito. Molto meglio del previsto. Il loro battaglione di provenienza aveva gioita per la promozione, era anche un riconoscimento alla organizzazione e perizia raggiunte da tutto il reparto, che non li allontanava dal loro comando. Il battaglione che passava anch’esso ai loro ordini era entusiasta di poter raggiungere l’eccellenza dei compagni commilitoni.
NIDO D’AMORE. Una sera, nel loro nido d’amore, Jaime era rimasto incantato dalla luce radiosa negli occhi di Svetlana, che, per lui, splendeva più di quella delle stelle: ah! l’amour ... “Sai”, gli aveva detto, “per la maggior parte la guerra è la fine della solitudine. Per me, credevo fosse la solitudine definitiva ... invece mi sembra di emergere da un sonno di anni e anni, ancora impastoiata nelle fasce dell’infelicità e dei grandi ideali, ma di nuovo nuda e tesa verso il sole. Rinasco ... è come se il primo sole dell’amore a poco a poco abbia sciolto le nevi accumulate, per lasciar libero corso alle acque irresistibili e zampillanti della gioia”. Jaime, “E sarei io il tuo sole?”. “Tu sei stato il mio toro. Rapido come un lampo e folgorante come un colpo di pugnale. Il nostro primo amplesso è stato casto, non godimento, ma bruciatura, la liberazione del sole, l’annientamento delle nevi. E un amore delizioso si è levato dal mio cuore. Ti amo”. L’aveva stretto tra le braccia, baciandolo come se ci fosse altra neve da sciogliere, che invece non c’era. Una appassionata tenerezza, che non idealizzava né ingannava. Una appassionata tenerezza che amava, innalzando chi amava. “C’ sempre, aveva ripreso Svetlana, “nell’uomo una parte che rifiuta l’amore. E’ la parte che vuole morire. E’ quella che domanda di essere perdonata. Quello che pensavo di chiederti da un po’, te lo chiedo questa sera: il giuramento di non appartenere mai a un’altra donna”. Jaime gli aveva fatto quella promessa, senza chiedere nessun impegno a lei. Ma nella gioia disumana e nella fierezza del suo amore, gli fece lei l’analoga promessa. La notte era calda, e si era levata la nebbia, a nascondere le lucine dei villaggi, delle case, laggiù, sui contrafforti lontani. Da chissà dove un enorme concerto di rospi dalla voce melodiosa arrochita. “Sono sconvolto”, le aveva sussurrato Jaime, “perché ti amo molto, naturalmente, ma soprattutto perché ho capito che voglio vivere con te”. La sentiva fremere tra le sue braccia, non osava muoversi per non rompere quell’incanto. Svetlana sentiva salire dentro di lei ciò che aveva a lungo cercato, e le era finalmente apparso. Non poteva non consentirvi. “Audaci lo siamo, ma ora anche folli. Mi chiedo se l’indifferenza, il disprezzo dei pericoli rimarranno, spontanee, o inizieremo ad essere cauti per la vita”. “Dove la libertà è un lusso, come non può essere un lusso anche la liberta?”, le aveva sussurrato, senza aspettarsi una risposta, che lei, invece, aveva già pronta, “Ragione di più per non cedere a coloro che vogliono fare una miseria sia della libertà che dell’amore”. Jaime le aveva sorriso, carezzandole il capo: “No pasaràn, amore mio, no pasaràn!”.
SUONA LA CARICA!. L’indomani erano andati all’attacco, mentre la nebbia era ancora fitta. L’assalto principale doveva avvenire lungo la strada asfaltata, mentre sulle alture dovevano avanzare in avanscoperta le SdA, lungo disagevoli sentieri di montagna. Il loro obiettivo era di bonificare la strada, e dare appoggio all’attacco principale, per proteggerne il fianco, tenendo impegnate forze nemiche. La manovra principale doveva portare alla conquista di un nodo strategico importante, nevralgico per la sua posizione. Per l’offensiva erano schierate due brigate, in due ondate. La prima, internazionale, appiedata, aveva il compito di sfondare le linee nemiche, la seconda, formata completamente da bolscevichi, interamente autotrasportata, e con un battaglione di carri veloci –quanto, questi, sarebbero stati più utili nella fase di sfondamento !!!-, avrebbe dovuto scavalcare la prima e proseguire rapidamente l’avanzata secondo la tattica della guerra celere. La conoscevano anche dall’altra parte, ma la chiamavano blitzkrieg, forse perché avevano, in più, l’appoggio dei cacciabombardieri. Le squadre d’assalto (SdA) avevano già studiato abitudini e intenzioni del nemico. E, soprattutto, a individuare e bonificare le mine, di diverso tipo e dimensione, che il nemico aveva disseminato ovunque. Nei giri di ricognizione, ogni uomo era equipaggiato con giubbe di pelle, che erano d’uso su ambo i fronti, e con gli scarponi chiodati ben fasciati di stracci, perché non grattassero rumorosamente sui sentieri sassosi. Erano armati con alcuni dei pochi moschetti automatici, MAB 18, pistola, pugnale e bombe a mano. Il terreno, argilloso, ed eroso dalle acque, era coperto da vaste zone di bosco. A intervalli irregolari, razzi illuminanti, nemici o amici, costringevano le pattuglie a cercare un riparo, o gettarsi a terra, assolutamente immobili, per non profilarsi alla luce improvvisa che illuminava il campo. Lontano, i lampi delle artiglierie incendiavano per qualche attimo il cielo. Le SdA sentivano i motori che rombavano dietro le linee nemiche, o i carretti che cigolavano sulle sterrate. Così individuavano dove fossero diretti i rifornimenti, che erano fatti affluire col favore delle tenebre. Li avrebbero fatti oggetto di saccheggio, o segnalati all’artiglieria perché li distruggesse. C’erano state anche improvvise esplosioni, non precedute da bagliori o da colpi in partenza. Tutti capivano subito, con la morte nel cuore, che si era trattato del brillamento di una mina. Dopo queste esplosioni, accadeva sempre che qualcuno tornasse indietro riportando un compagno ferito, mutilato, morente, o morto. Lasciatolo, tornavano a raggiungere il resto della pattuglia. Grazie all’addestramento ricevuto, l’ostacolo dei campi minati era stato superato, aprendovi corridoi sicuri, con perdite inferiori a quelle mai patite un analoghe circostanze. L’attacco della prima brigata era stato travolgente, anche se si erano scontrate con una difesa aggressiva. Raggiunto l’obiettivo, aveva preso posizione, per essere scavalcata dalla seconda ondata. La brigata … celere. . si era rallentata. Il suo comandante stava avanzando timori e sollevando perplessità col Q.G. del Fronte. Già dopo poco più di quarantott’ore la guerra celere era bloccata, e non si era riusciti a farle fare un solo passo avanti. La prima brigata aveva cominciato a scavare trincee per resistere all’urto del contrattacco. Le SdA, sullo squallido altopiano, avevano sfruttato i ripari naturali, facilitata dalla morfologia del terreno, che, perpendicolare alla direzione dell’attacco del nemico, era costituita da rilievi collinosi, paralleli, inframmezzati da avvallamenti, che costituivano linee d’arresto successive, e da una miriade di muretti che delimitavano ben magre proprietà.
Il Comandante, però, non aveva voluto lasciar cadere il vantaggio acquisito, anche se locale e secondario. Aveva così deciso che una SdA procedesse alla ricognizione, e eventuale occupazione, di un fabbricato rurale, su un rilievo. L’obiettivo era stato raggiunto e conquistato: era abbandonato. Altre case erano situate al di là di un torrente in secca, e si riconoscevano a vista come postazioni nemiche. Il comandante era indeciso se procedere, e riuscire nell’impresa, a costo di aspri combattimenti, o ritirarsi lasciando l’obiettivo all’artiglieria. Jaime e Svetla, però, avevan o obiettato che si trattava senza dubbio di una postazione nemica: erano penetrati per almeno quattro chilometri nello schieramento avversario, ma, con ogni probabilità, si trattava di un punto di raccolta dei rifornimenti. Chi lo presidiava doveva sentirsi molto al sicuro, o non avrebbero tralasciato di fare del casamento abbandonato, quel posto di vedetta cui era destinato per posizione. Un attacco, di notte, dalla direzione da cui proprio non se l’aspettavano, avrebbero potuto fare il massimo danno, catturare prigionieri, far incetta di armi e munizioni, e distruggere quelle di cui non potevano impossessarsi. Il Comandante aveva preso una decisione salomonica. Una forza di due plotoni, agli ordini di Jaime, avrebbe condotto l’incursione. Un terzo plotone sarebbe rimasto, di rincalzo, presso il casamento conquistato. Il grosso del reparto sarebbe rientrato nelle proprie linee. Jaime aveva deciso per un attacco su due lati, da ovest e sud, le direzioni tanto improbabili da essere forse ritenute impossibili. Non dovevano andare all’assalto, solo prendere posizione, e, se si fosse iniziato a sparare, dare fuoco di copertura, inchiodando il presidio con un nutrito fuoco di fucileria e delle mitragliatrici. Una SdA al suo comando avrebbe condotto l’incursione vera e propria. Il piatto più ghiotto era rappresentato da due camion, ancora carichi di rifornimenti, parcheggiati nelle vicinanze di un deposito. Sei uomini erano stati lasciati lì, per partire a rotta di collo con i grossi autoveicoli, al segnale che sarebbe stato dato con un razzo bianco. Jaime e i suoi uomini si erano mossi in silenzio, lungo un sentiero stretto e ripido. Erano sporchi, con le barbe lunghe e stanchi, ma come si erano mossi, in fila indiana, con gli zaini sulla schiena, era scesa su di loro una sorta di calma. Avevano disposto mine o cariche di esplosivo, accanto ad ogni deposito, dopo aver gettato a terra taniche di carburate stappate. Rimasto indietro con altri quattro volontari, aveva seminato un po’ di mine e trappole esplosive. Nelle sue intenzioni, le prime esplosioni dovevano far accorrere sul posto il maggior numero possibile di nemici, nell’intento di dominare gli incendi, che sarebbero apparsi limitati. Quando ci sarebbe stata la massima concentrazione di soldati, Jaime avrebbe innescato la seconda, tremenda esplosione, che avrebbe investito tutta la zona.
Intanto, a valle, la controffensiva era scattata su tutta la linea del Fronte, ed era stato l’inferno. L’ostinata quanto incomprensibile e assurda caparbietà del comandante la brigata celere di restare più o meno sulle posizioni di partenza, aveva messo in crisi l’intero schieramento repubblicano. Attacchi e contrattacchi si alternavano lungo un breve tratto di circa due chilometri. Da una parte e dall’altra c’erano episodi di eroismo e confuse scene di panico. La prima brigata resisteva ancora sulla stessa linea raggiunta, con perdite disastrose. Davanti all’avanzare dei PzKpfw alcuni reparti si erano ritirati in disordine, mentre i giganteschi T-26 della seconda brigata … stavano a guardare. Le SdA, che avevano trasformato ogni muretto di pietra in una trincea, avevano anche distrutto sei Panzer con i cacciatori di carri, armati con le mine trasformate sul progetto di Jaime. Le ragazze di Svetlana si erano distinte nell’operazione. Jaime ne sarebbe stato felice ed orgoglioso. Va’ da sé, dopo essersela fatta addossa dalla paura per la sorte della sua amata. Avevano resistito battendosi con le bombe a mano e assalti alla baionetta. Mentre a terra la battaglia infuriava senza sosta, i cacciabombardieri nemici mitragliavano e spezzonavano a ondate successive le linee della prima brigata, già duramente provata. Il Q.G. per ore si comportò in modo inspiegabile, senza prendere provvedimenti completi né impartire ordini precisi, lasciando che gli eventi seguissero il loro corso. Non c’era nessun a logica spiegazione. L’intervento di trenta o quaranta PzKpfw che invece di essere lasciati sparsi in appoggio alla fanteria, erano stati riuniti per un unico colpo d’ariete, aveva fatto precipitare la situazione. Iniziata la ritirata sull’ala destra, il Q.G. era stato costretto, letteralmente, a ordinare un ripiegamento generale per evitare l’accerchiamento. Non era stato da escludere che qualcuno avesse addirittura preordinato la sconfitta, mandando al macello la prima brigata. La verità l’avrebbero rivelata i fatti a venire.
L’ULTIMO A RITIRARSI. Ormai a più di nove chilometri dietro le linee nemiche, Jaime aveva voluto essere l’ultimo a lasciare il campo, per controllare che l’esplosione avvenisse nel momento in cui avrebbe prodotto il massimo danno. La sua ritirata sarebbe stata protetta dalle mine e trappole esplosive disseminate. Quando aveva dato il segnale, gli uomini erano saltati nella cabina dei camion, ma uno dei veicoli si era bloccato. Gli altri, anche quelli assegnati all’altro mezzo, erano saltati a terra a spingere, e il motore si era riacceso. Ma solo per spegnersi di nuovo. L’uomo alla guida, calmissimo, era sceso, con in mano una latta d’olio. L’aveva versata nel motore in panne, e, come per magia, il camion aveva ripreso vita. In pochi istanti si erano allontanati, lasciando dietro di sé solo nuvole di fumo, e una di olio bruciato. Quel ritardo era quasi costato la vita a Jaime. Nonostante il caos generato dal susseguirsi di esplosioni tra i nemici, un gruppo, già allertatosi al rumore dei camion, era riuscito a individuarlo. Non era stato facile averne ragione, anche se, stagliandosi loro sullo sfondo illuminato da incendi e esplosioni, erano bersagli molto esposti. Jaime era anche in vantaggio quanto ad armamento. Il smle (Short Magazine Lee-Enfield, o Fucile N. 1 inglese) era un fucile eccezionalmente buono. Il suo otturatore era il più veloce e leggero al mondo. Un tiratore addestrato, e Jaime lo era, era in grado di sparare, mirando, con una cadenza di venticinque colpi al minuto, e senza troppa fatica. E aveva un caricatore da dieci colpi, calibro 7,7 mm. o 0,303. Il fucile in dotazione agli avversari era invece il Fucile ’91 (Corre l’obbligo di precisare che l’arma che uccise il Presidente degli USA John Kennedy, fu un fucile modello 1891, calibro 6,5 millimetri.) , un 6,5 mm. superato, che lamentava carenza balistica e di portata. Il caricatore conteneva solo sei colpi, e la cadenza di tiro massima era di quindici colpi al minuto. In poco tempo cinque nemici erano rimasti sul terreno: due morti e tre feriti. Anche Jaime, però, era stato ferito. Peggio, il suo Enfield aveva un caricatore inserito, ma lui non ne aveva nessuno di riserva. Aveva però la sua Colt 0.45 (Pistola automatica Colt M1911, calibro 0.45 (11,43 mm.)). Non se ne era mai separato da quando un volontario americano, che faceva parte dell’equipaggio delle ambulanze, gliela aveva regalata, dopo che Jaime l’aveva salvato dalla fucilazione sul posto, scambiato dalla Polizia Militare per una spia nemica, a causa della sua padronanza approssimativa della lingua, e un portamento non molto conforme a quello dell’esercito in cui si era arruolato. Il grosso proiettile acp 45 era in grado di mettere subito fuori combattimento chiunque ne venisse colpito, anche non a morte o in modo grave. C’era chi la chiamava artiglieria tascabile, chi, invece, cannone a mano. Il suo potere di arresto era terrificante (Narrasi che l’esigenza di un’arma con tale potere d’arresto, sia stata imposta da un’esperienza sul campo spaventosa, toccata ai marines americani, nel corso del conflitto ispano-americano del 1898, in particolare a Cuba. Gruppi di guerriglieri filo-spagnoli, avevano caricato, armati solo di machete, le linee americane. Erano talmente imbottiti di una qualche sorta di droga, e invasati, che molti, se non colpiti subito al cuore o al capo, anche se feriti, si lanciavano contro i marines, più terribili dei kamikaze giapponesi a venire. Da qui la richiesta di un’arma leggera che bloccasse con un solo colpo il più assatanato e fuoriditesta dei nemici.). Anche se il suo rinculo scalciava come un mulo, si era guadagnata una reputazione di precisione e maneggevolezza come poche altre. La distanza a cui stavano combattendo non superava i cento metri, e, anche se la sua gittata andava ben al di là di quel limite, la Colt andava a bersaglio con sicurezza. Aveva esaurito i suoi sette colpi, e il gruppetto, che era formato originariamente da nove uomini, si era ridotto a due soli. Non aveva avuto il tempo di inserire nella pistola un nuovo caricatore, che i superstiti si era avventato su di lui baionetta in canna, così scatenati e fuori di sé, da volerlo sbudellare. Il pugnale non sarebbe servito a molto, a Jaime. Non gli era rimasto che difendersi con la propria vanghetta. Il primo a cercare l’affondo era stato colto di sorpresa dall’arma improvvisata, che aveva deviato con un colpo secco il suo fucile. Spinto dal proprio slancio, il suo tronco aveva deviato seguendo il fucile, e la vanghetta l’aveva centrato in pieno volto. Il secondo, messo sull’avviso, era stato più cauto, sfruttando il maggior allungo del proprio fucile con tanto di baionetta. Era iniziata una sorta di corrida. Jaime era il torero, che, va’ da sé, doveva prima toreare il toro, farlo stancare mandando a vuoto i suoi assalti, evitando d’un soffio le corna, nella fattispecie la baionetta, in modo da far passare il toro-nemico vicino a sé. Diversamente che nell’arena, stava spingendo l’avversario s sbilanciarsi e scoprirsi, abbastanza vicino da essere a portata della sua vanghetta. Il toro-nemico era riuscito a ferirlo con il corno della sua baionetta: una ferita dolorosa, che aveva trapassato il fianco di Jaime, senza, fortunatamente per lui, provocare altri danni. Inferto il colpo, il nemico non aveva potuto allontanarsi rapidamente, era stato rallentato e impacciato dal dover estrarre la baionetta dal corpo di Jaime. Tanto era bastato per sbilanciarlo e farlo cadere a terra. Jaime gli aveva subito messo la vanghetta sul collo. E il piede sulla vanghetta. Con lo stesso gesto con cui avrebbe spezzato una zolla di terra grassa, aveva spinto a fondo. Era riuscito quasi a rientrare nelle linee al primo lucore dell’alba, quando era iniziato, contro di lui, un cecchinaggio particolare, a colpi di mortaio. Non l’avevano centrato. Una delle mine tra le quali stava passando, però, era scoppiata per simpatia, provocandogli gravi ferite, e facendogli perdere i sensi. Erano stati i suoi, con un coraggio incosciente, bersagliati dal tiro micidiale dei mortai, a volerlo andare a prendere, e riportarne il corpo –ormai era dato con certezza per morto- per dargli sepoltura degna, e con tutti gli onori dovuti. Non è possibile trovare parole per descrivere tutto quanto era accaduto quando, e ancora a lungo dopo fattosi leggenda, lo avevano trovato più morto che vivo, ma vivo. In seguito al un suo ferimento, era stato trasferito in un ospedale della capitale.
VA’ DA SÉ, SVETLANA ERA CORSA AL SUO CAPEZZALE ogni volta che aveva potuto, o gliene aveva creato occasione il Comandante. Gli aveva portato tutte le sue cose rimaste al campo. Va’ da sé, complice un’infermiera, che diveniva subito romantica all’apparire di un paio di pacchetti di sigarette americane o inglesi, riuscivano a imbucarsi a fare l’amore. Svetlana Alekseevna aveva superato ogni imbarazzo, era divenuta intraprendente, ed esigente. Non nella quantità o nella foga, nell’intensità: attirava a sé Jaime, e si protendeva verso di lui, perché i loro corpi aderissero completamente, schiacciati uno sull’altro. Il tutto con estrema lentezza, come innescare un fuoco ricorrendo alla scintilla scoccata dallo sfregamento di due pietre, o da quello tra due legnetti. La parte più difficile era sempre quella di reprimere e soffocare l’espressione vocale dei loro orgasmi. Il loro legame si rafforzava a ogni visita, e Jaime ne era felice. Un solo neo, come un’ombra che passasse veloce ma inquietante nella luce del sole, lo stava inquietando, lasciandolo in apprensione. Le visite di Svetlana si erano fatte sempre più frequenti e prolungate, tanto da aver trovato ospitalità da una dell’infermiera che aveva due stanze, in una casa a schiera, di fronte all’ospedale. Con lui Svetlana era sempre sorridente, radiosa, che ben mill'anni ognor li parea quando | quella dovesse goder con lietezza. Eppure ... eppure ... quell’ombra misteriosa e preoccupante aveva iniziato vederla nel fondo degli occhi di Svetla. Ne era rimasto turbato e inquieto. Quando, poco prima di essere dimesso, avevano potuto fare qualche passo fuori dall’ospedale, Jaime era stato sorpreso, sbigottito dagli straordinari cambiamenti che erano avvenuti mentre lui era in ospedale. Anche l'atmosfera che si avvertiva nell’aria era diversa … sgradevole. Quella rivoluzionaria si era dissolta. Gli sembrava di essere entrato in ospedale da un mondo, ed esserne uscito in un altro, in apparenza simile, ma diverso. Non c’era più tensione rivoluzionaria. Erano tornate, riaffermate, le differenze tra classi ricche e povere, ed erano ricomparsi comportamenti e linguaggi servili. Svetlana non aveva più potuto nascondergli ciò che lei già sapeva, ma tanto, e molto bene, si era sforzata di non far trasparire. I dissidi, le divisioni, le contrapposizioni politiche erano esplose in un conflitto armato. I bolscevichi, sostenuti e politicamente, e con l’invio di rifornimenti di ogni tipo, avevano fatto un vero e proprio colpo di Stato. Le Brigate Proletarie (BP) avevano preso il controllo militare, procedendo ad arruolare nel nuovo Esercito Popolare, tanto simile al vecchio esercito monarchico, tutti coloro che accettavano di schierarsi con loro. Uniformi kaki elegantissime, un ufficiale ogni dieci soldati; la metà, degli ufficiali, erano politici. Ricostituiti i vecchi ordinamenti, ripristinate le vecchie regole. Fino ad allora ufficiali e soldati potevano indossare liberamente indumenti casual, tute blu, comunque fuori ordinanza. Nessuna piastrina d’identificazione, gradi irriconoscibili da chi non sapesse cosa fossero. Le milizie non andavano più di moda, anzi, chi lo faceva era ritenuto pericoloso, confusionario, indisciplinato. Inutile. Comunque, tutti i miliziani volontari, in particolare quelli arruolatisi sotto altra bandiera politica che non fosse quella bolscevica, erano state invitate a consegnare le armi, disciogliersi, e “tornare a casa”. Chi non era disposto ad arruolarsi nell’Esercito, poteva tornarsene a casa. Il che, per dei profughi politici, ricercati o anche già condannati, nel loro Paese, era la più allettante delle prospettive. Venivano caricati su treni, sempre di nascosto, prima dell’alba, e condotti al confine, ove veniva loro restituito il passaporto, che avevano consegnato al loro arrivo. Non a tutti, la decisione di fare pulizia comportava che alcuni rifiuti dovessero essere eliminati definitivamente. Per chi aveva deposto le armi, era scattata anche la trappola dell’avvio ai campi di lavoro, umiliati e prostrati. Un buon numero di volontari, che si erano arruolati un po’ come ci si arruolava nella Legione Straniera, erano passati al nemico. Altri erano rimasti, sottomettendosi a lavori comuni, e comunque lontani dal fronte. Altra impresa, poiché il fronte si stava restringendo, col nemico che, durante le faide interne e la debolezza conseguente di chi avevano di fronte, non era stato né a guardare, né ad aspettare. Il reparto di Jaime e Svetlana, come gli altri formati per iniziativa della Unione Generale di Solidarietà Operaia (UGSO), non erano stati toccati, almeno fino a quel momento, giacché l’Unione era il sindacato largamente maggioritario. Quando le B.P. avevano cercato di conquistare militarmente il controllo degli edifici pubblici nevralgici della capitale, erano stati i reparti dell’UGSO a farli battere in ritirata. Dappertutto stava emergendo una figura nuova, senza precedenti nella storia militare, quella dell’ufficiale politico. Egli affiancava ogni comandante militare, a qualsiasi livello, ed esercitava una maggiore autorità, rispondendone direttamente solo al Partito bolscevico. Di conseguenza si era creata, in ogni reparto, una duplice piramide di comando, quella militare e quella politica. L’ufficiale politico metteva sempre al primo posto l’obiettivo della lotta per la dittatura del proletariato, e l’internazionalismo proletario, a scapito di quello del prevalere sul vecchio regime monarchico, e fondare una repubblica democratica. Era stata introdotta, nei reparti, l’”ora di politica”: un’intera ora, durante la quale si doveva discutere della possibile situazione postbellica, soprattutto indottrinando gli uomini a credere in un nuovo futuro, all’alba radiosa dell’avvenire. La fedeltà al giuramento militare e la fedeltà al Partito degeneravano spesso in scontri non certo encomiabili. Vinceva sempre il punto di vista del Partito, il che non voleva necessariamente dire quello del’ufficiale politico: non pochi comandanti appartenevano al Partito, così l’aveva vinta chi era meglio ammanicato. Per quella volta, perché le lotte e le faide tra gruppi di potere erano continue, e a prevalere ora erano gli uni ora gli altri. Per estendere la propria egemonia gli ufficiali politici impiegavano propri infiltrati e la soppressione pura e semplice di comandanti che rappresentavano un ostacolo. Quando ciò non era possibile, o il colpo non riusciva, scoppiavano scontri aperti tra le due “anime”.
PER DOVE SI VA ALLA GUERRA? “Mi sto chiedendo dove sia la guerra”, le aveva confessato Jaime, “... in tutto questo c’è qualcosa di ignobile”. Svetlana, “Forse non ce ne accorgiamo e l’abbiamo dentro di noi ... è questo che ci blocca, l’obbligo di scegliere e non sentirsi abbastanza coraggiosi da farlo ... di astenerci. Non si tratta solo del rimpianto per la morte degli altri, è anche il condannarli alla spaventosa solitudine dell’indifferenza”. Jaime, “Ci sentiamo tutti umiliati, e disperati, man mano che trascorrono i giorni. L’odio e la violenza si sentono affiorare tra persona e persona, non c’è più nulla di puro in loro. Affiorano la viltà, la parodia del coraggio, la contraffazione della grandezza, il deprezzamento dell’onore. Che differenza c’è con coloro che combattiamo? ... E’ il regno delle bestie!”. Svetlana, “Sì, è sbalorditivo constatare con quanta facilità crolli la dignità i certuni. Ma, a pensarci bene, è normale, perché la dignità riuscivano a conservarla solo grazie a sforzi incessanti contro la loro natura”. Jaime, “Hanno sviluppato una paranoia feroce e implacabile nei confronti di ogni valore e principio che non sia il loro. Vien da pensare che sospettino de “valore” in sé. Giova solo quello che contribuisce alla società che desiderano. Questo è il loro vero movente profondo. Sono entrati nella menzogna come si entra in un ordine religioso. E’ solo un comodo rifugio dove non c’è niente di puro, solo menzogne avvelenate”. Svetlana, “E’ frustrante, esasperante ... quello che stanno facendo ha già ricevuto terrificanti smentite storiche, porta solo sventura e assassinii. Naturalmente, ciò che mi interessa non è sembrare migliore. Mi conosco troppo per credere a valori assolutamente puri, ma questi sono del tutto privi di scrupoli, e dicono di esserlo perché si sono liberati dai falsi sofismi. Quando ci arrivano degli ordini sento che qualcosa si ferma in me. A questo punto c’è qualcosa che si è sganciato”. Jaime, “Hai già pensato ... avete già pensato al che fare?”. Svetlana: “Non lo sappiamo ... è utopico voler separare la propria responsabilità, anche solo dalla crudeltà e dalla idiozia degli altri. Non si può dire: “la ignoro”, si collabora o si combatte. Non c’è nulla che sia meno giustificabile e meno odioso di uno scontro fratricida. Ed è vile volersi trarre in disparte col pretesto che non se ne è responsabili. Il compiacimento su se stessi è vietato, non possiamo stare solo a giudicare restandone fuori. Disprezzo chi ha creato questo dramma, questa assurda sventura. Comunque ogni mia reazione non ha di per sé nessuna importanza. Decideremo insieme ... tutti”. Jaime, “Tutto questo è assurdo, nessun gesto ha più valore. Per quanto sia straziante, dobbiamo sopportarla, e disarmare. Per poter ricominciare. Non mi sono mai rimesso a un giudizio assoluto che non sia il mio, e il mio disgusto per tutto questo è completo. Sono coinvolto in una guerra, e ho il diritto di darne un giudizio, e di agire in base al mio giudizio. E non riesco a sopportare questa idiozia generale, opprimente e sanguinaria, in cui si continua a credere che il sangue possa risolvere i problemi umani”. Svetlana, “E’ come battere la testa contro un muro ... e tutto in nome del proletariato. Ma il proletariato è davvero il più alto valore? Una libertà collettiva non personale, ma totale. Ma cos’è una libertà “totale”?”. Jaime, “E’ evidente, significa l’asservimento dell’uomo all’uomo. Negano il libero arbitrio dell’uomo e, nello stesso tempo esigono da lui una abnegazione volontaria”. Svetlana, “Negano che ci sia la possibilità di scegliere, e nello stesso tempo esigono che si scelga sempre la soluzione buona”. Jaime, “Negano che ci sia la facoltà di distinguere tra il bene e il male, e nello stesso tempo parlano in modo patetico di colpa e tradimento”. Svetlana, “L’individuo è come una rotella di un orologio caricato per l’eternità, che fatalmente nulla può influenzare e fermare, ed esigono che la rotella si ribelli contro l’orologio, ne rivoluzioni il movimento”. Jaime, “Eppoi, le rivoluzioni non si devono fare per dare il potere a una classe o a un partito, ma per dare una possibilità alla vita. Qualcuno ha programmato e spinto a questa rottura, ma si è sbagliato nel credere di poterla controllare. Succede sempre così quando un’idea, anziché apparire alla luce di un ragionamento, si incarna nella vita. O resta utopia, o scatena una guerra. E ora la vittoria dei reazionari nessuno può impedirla. Non possiamo più impedire nulla, ed è qui il nocciolo della questione”. Svetlana, “Non so se possiamo fare qualcosa o no ... ma restare senza far nulla ...”. Jaime, “Amore, penso che si debba risparmiare il sangue e la libertà altrui, perché, cerca di capirlo, le dittature non si vincono tanto con l’entusiasmo di coloro che vogliono combattere a tutti i costi, ma, soprattutto, con la disperazione di quelli che le rifiutano dal profondo del cuore. So che è difficile, atrocemente difficile non fare, ma sai di quante buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno”. Svetlana, con voce angosciata, il volto addolorato, “Ti amo!”. Jaime, “Perché lo dici in modo così terribile?!”. Svetlana, “Perché il mio amore è terribile”. Jaime, con dolcezza, “Non esiste un amore terribile. Come puoi dirlo proprio tu? Io conosco il tuo cuore”. Svetlana, “C’è troppo sangue, troppa violenza ... e non parlo di quella della guerra. Come può esserci amore in un posto come questo?”. Jaime, “Amore, ora sei afflitta, ferita ... ma noi ci amiamo, lo sai ... vero?”. Svetlana, “Dare tutto e sacrificare tutto senza attendersi una ricompensa ...”. La sua testa si era piegata dolcemente, il suo volto meno fiero, gli occhi agitati, le labbra leggermente aperte. Jaime: “Lasciati finalmente andare ... si chiama tenerezza”. Svetlana, “Tu mi ami con tenerezza?”. Jaime, “Con tenerezza, con abbandono, con fervore ...”. Svetlana, “E io amo te più di qualsiasi altra cosa al mondo. Il mio cuore è pieno di te”. Rideva come piangesse. O piangeva come ridesse.
La situazione si era rapidamente deteriorata. L’esigenza primaria del Governo non era più battere i monarchici, ma togliere le armi alle milizie dell’ugso. All’uopo aveva costituito reparti speciali, gli Arditi. Era stato emanato anche un ordine generale che proibiva a tutti i civili, pena la morte, di dare rifugio, appoggio o armi ai miliziani. Ordine in gran parte disatteso. Gli Arditi avevano iniziato ad attaccare con la forza le roccaforti delle milizie. Lo stallo era stato rotto da quello che le milizie avevano chiamato “il Tradimento”. Tutti i rifornimenti in arrivo erano stati destinati alle B.P., ed erano armi migliori. Le munizioni erano di calibro diverso, inutili per le milizie. Era stato un colpo durissimo. Lo sconcerto era stato generale, e così l’avvilimento. C’erano stati i primi episodi di sbandamento. Con la forza, o con false blandizie, le B.P. avevano proceduto ad arruolare chi voleva proseguire la guerra con loro; e a far deporre le armi a chi non sceglieva questa via. A questi ultimi era stato promesso di potersene andare liberamente. Le milizie erano state smembrate e disperse. Alcuni reparti si erano “dati allamacchia”, sulle montagne, senza più collegamenti tra loro, né col in loro Q.G. Non lo sapevano ancora, ma tutto lo Stato Maggiore Generale delle milizie era stato “passato per le armi”. C’erano stati anche degli eccidi: per vendetta, gli ufficiali politici di alcune B.P. avevano voluto infliggere punizioni esemplari a chi non consegnava prontamente le armi. Il terrore stava serrando in una tenaglia tutti, sotto l’aspetto superficiale ingannevole. I cadaveri rinvenuti agli angoli delle strade aumentavano paurosamente. Capi politici e militari non bolscevichi scomparivano misteriosamente dalla circolazione. Era iniziata l’operazione pulizia. L’epurazione di questi “odiosi nemici del popolo” era stata affidata a consiglieri di provata fede, spediti segretamente nel Paese da mezza Europa. Si era distinto in particolare un certo Ercole … o Eracle, o giù di lì. Uno che era come il vino: invecchiando diventava migliore. In quella specialità, cioè. Certo avevano una mission impossibile davanti a loro: impedire ogni evoluzione e rivoluzione che non fosse quella bolscevica, liquidare i renitenti e i più pericolosi, controllare un Governo fantoccio e vincere la guerra. Senza però prendere direttamente il potere, per non spaventare il resto del mondo. Ah, ed essendo anche in minoranza. Ma, come disse il viceré del Piccolo Padre, che si diceva fosse come Acciaio, “divide et impera”. Dotato di poteri enormi, l’italico Eracle o giù di lì, aveva messo su una feroce macchina da guerra per liquidare i “banditi”. Taciturno e fanatico, aveva amministrato col pugno di ferro, e senza il guanto di velluto, un terrore spietato alla Robespierre. Eracle il salernitano, aveva fatto allestire carceri private e preparare lunghe liste di proscrizione di “nemici del popolo” che dovevano essere subito catturati e, possibilmente prima ancora, sbrigativamente liquidati col classico colpo alla nuca. L’ultimo feudo anarchico, la centrale telefonica, era stato conquistato di sorpresa dagli Arditi, e ne era seguita una violenta guerriglia urbana, sanguinosamente repressa dopo cinque giorni di scontri accaniti, e conclusasi con una spietata cacci all’uomo. I miliziani uccisi erano stati seicento.
IMPARI LOTTA. Svetlana aveva voluto subito rientrare al reparto. Non era tenuta, era ormai chiaro che le milizie volontarie si sarebbero sciolte, non volevano una guerra intestina. Lei, però, voleva far pesare la sua opinione, e quella di, e quella di Jaime. Lui l’avrebbe raggiunta appena dimesso, se non fosse tornata prima lei. Svetlana aveva faticato a riconoscere il proprio reparto. Il Comandante Frost –questo era il suo nome di battaglia- l’aveva fatto molto prudentemente ritirare sulle colline, ben sapendo che sarebbe stato impossibile resistere in uno scontro aperto, mentre sarebbe stato più agevole contrastare gli attaccanti dall’alto. Si erano trincerati in quello che era stato un grande prato, su un ampio pianoro. Agiva, però, con l’indecisione di chi non sapeva neppure se uno scontro fosse “autorizzato” dal comando. Era rimasto privo di ordini e di superiori. Era noto a tutti, comunque, come il nuovo esercito avesse occupato i grandi nodi stradali e ferroviari, nonché le zone di confine, e come i centri abitati più importanti fossero saldamente nelle sue mani. Le milizie erano disseminate in diversi presidi, senza collegamenti, e con scarsi mezzi meccanizzati. Il novo esercito si era invece concentrato con miglior senso tattico, su posizione chiave, dotato di mezzi meccanizzati e corazzati, in modo da poter intervenire prontamente in qualsiasi direzione, e in ogni circostanza. Al campo non c’era più bisogno di far suonare la sveglia perché tutti si alzassero. Molti si coricavano completamente bardati. E molti non chiudevano occhio. Si radunavano ammucchiati in disordine sugli spiazzi erbosi, sordi agli ordini urlati, che si erano presto arresi all’impotenza, e all’inutilità. C’era molta animazione, si continuava a parlottare, a scambiarsi commenti preoccupati, allargando le braccia e alzando gli occhi al cielo. Anche il Comandante, che si era installato sotto la tenda del posto radio, era stato colto di sorpresa da quel drammatico cambiamento, e non sapeva cosa rispondere agli uomini che lo tempestavano di domande, o tentavano commenti, o avanzavano oscure previsioni. Di punto in bianco, senza ricevere nessuna adeguata disposizione, si era trovato di fronte a una scelta terribilmente dolorosa. “E’ una pazzia!”, continuava a ripetere. Regnavano un’inquietudine e un’incertezza profonde. Era stata solo questione di pochi giorni, e le vedette avevano segnalato una colonna di camion che stavano salendo. Non si riusciva ancora a capire chi fossero, ma non c’erano dubbi in proposito. Per un lungo tratto la strada era tortuosa, una carrabile inadeguata e stretta, che scendeva e saliva per i dossi a fianco della collina. I camion rombavano, ansando e oscillando, ogni volta che prendevano una curva troppo stretta. Dalla cresta della collina erano ottimi bersagli. Se i miliziani avessero avuto qualcosa con cui colpirli a quella distanza. In dotazione avevano dei mortai leggeri da 45 mm., montati su una base con piedi, e dotati di una piattaforma che permetteva all'artigliere di giacere al davanti o dietro al mortaio, oppure di sedervisi sopra. Una leva permetteva l'operazione della breccia e lo sparo dell'arma, mentre le munizioni venivano caricate dall'operatore del caricatore. Buono per l’assalto ravvicinato alle trincee, forse, ma non altro. Artiglieri ben addestrati, si diceva, potevano raggiungere ratei di fuoco fino a 18 colpi per minuto. Ma era soltanto un tasso teorico, in quanto in pochi minuti la canna si danneggiava. Insomma, un’arma complicata, e con una gittata di soli 500 metri, circa. Le mitragliatrici Lewis erano, invece, armi affidabili, ma leggere. Il piccolo calibro, 7,7 mm. presentava il solo vantaggio di usare la stesse munizioni che per il fucile Enfield. Pesava sui quattordici kg., quindi era facile da trasportare. Con raffreddamento a manicotto, e caricatori a padella, la sua linea era stata resa famosa per l’essere l’arma montata sugli aerei da caccia della Prima Guerra Mondiale. Il tiro utile poteva arrivare anche a 2.000 metri, anche se dava il meglio sugli 800, ma il piccolo calibro la rendeva, al momento, inefficace. Non era rimasto che attendere, mentre i motori si facevano sempre più rumorosi, emettendo uno strano gemito ritmico. Restavano tre curve. Dopo l’ultima, la strada diventava più larga, come se i boschi si fossero ritirati per farle spazio. Il cambiamento era visibile dalla terzultima curva, rispetto alla quale la penultima rimaneva nascosta. Contando su questo fattore, il Comandante aveva fatto piazzare, di traverso alla penultima curva, due carri agricoli, di quelli con le stanghe, per essere trainati dai buoi. Il loro carico era nascosto da teloni, a una ruota era appoggiato un asse in legno, probabilmente tolta ad uno dei carri, sulla quale era tracciata con la vernice un’unica parlo: mine. Che poi il monito riguardasse il carico dei carri, o il terreno che al di là dei carri, era lasciato alla libera interpretazione. Il primo camion, che, in vista dell’allargarsi della carreggiata, aveva dato gas, si era trovato di fronte l’improvviso ostacolo. Aveva sterzato il più possibile a sinistra, verso la parete della collina, fermandosi solo quando era finito con due ruote nel canale scavato, nel tempo, dallo scorrere delle acque piovane. Il secondo camion, che pure, alla vista dell’allargarsi della strada, aveva accelerato, era sembrato andare fuori controllo, e doversi andare a schiantare contro il primo. Si era messo invece di traverso, ed era rimasto lì, col motore al minimo, in una nuvola di polvere. Gli autisti dei due camion erano balzati dalle cabine, affannandosi in una folle corsa a far segnali a quelli che seguivano, che si erano così fermati senza problemi. Dai camion avevano iniziato a scendere dei soldati, che si erano subito schierati in formazione. Dal fondo della colonna, probabilmente da un’auto che la chiudeva, erano arrivati tre ufficiali, che avevano dato subito ordine agli uomini di mettersi al riparo, dietro i camion, e, con una buona scorta, si erano incamminati su per la strada. Il Comandante, con tre persone, tra le quali Svetlana, era sceso loro incontro. I due gruppi si erano fermati, da uno si erano fatti avanti un Maggiore, un tenente, e l’ufficiale politico; dall’altro, Frost e Svetlana. Si erano presentati senza alcun saluto. I tre erano il Maggiore Pedro Madero, comandante del 16° battaglione della 16^ B.P.; il Tenente Karl Sitka, il vicecomandante, profugo ceco; e Vladimir Rubnikov, va’ da sé, ufficiale politico. “Che bel posto per incontrarci ...”, aveva esordito il Maggiore. Frost non aveva risposto. Erano seguiti istanti di relativa tensione, durante i quali i due si erano studiati a vicenda. Frost, “V’inviteremmo tutti a pranzo, ma non credo abbiamo a disposizione razioni a sufficienza”. Madero, “Avrei dovuto declinare in ogni caso”, il suo tono si era fatto freddo ... e anche imbarazzato. “Le devo chiedere perché non ha ottemperato agli ordini di deporre le armi o arruolarsi nelle B.P.”. Svetlana, cercando di guadagnar tempo, e sollevando nei tre che stavano di fronte, la quasi certezza che lei fosse l’omologa di Rubnikov, “Gli ordini che abbiamo ricevuto non erano chiari”. Frost aveva integrato, “Dovrebbe farci pervenire un ordine chiaro, che spieghi ciò che si vuole che noi facciamo”. Maggiore Madero, “Le viene ordinato, con effetto immediato, di deporre le armi. Se non saranno cedute, dovremo costringervi a questa cessione. Poi potrete dirci cosa avrete scelto di fare. Lei riceve gli ordini da me, ora, e le preciso ancora, che se gli ordini non saranno eseguiti, lei e gli altri responsabili ne dovrete rendere conto in modo severissimo”. Frost e Svetlana, come tutti gli altri, del resto, erano consapevoli della propria inferiorità numerica, e anche che il prender tempo non avrebbe rovesciato il rapporto di forza esistente. Comunque avevano cercato una via d’uscita meno rischiosa e meno disonorevole. “Siamo disposti a cedere le armi di reparto ... e tutto il resto, salvo quelle di dotazione individuale”. Madero, senza neppure riflettere un attimo: “Dovete consegnare tutte le armi, e vi facciate scortare al punto di concentramento presso la 16^ B.P.”. Aveva detto “punto”, ma a tutti era chiaro che il significato era: “campo”. Svetlana, raffermando la falsa supposizione sul suo ruolo, “Prima di prendere una decisione, dobbiamo sentire i nostri compagni”. Rubnikov, aveva risposto lui sempre equivocando si trattasse della sua omologa, “Non avete consultazioni da fare. Gli ordini non sono interpretabili, né mediabili. E’ inutile tirarla in lungo”. Prima che altri dicessero qualcosa, si era affrettato ad aggiungere, “E lo sapete bene! Tutti lo sappiamo bene”. Svetlana, “Noi siamo disposti a seguirvi, ma questo non significa che siamo disposti a farci ammazzare ... le armi personali ...”. Rubnikov, serafico come un cobra, “Beh, se avete paura ...”. Frost era infuriato, la sua voce era tagliente come un rasoio, un rasoio alla gola di Rubnikov, “Non si permetta di parlare così ... Combattiamo da parecchio tempo prima di lei!”. Madero, “Stavamo solo cercando di offrirvi i vantaggi dei nostri consigli ...”, il figlio del cobra. Svetlana, “E con quale esperienza?! Eppoi cosa ne sapete voi dei nostri compagni? Loro si fidano di noi, e noi teniamo moltissimo a loro. O loro vengono con noi, o noi andiamo con loro. Con le nostre armi individuali”. Maggiore Madero, scuotendo negativamente il capo di fronte a qualcosa che per lui era inspiegabile, e desistendo dall’insistere, “State facendo una pazzia!”. Frost, “Lei non può rispondermi in questo modo. Badi piuttosto a dove lei e i suoi uomini mettete i piedi ... questo è un giardino del diavolo” (soprannome dato ai campi minati). Rubnikov, spazientito, ma, improvvisamente comprensivo: “Va bene, vi concediamo una dilazione ... fino a domattina. Poi ognuno risponderà delle sue azioni”. Svetlana, “Alle nove, qui”. Nessuno aveva obiettato, e i due gruppi erano tornati sui loro passi, senza alcun saluto. Mentre risalivano Frost, senza voltarsi verso di lei, “Questi ci vogliono fottere, stanotte attaccano”. Svetlana, di ghiaccio, “Se hanno fretta di morire”. In effetti, il battaglione che avevano di fronte, avrebbe dovuto attaccare un crinale alto 120-130 metri, con pochi dossi e sparsi alberi, la cui cresta era molto ben difesa. Un ostacolo formidabile. Il Tenente Sitka era rimasto impressionato dall’imponenza dell’altura e delle difese. Non poteva immaginare che quello che avevano di fronte portava ancora il nome di battaglione, come quello di cui lui era il vicecomandante. Il 16° battaglione della 16^ B.P. constava di tre compagnie. Quello che lo fronteggiava non arrivava agli effettivi di una sola compagnia. E le sue armi di reparto erano quelle già dette, mentre ben altre erano quelle del 16° battaglione. I camion che chiudevano la colonna, trasportavano mitragliatrici pesanti Maxim; sei mortai M1927; e, dulcis in fundo, due cannoni da 65 mm.. Era difficile prevedere quanto i miliziani avrebbero potuto resistere contro un attacco massiccio.
Mentre i due gruppi s’incontravano, uomini di entrambe le parti erano strisciati a perlustrare le postazioni avversarie. Gli uomini di Madero avevano scoperto una parete alta una decina di metri, sulla quale speravano ci fosse la possibilità di arrampicarsi, essendo impossibile fosse minata, e, per buona giunta, invisibile dalle posizioni nemiche. Non visibile, ma non ignorata, Frost sapeva che, chi fosse riuscito nell’operazione da arditi alpini, li avrebbe colti sul fianco, perciò aveva dato ordine di piazzare a difesa una squadra con una mitragliatrice, e dei cecchini, armati con Mosin-Nagant, che, con il mirino a cannocchiale PE a quattro ingrandimenti, aveva una gittata teorica di duemila, e a mille, era letale, assai efficiente dal punto di vista della precisione, delle caratteristiche balistiche e della gittata. Cocky, l’uomo che aveva ricevuto l’ordine, aveva obiettato, “Ma così non hanno la possibilità di indietreggiare ... li faranno subito a pezzi”. Frost aveva insistito, “Io direi invece che non ci rimane che compiangere i poveri assalitori, loro sicuramente moriranno”. Mentre il sole scivolava dietro le montagne del versante più lontano della valle, e il tramonto cedeva all’oscurità della notte, stabiliti i turni di guardia, era iniziata la breve tregua che offriva agli uomini e alle donne la possibilità di riprender fiato. Erano decimati, affaticati, stanchi, esausti. Frost era rimasto ancora una volta stupito dalla facilità con cui Svetlana era capace di addormentarsi subito e svegliarsi completamente lucida quando doveva fare il suo turno di guardia. ‘Non ha un sistema nervoso? Certo, deve essere molto stanca. Ma anch’io lo sono. Ho i nervi troppo tesi? E’ l’eccitazione? La paura?’, Frost non era capace di addormentarsi così. Quando la notte era calata, l’ultimo “esploratore” era tornato indietro strisciando, e aveva raggiunto sano e salvo il campo. Quando la flebile luce dell’alba era apparsa all’orizzonte, promettendo una bellissima mattina, gli uomini erano già in postazione, e sentivano salire la tensione. Il 16° battaglione stava avanzando, con tre plotoni, su percorsi diversi, in formazione a freccia, gli uomini distanti tra loro circa cinque metri. Ben presto avevano preso a incespicare. Fanteria che avanzava in formazione, quando il primissimo chiarore dell’alba permetteva all’avversario di vedere cosa aveva davanti. Frost si era ricordato cosa erano stati gli attacchi attraverso la terra di nessuno nelle Fiandre, durante la prima Guerra Mondiale. Il Maggiore era in testa, dove ci si aspettava che fosse, dell’ufficiale politico non c’era traccia. Il Maggiore Madero stava avanzando verso il “nido” di una mitragliatrice, mimetizzato sotto un tendone impermeabile. Tre uomini erano subito caduti, e con grande orrore, si era visto Madero afferrare il soldato che aveva a fianco, e tirarlo per frapporlo tra sé e la mitragliatrice. Il soldato era stecchito prima ancora di cadere a terra. Era un ragazzino. Un fante, passando accanto a un altro, suo amico, l’aveva chiamato per incoraggiarlo. Pochi secondi dopo un proiettile da 45 mm. di un mortaio Brixia, era caduto ai suoi piedi. Lui e un altro fante erano rimasti uccisi. Anche l’amico si era trovato abbastanza vicino da essere buttato a terra dall’esplosione. Si era guardato attorno, confuso, e aveva visto la metà superiore dell’amico giacere non lontano: un ammasso di sangue, viscere e ossa. Il fante aveva pensato, a quella vista, di essere sul punto di crollare, invece aveva scoperto che quello spettacolo orribile l’aveva indurito, ed era tornato all’attacco. Tutto era finito abbastanza in fretta, quando dal pendio il fuoco era cominciato a piovere sui loro fianchi. Un altro fante era caduto ferito, urlando, e i suoi commilitoni non avevano potuto fare altro che ritirarsi. Uno, però, era balzato allo scoperto, correndo verso il ferito. Il fuoco aveva fatto una pausa, mentre quel coraggioso raggiungeva il ferito, che si contorceva dal dolore, e lo portava, sulla schiena, al riparo. Correndo a valle, si erano riparati dietro tutto ciò che sporgeva dal terreno, fino al terrapieno ai piedi della collina. Bastava un manipolo di mitraglieri per falciare la fanteria in avanzata.
MENTRE I PLOTONI RESTAVANO INCHIODATI al riparo dal fuoco nemico, il tenente Sitka aveva usato il tempo in modo intelligente. Aveva osservato da dove veniva il fuoco più intenso. Con suo binocolo aveva esplorato e studiato quella zona particolarmente ripida sul fianco della collina, quella già notata il giorno prima, e deciso che quello era un punto dal quale i miliziani non si sarebbero aspettati un attacco. Aveva deciso –avrebbe dovuto sottoporre il suo piano al maggiore, ma non aveva dubbi sulla sua risposta- di condurre un plotone oltre il dirupo, ad aggirare l’altura. I plotoni di Madero rimanevano, però, ancora ammucchiati disordinatamente dietro ogni riparo. Erano al punto di partenza, col problema di attraversare la strada per portarsi in una nuova posizione. Le raffiche di mitragliatrice continuavano a cadere intorno a loro. Sitka aveva dato l’ordine di piazzare rapidamente mortai e cannoni. I proiettili di mortaio avevano iniziato a esplodere scricchiolando, quelli d’artiglieria urlavano prima di andare a segno. Per comunicare con gli uomini Frost doveva uscire e strisciare sul terreno. A trenta metri di distanza, Cocky stava facendo la stessa cosa, quando il treno espresso di un proiettile di artiglieria era arrivato. Cocky era scomparso, esploso in mille pezzi. Frost era rimasto sconvolto, si conoscevano bene, avevano combattuto insieme fin dai tempi delle Fiandre. Frost si era accucciato di nuovo nella sua buca, senza vergognarsi delle sue lacrime. Chi non era in una buca si era schiacciato al suolo, con le narici piene dell’odore di terra, dell’erba umida, della cordite. Facevano del loro meglio per sfruttare ogni avvallamento del terreno, i buchi scavati dai proiettili, e anche ogni macchia d’era folta. Era una tempesta di proiettili. Anche tappandosi le orecchie con le mani, fischiavano e urlavano, stordivano. Era un misto di ululato di un lupo, un’auto che correva sui cerchioni e il lugubre lamento delle sirene dell’allarme antiaereo. Sembrava che un paio di mani colossali avesse afferrato il crinale sul quale si trovavano, e lo stessero scuotendo come un gigante che setacciasse la farina. Dava l’idea precisa di cosa fosse un terremoto. Oppure, che un gigante si fosse aggrappato ai fianchi della collina, e li stesse scrollando brutalmente. A ogni impatto il suolo tremava, non restava che rimanere accucciati nelle buche o dietro i ripari. Rami e pezzi d’albero, cespugli, arbusti e montagne di terra venivano scagliati in aria. Nessuno sapeva se sarebbe stato colpito, e tutti avevano paura, e per le loro vite, e per quelle dei compagni. Con quel rombo e quel baccano non si riusciva nemmeno a sentire le urla di chi veniva colpito. Sotto quel martellamento non restava che rannicchiarsi, abbracciandosi le gambe e tenendole strette al corpo, con le ginocchia ben unite, i gomiti sulle ginocchia, le mani davanti alla faccia e lo sguardo rivolto a terra. Le bombe a frammentazione s’infilavano nel terreno e scagliavano in aria migliaia di frammenti. La forza dell’impatto faceva sbattere i corpi contro le pareti delle buche con un tonfo. Ci si accorgeva dell’esplosione solo quando la terra si sollevava violentemente attorno, e si andava a sbattere con le spalle sulla parete della buca. Erano piovuti altri proiettili finché, all’improvviso, c’era stata un’immensa esplosione, più forte di tutte le altre. Un proiettile aveva colpito l’avvallamento che era stato adibito a improvvisato deposito di munizioni. Si era fatto un silenzio assordante. Gli uomini erano strisciati fuori dalle buche e avevano visto la devastazione. I corpi erano repellenti da guardare: uno, corpulento, non aveva più la nuca. Non era stata una cosa semplice, per gli uomini di Madero, ma erano riusciti ad allontanarsi strisciando, e stavano procedendo di buona lena a riorganizzare le formazioni. Questa volta l’attacco sarebbe stato lanciato, con la copertura dell’artiglieria, a due punte. Una doveva essere lanciata prima dell’altra. La punta che avrebbe attirato più nemici, distogliendoli dall’altro attacco, sarebbe diventata la forza principale. C’era una terza punta, quella del tenente Sitka, in manovra aggirante. Frost aveva riordinato le postazioni, con appena la metà degli uomini. Anche i feriti non gravissimi avevano voluto tornare il linea. I suoi uomini erano senza eccezionali combattenti molto esperti e di prim’ordine in combattimento. Il Comandante aveva scelto il sostituto di Cocky, Wall, e affidato la postazione sul fianco a Origo. Era dovuto ricorrere a tutta la sua autorità, con urla e minacce, e solo a stento era riuscito a farsi obbedire da Svetlana e le altre donne del gruppo. Dovevano ritirarsi verso una costruzione, probabilmente una vecchia stalla, col tetto completamente crollato, i muri dissestati, ma in grado di offrire ottime feritoie. La ragione vera, però, era che da lì partiva l’unica via di fuga, e tutti sapevano cosa sarebbe accaduto a delle donne che fossero cadute prigioniere. Le più fortunate erano “solo” state brutalmente violentate. Avevano sentito di un certo numero di soldati che avevano fatto entrare tre donne, considerate sostenitrici dei miliziani, in una casa, sbattendo e chiudendo la porta. Dall’interno erano provenute grida terrorizzate, singhiozzi e gemiti. Quando i soldati se ne erano andati, i paesani accorsi avevano trovato una ragazza stesa sul letto, senza vestiti, sanguinante. Una donna, la madre, giaceva a terra, i vestiti strappati, le orecchie sanguinanti: le erano stati strappati gli orecchini. La terza donna, più avanti in età, la nonna, era morta, anche lei costretta a sottostare alla vergogna degli istinti belluini di quegli esseri disumani, animali. Erano saltati addosso alle tre donne, picchiandole, strappando i vestiti, violentandole e sodomizzandole. Si erano messi in cinque o sei su una donna, e, finito quel gruppo, l’avevano passata all’altro. Erano 15 o 16, e avevano agito come diavoli. Era stata l’anticamera dell’inferno, per le due sopravvissute, sanguinanti e infettate. Non si erano curati di nulla, neppure dell’età. Svetlana e le sue compagne erano determinate a combattere sino alla penultima pallottola, riservando l’ultima per se stesse. Si erano allontanate verso la costruzione diroccata, sempre determinate in quella risoluzione. Gli uomini erano rimasti nelle loro buche, o a pancia in giù, sperando, ma non troppo. La fanteria aveva iniziato ad avanzare, col fuoco di copertura, anche delle Maxim, che li precedeva.
VICINO A FROST UN MITRAGLIERE ERA IN STATO DI SHOCK, non sparava. Non appena arrivava il momento di iniziare a sparare ogni organo del corpo passava a un regime più alto. O si bloccava. Il Comandante, ferito al braccio da una scheggia di mortaio vagante, si era buttato accanto a lui, scuotendolo, “Avanti compagno, che cosa aspetti, dagli addosso con la tua Lewis!”. Non era riuscito a fargli usare l’arma. Gli aveva puntato contro la pistola dicendogli, “Comincia a sparare, o sparo a te”. Il mitragliere, terrorizzato, aveva fatto meglio che poteva. I cecchini si erano portati in posizione strisciando con molta attenzione. Wall aveva chiesto a uno di loro se vedeva i serventi delle Maxim o dei mortai, l’artiglieria era fuori tiro. “Ce li ho nel mirino”, gli aveva risposto. “E che cazzo stai aspettando?!”. L’uomo aveva sparato colpendo un servente dritto in testa. Un istante dopo ne vide un altro correre, probabilmente a prender munizioni, e aveva ucciso anche quello. All’improvviso due mitraglieri avevano preso a manovrare una Maxim per puntargliela contro. Il cecchino era stato più veloce. Guardando verso i camion, aveva visto spuntare da sotto stivali, i miliziani avevano solo scarponi. Aveva attirato l’attenzione di due postazioni di mitragliatrici, e subito una pioggia di pallottole era arrivata addosso a quel camion. A quelli che stavano nascosti dietro era rimasta una sola cosa da fare, correre a rompicollo e cercare un altro riparo. Un campione di corsa non avrebbe potuto raggiungerli tanto ci davano dentro. Il cecchino aveva sentito nelle orecchie un ronzio d’api. Quando si era accorto che erano proiettili di mitragliatrici era stato colpito a una gamba, che aveva iniziato a sanguinare dannatamente. Un uomo si era tuffato di fianco a lui, gli aveva tolto la cinta dei pantaloni, usandola come laccio per stringere la coscia, a monte della ferita. Poi aveva iniziato a medicarlo. Era arrivata una staffetta per dare l’allarme: all’improvviso un plotone di soldati era sbucato da dietro l’altura sul loro fianco, diretti proprio contro di loro. Si erano mossi in assoluto silenzio, dopo aver abbandonato tutto ciò che poteva provocare rumore. In silenzio erano avanzati, poi, circa a cinquanta metri dai miliziani, avevano aperto il fuoco. Uno dei miliziani a guardia aveva afferrato una bomba a mano dalla cintura, strappato la linguetta, e lanciata verso di loro, ma non era esplosa. Non avevano possibilità di voltarsi e andarsene. Così avevano caricato i nemici gridando con tutto il fiato che avevano e sparando, giù per il pendio. Il mitragliere teneva la Lewis col calcio poggiato al fianco, tenendola con una mano sul bipiede. Era caduto per primo, giaceva a faccia in giù nell’erba polverosa. Gli altri avevano caricato alla baionetta, per la prima volta in vita loro. E anche per l’ultima: tutti caduti. Anche Origo. Un altro, vicino, giaceva sul fianco sinistro, mentre il fianco destro era sparito. Si era aperta una grossa falla nelle difese. Frost aveva previsto che potesse succedere, se il nemico avesse voluto fare una mossa non frontale, avrebbe dovuto passare sotto la cresta, attraverso una stretta cengia, superando la parete ripidissima. Era un varco geografico, dal quale, se il nemico fosse riuscito a far attraversare, avrebbe potuto tagliare dietro le postazioni. Ma, quando era successo, non aveva più uomini da mandare di rinforzo. Solo Wall, con cinque uomini, per tappare quel buco. Un mitragliere era strisciato vicino a Wall. “Che ci fai qui?!”. “Volevo aiutare”. Era un gesto coraggioso, ma azzardato. All’improvviso soldati nemici erano apparsi sul crinale. Il mitragliere, impaziente, si era tirato su, per posizionarsi più velocemente. Mentre si alzava, un colpo gli aveva fatto volar via metà del cranio. Wall non aveva ripreso ad arretrare. Poi, in un momento di follia, aveva gridato ai suoi uomini di dargli fuoco di copertura, e, quando avesse iniziato lui a sparare, caricassero il nemico attraverso il prato, fino al limitare del bosco, di fronte loro. In seguito avrebbero dovuto strisciare attorno al limitare degli alberi, e prendere sul fianco il nemico. I suoi avevano aperto il fuoco, e lanciato bombe a mano, cogliendo di sorpresa gli attaccanti. Correndo accucciato, Wall aveva raggiunto la mitragliatrice, ed era balzato a chinarsi per prenderla, quando era arrivato un proiettile di mortaio. Era esploso conficcando schegge di shrapnel nello stomaco di Wall. L’avevano visto mentre, con calma, infilava le viscere nello stomaco con entrambe le mani. Prima di cadere all’indietro. Non avevano penicillina, gli intestini si sarebbero infiammati, sarebbe comunque morto. L’aria era piena di polvere finissima. Mentre cercava di far arretrare le linee e dar copertura sul fianco, aveva udito la fanteria in movimento, davanti, o sul lato. Era tipico delle montagne, non si era mai sicuri da dove provenissero i rumori. Aveva dato ordine alle mitragliatrici di aprire il fuoco d’istinto. Erano addestrati a reagire a situazioni d’emergenza in modo del tutto istintivo. Stavano riuscendo a ripiegare strisciando verso il bosco alle loro spalle. Imprecavano come carrettieri quando dovevano appiattirsi al suolo, coi proiettili che fischiavano sulle loro teste. Ma si stavano muovendo, anche se lentamente. Frost, raggiunto il bosco, non si era accorto di un giovane soldato che si stava avvicinando a lui. Evidentemente erano rimasti coperti l’uno alla vista dell’altro dai tronchi, e si erano ritrovati di fronte, divisi da non più di un metro. Si erano guardati fissi, come volessero ricordare per sempre i tratti dei loro volti, e imprimerli indelebilmente nella loro mente. Frost aveva sperato che il ragazzo corresse via, o si gettasse al riparo, invece stava alzando il fucile. Frost aveva già il suo mab18 in posizione, aveva sparato per primo, crivellandolo di colpi. Ne era rimasto molto scosso. Ed era andato a sbattere contro un altro soldato, uno molto più piccolo di lui. Aveva sparato un unico colpo, e il proiettile aveva attraversato da parte a parte la faccia di Frost. Un miliziano aveva colpito il soldato alla testa col calcio del fucile, e, quando era caduto, gli aveva infilato la baionetta nel petto, sparando poi a bruciapelo, per estrarla sfruttando il rinculo dal costato in cui era incastrata. Frost si era sentito riempire la gola di sangue, e gli pareva gli fosse stata asportata parte della faccia. Non provava dolore, non ancora; si sentiva solo stordito. Il sangue schizzava da tutte le parti. Incredibilmente, non aveva perso i sensi. C’era stato un momento di confusione, nessuno dei suoi uomini era parso avere la capacità di reagire in maniera adeguata. Un proiettile atterrò esattamente davanti alla loro ultima postazione. Quando avevano potuto vedere c’erano pezzi di carne appiccicati agli alberi. Un uomo giaceva a terra col petto fatto a pezzi. Non si poteva fare più niente. Era tutto tranquillo, anche se l’aria non era piena dei profumi dei fiori e degli alberi, ma dell’odore di cordite, del fumo, e della puzza dei cadaveri che avevano già cominciato a decomporsi a causa del caldo. Frost era stravolto, lo erano tutti. Gli uomini, sporchi e con la barba lunga, si erano stretti intorno a lui, sconfortati. Il Comandante aveva guardato disperato le facce dei suoi uomini, in tutti c’era il più profondo abbattimento. Frost aveva fatto girare un pacchetto di sigarette. Sapeva che in momenti così quei piccoli bastoncini di luce potevano fare miracoli. Poi l’orribile verità: era finita. Fu un colpo devastante. I suoi uomini erano scioccati non meno di lui, mentre, col cuore pesante, mettevano fuori uso le proprie armi. I soldati delle B.P. erano a venti metri di distanza, e avevano smesso di sparare. Erano stati circondati. Il maggiore Madero aveva chiamato il medico del reparto perché si occupasse della ferita di Frost. Il Comandante aveva potuto guardarsi allo specchio, e aveva visto lo stato spaventoso in cui era ridotta la sua faccia. Aveva la testa gonfia in modo grottesco, e c’era sangue ovunque. Aveva faticato a riconoscersi. Vladimir Rubnikov si era avvicinato, “Comandante, non vedo donne né tra i superstiti, né tra i caduti ... spero vorrà dirmi dove sono appostate. Per i miei uomini è questione di vita o di morte ... quindi capirà che sacrificherò qualcuno dei suoi, se non vorrà darci le esatte indicazioni. Qualcuno gli aveva gridato, “Questi bastardi li conosco bene, ci fucileranno tutti quanti comunque!”. Nessuno aveva più parlato. Era inutile. Il mattino seguente erano stati caricati su dei camion e portati in una località con profondo fossato. A gruppi di tre, uno dopo l’altro, erano stati condotti sul ciglio del fossato e fatti schierare in linea. Dai camion di scorta erano scesi tre plotoni di sei uomini l’uno. Ogni plotone uccideva tre uomini con una scarica. Due esecutori per ogni uomo. Uno sparava alla schiena, l’altro alla testa. Ogni ucciso riceveva, inoltre, un inutile colpo alla tempia. Non era un colpo di grazia, era uno scempio. Se l’erano presa comoda, procedendo molto lentamente, credendo di incutere terrore, aspettandosi che qualcuno si buttasse in ginocchio a implorare pietà. Il Comandante era stato lasciato per ultimo, dopo quattro ore: sei uomini tutti per lui. Le ultime parole che aveva udito erano state un ghigno osceno di Vladimir Rubnikov: ”Le Troveremo comunque. Prima ce le facciamo a turno, poi le impaliamo. Ora crepa!”. Finito il macello avevano iniziato a ricoprire di terra quello scempio. La notizia del massacro si era subito diffusa. Per orgoglio e monito da parte delle B.P., i cui ufficiali politici ne avevano fatto un esempio di eroismo rivoluzionario. Tra i miliziani aveva resa tetragona la determinazione a non mollare. Il loro motto era “non passeranno”, invece erano passati. Non i monarchici reazionari, gli ex-compagni rivoluzionari. Jaime aveva sentito il suo cuore colpito a morte, con ognuna delle tre scariche che avevano assassinato i suoi compagni. Una per loro, una per il tradimento, e, va’ da sé, una per Svetlana.
Quando era stato dimesso dall’ospedale non aveva più dove andare al fronte. Gli avevano dato un’uniforme delle Guardie, e, grazie alle sue competenze e abilità, l’avevano destinato al gruppo di tecnici che controllavano la centrale telefonica. Indossando quegli abiti che sentiva bruciargli addosso per l’ira e per la vergogna, la vergogna di essersi, solo lui, salvato del suo reparto, aveva ripreso le poche care cose che Svetla gli aveva portato dal campo. Il fazzolettone rosso di Svetla, che lei diceva, un po’ scherzando un po’ no, essere il suo velo da sposa. Il tascapane, lo zaino. Il contenuto del tascapane, che sapeva essere la sua Colt e gli effetti personali, gli aveva riservato una sorpresa sconcertante, che, al momento, era rimasta per lui un mistero inesplicabile. Il documento di identità contenuto nel suo portafoglio, portava sì la sua foto, ma una di quelle che Svetla le aveva voluto scattare, con tanta insistenza, in ospedale, vincendo la sua renitenza: era dimagrito di almeno quindici chili, aveva baffi, barba e capelli lunghi, incolti. Soprattutto, il nome non era il suo. Stava scritto: Josip Kotnik, montenegrino. Quando gli Arditi avevano occupato la centrale telefonica, che sempre, dall'inizio della guerra civile, era stata gestita dagli operai stessi, con l’ordine di disarmare e arrestare i miliziani e i tecnici, Jaime aveva anche capito il perché del falso documento donatogli da Svetlana. Lei sapeva. Sapeva cosa sarebbe accaduto, e aveva voluto salvargli la vita, non pensando però salvare la propria. Invece di sentirsi sollevato, il suo cuore era stato afferrato da una morsa che l’aveva costretto a piegarsi su se stesso, trattenendo il respiro, e stringendosi le braccia al petto. Pensava che Svetlana, la sua Sveta, gli avesse fatto un torto. Invece che insieme per sempre, aveva deciso ... l’aveva deciso anche per lei, a sua insaputa, che lui, Jaime, doveva avere la possibilità di salvarsi. Si era accosciato, piegato in due, con un lamento continuo, profondo, disperato. Non si era neppure reso conto che alcuni compagni, impressionati dal suo stato, si erano avvicinati per soccorrerlo, pensando a un malore, se non a un infarto. Dalle lacrime che scendevano senza freni, e senza ritegno, avevano capito. Il giorno dopo si era presentato a rapporto per consegnare le armi, e chiedere di essere portato al confine.
UN PROCESSO … KAFKIANO. Jaime era scattato sull’attenti, aveva declinato nome cognome e reparto, dicendo che si era presentato per chiedere il congedo. Il cancelliere aveva frugato a lungo tra le carte, poi aveva ricontrollato, e, con imbarazzo e timore aveva riferito al capo che quel nome non risultava. “Se permettete …”, si era intromesso Jaime, avvicinandosi alla cattedra del cancelliere senza aspettare l’approvazione, e porgendo i suoi documenti. Il cancelliere li aveva guardati e riguardati, voltandoli e rivoltandoli, come se vedesse per la prima volta una carta d’identità, o altro documento di quel genere. Era mancato solo che li annusasse e mordesse –come si usava fare per le monete di metallo prezioso- e, tenendoli come potessero essere infetti, aveva concluso, non senza aver prima cercato con lo sguardo il nulla osta del capo: “Sì … vedo … in effetti corrisponde … nome, foto … Ma … come è possibile che tu abbia il tuo passaporto …?”, aveva ruotato anche il corpo, sulla sedia, per pararsi di fronte all’imputato, “A tutti è stato ritirato … come qualsiasi altro documento, e foto … ogni cosa che potesse rivelare la provenienza … per motivi di segretezza …!”. Jaime con aria desolata, : “Ritirato … ma a qualcuno restituito, anche se creando mille difficoltà …”. Il cancelliere era scattato in piedi: “NO, NO, NO! Come ce l’hai? Stai tentando di imbrogliarci forse !?”. Jaime deciso: “No … assolutamente no … Io … cioè noi … ecco, il mio reparto … abbiamo sfondato, su a nord, però non sono arrivate altre unità e siamo rimasti circondati. Abbiamo cercato di rientrare nelle nostre linee … ma è stato quasi un suicidio … l’ultima cosa che ricordo è che abbiamo trovato una riservetta con un paio di camion di munizioni, li abbiamo fatti saltare, e abbiamo creato tanto caos che ce l’abbiamo fatta. Io, però, sono stato quello che è rimasto a far detonare l’innesco, un’esplosione che non pensavo … mi ha investito … e mi sono ritrovato in ospedale … Quando mi hanno dimesso, sono stato riassegnato mi hanno consegnato i miei … effetti personali, e c’era questo passaporto”. L’altro aiutante: “Ah, sì, ho sentito di quell’operazione su a nord … bella azione!”. Aveva fissato il capo, poi il cancelliere. E si era pentito di aver parlato. “Comunque non spiega il passaporto … che, tra l’altro, a noi non risulta”. Jaime: “Non so di che parli … ti pare che provochi un’esplosione che di danni ne ha fatti … e tanti .. e anche al nemico … e si ritrovi mezzo morto in ospedale, qui, e gli diano un passaporto che non è il suo? … Ti sembra sensato?”. Questa volta era stato il capo direttamente a intervenire: “Dicci il nome del reparto … del comandante … di qualcuno dei tuoi compagni …”. Jaime l’aveva guardato desolato, avvilito: “Il fatto è … che lo shock per l’esplosione … l’essere quasi morto … e … insomma tutto … mi hanno fatto perdere la memoria … guarda …”. Si era tolto la bisaccia che teneva a tracolla, “ho qui il certificato che lo dice … può essere che torni … ma anche no … All’ospedale … non so come … sapevano la mia identità … Ecco ora lo prendo e te lo mostro ..”. E aveva appoggiato la bisaccia sul tavolo per prenderne il certificato. Toccando la superficie del tavolo, dalla bisaccia era venuto un tonfo abbastanza forte. “E cos’hai lì!?”. Il tono del cancelliere era intimidatorio, e anche intimidito. Jaime, come ricordando solo in quel momento, un po’ sorpreso, cosa vi teneva, aveva estratto il foglio, poi una pistola: la sua Colt .45 automatica M1911A1. I tre erano sussultati. Sbalorditi più ancora che allarmati. Anche allarmati, come già lo erano, del resto. Ora più sbalorditi, oltre che allarmati. Jaime aveva impugnato l’arma con un gesto delicato, rispettoso: “Ah, questa era di mio papà … l’ha avuta da un ufficiale americano nella Grande Guerra … uno che guidava ambulanze … o forse era un giornalista, o uno scrittore … chi se lo ricorda? Non la lascio mai … anche quella notte, quella dell’esplosione, quando mi hanno trovato l’avevo in pugno … non sono riusciti a togliermela … e di sicuro c’erano otto nemici morti con in corpo un proiettile calibro .45”. Dell’ultimo, finito con la vanghetta, o non si ricordava, o aveva preferito non parlare. Se ne era sempre, anche poi, vergognato. Nonostante fosse stato l’unico modo per salvarsi la vita, non avendo più altra arma che quella, aveva continuato a considerarlo un modo crudele anche per sopprimere un animale. Un altro uomo, poi … aveva capito quanto la guerra, e forse una guerra civile più ancora, possa abbrutire gli uomini, spegnere in loro ogni barlume di pietà, e aveva anche capito che in non poche situazioni la pietà era un dono prezioso ma di molto caro prezzo: permettersela arrivava a costare quanto la propria vita. Pagamento cash. Pur rendendosi conto di questa realtà, non gli era mai riuscito ad accettarla. L’aveva subita, come una violenza, anche se gli aveva evitato una violenza mortale. Accettata, mai. Neppure giustificata. Legittima forse. Ma non tutto ciò che è legittimo è giusto, e questa è una delle verità innanzi alle quali l’uomo dovrebbe arrestarsi a riconoscere il proprio limite, a vacillare nell’osservare come la legge dell’uomo sia ad un tempo tanto più dura meschina gretta e accanita, quanto quella di Dio è potente, pervasiva e misericordiosa. Tra giustizia e legge vasto e periglioso era il mare. Jaime osava appena bagnarvisi i piedi quando era costretto senza altro scampo da cause di forza massima, più che maggiore. Era stata, questa, la volta del capo di pensare alla cosa più stupida: “Come … ?”. Jaime, sempre come avesse in mano una preziosa porcellana, e con tutta naturalezza e semplicità, aveva liberato ed estratto il caricatore, e fatto scorrere indietro il carrello per espellere un proiettile: “Ecco, questo è il caricatore, sette colpi”, l’aveva inserito, “però otto vanno meglio”, aveva messo un proiettile in canna, tolto il caricatore, inserito il proiettile mancante preso dalla bisaccia, e rimesso il caricatore, “Ecco, così è pronta … bisogna trattarla bene … tocchi il grilletto e spara … a volte se non la tratti bene … spara da sola … scatta il percussore … e con un proiettile già in canna …”. Aveva guardato i tre che erano pietrificati, chi con gli occhi sbarrati, chi con la bocca spalancata a mezzo, chi con una smorfia di terrore che gli deformava il viso. Aveva continuato: “Eh, il fucile l’ho consegnato … ma lei no … lei mi lascerà solo quando sarò morto … e potete strare sicuri che prima di me, ne stende otto …”. Aveva concluso con un largo sorriso di soddisfazione e compiacimento, come uno studente che avesse appena eseguito un qualche esperimento di fisica ad un esame, spiegandone cause ed effetti alla commissione, e ora stesse godendosi la certezza di aver superato l’esame con massimo dei voti. I due assistenti si erano avvicinati al capo, stavano discutendo animatamente, ma non era sembrato ci fosse dissenso tra loro.
Infine i due erano tornati al loro posto, il cancelliere seduto a redigere il verbale, l’altro in piedi sull’attenti. Jaime aveva pensato dovesse mettersi anche lui sull’attenti, e l’aveva fatto, con la Colt in mano. Il capo, anche lui in piedi, le mani dietro la schiena, con molta enfasi, “ Congratulazioni per degli atti di ardimento compiuti nel tuo precedente reparto, qualunque fosse. Direi di lasciar perdere questo … spiacevole equivoco del passaporto. In ogni caso il nuovo Esercito ha bisogno di ufficiali con provata esperienza militare. Esperienza in battaglia … di iniziativa, e di coraggio. Ti chiediamo di ripensare alla tua richiesta e di ritirarla. Sono autorizzato a offrirti”, aveva storto la bocca a quella parola, che per lui doveva essere un’oscenità, “il grado di maggiore e il comando di un battaglione”. Jaime aveva rifiutato, sdegnato: “Ero venuto qui per combattere una dittatura, non per fare carriera militare”. Il capo non si era scomposto più di tanto, “Compagno cancelliere, prepari intesti un foglio di congedo e me lo faccia firmare … anche se lo ritengo contrario alle leggi vigenti. Gli ordini sono ordini!”. Jaime aveva fatto ripreso le sue cose, infilandosi la Colt nella cintura, sul davanti, e, ritirato il congedo , si era diretto alla porta, si era girato, facendo di nuovo il saluto, ed era uscito, nella polvere secca e fastidiosa del cortile. Aveva sentito la porta aprirsi dietro di lui, e il cancelliere chiamarlo: “Aspetti la … scorto fuori, non si sa mai …”. Jaime non si era neppure voltato, rallentando però il passo. Aveva sentito la canna di un revolver che si poggiava sulla sua nuca. Era quello che si aspettava. Con una sola mossa si era girato, scostando col proprio braccio quello armato del cancelliere. Questi era riuscito a sparare, al vuoto, e comunque il suo revolver aveva fatto cilecca. Si era ritrovato con la Colt puntata alla fronte, il cane alzato. “Anche di questo siete capaci!”. Era rimasto un attimo indeciso: se avesse sparato, sarebbe stato condannato a morte. Ma anche se non lo avesse fatto. Aveva tirato il grilletto. Tornato sui suoi passi, era rientrato nell’aula, dove gli altri due erano rimasti a guardarsi terrorizzati, invece di mettere mano alle armi. Altri due colpi. Invece che dalla porta era uscito dalla finestra, mentre sentiva gridare all’allarme. Mentre tutti correvano verso la porta dell’aula, con calma e indifferenza se ne ara andato dall’ingresso principale, senza incontrare anima viva. “Per te Svetla, amore mio”. Aveva passato la notte tra le rovine di una chiesa, ed era riuscito a passare il confine. I monarchici avevano lanciato la grande offensiva, e i bolscevichi erano impegnati a salvarsi la pelle, non certo a cercare di avere la sua. Anche grazie alla diligente inefficienza della polizia di frontiera, dall’altra parte della frontiera. Ironia della sorte, era ricercato anche nel suo Paese, che aveva dato largo appoggio militare ai nazionalisti. E si era incamminato verso il suo destino, su una terra dura come il ferro.
NIKOLETT PÒSÀN AVEVA UN SOGNO. Come molti. Non ancora nel cassetto, come tanti. Non si era mai montata la testa. Non si era mai fatta illusioni. La sua era una premonizione: era nata per recitare. Non in film, non in TV. Non ambiva ai riflettori e ai flash per stelline o maggiorate. Niente effetti speciali o digitali, niente doppiatori, niente ciack. A teatro. Vivo e diretto. A contatto, in sintonia, in empatia. Tra spettatori e attori. Rischiando fischi e lancio d’ortaggi. Come una partita allo stadio. Non registrata, non differita, niente moviola, né angolazioni diverse, né zoom, né rallentatore, né replay. Di più e meglio, non in diretta, ma dal vivo. Doveva esser sempre buona la prima. Impossibile rifare, quasi impossibile correggere un minimo errore. Alla fine l’esito, inappellabile, definitivo, senza appello. Ogni volta diversa. Questo sì era recitare. Questo sì era spettacolo. Non era, per Nikolett Pòsàn, una vocazione, ma una predestinazione. Sapeva, o, almeno, era fermamente convinta che ci fosse un solo attore-regista, un mostro sacro, che avrebbe riconosciuto questa sua predestinazione: Il Maestro. E solo al giudizio di questi si sarebbe rimessa, ed eventualmente, ma per lei ipotesi impossibile quanto assurda, rassegnata. E il maestro era il critico-anticritico di drama.net, Heinrich Schiller. Era un recensore e censore feroce dei critici di professione. “I critici pedanti — dice il De Sanctis — si contentano d'una semplice esposizione e si ostinano sulle frasi, sui concetti, sulle allegorie, su questo e su quel particolare come uccelli di rapina su un cadavere . . . Essi si accostano a una poesia con idee preconcette: chi di essi pensa ad Aristotele e chi a Hegel. Prima di contemplare il mondo poetico l'hanno giudicato: gl'impongono le loro leggi in luogo di studiar quelle che il poeta gli ha date. .... Critica perfetta è quella in cui i diversi momenti (per i quali è passata l'anima del poeta) si conciliano in una sintesi di armonia. Il critico deve presentare il mondo poetico rifatto ed illuminato da lui con piena coscienza, di modo che la scienza vi presti, sì, la sua forma dottrinale, ma sia però come l'occhio che vede gli oggetti senza però vedere se stesso. La scienza, come scienza, è, forse, filosofia, ma non è critica”, “... e su questo terreno, traballante a ogni passo, dobbiamo fare il meglio che possiamo per vivere degnamente, da uomini, pensando, operando, coltivando gli affetti gentili; e tenerci sempre pronti alle rinunzie senza per esse disanimarci”. Questa era, più o meno, la filosofia del maestro. Ora che aveva, lì e in quel momento, un’occasione, una possibilità impensata, neppure mai sognata, anche solo ipotetica per ora, solo balenata, di rivolgersi a qualcuno che sicuramente conosceva, anzi era in contatto col maestro, doveva trovare il giusto approccio, la giusta via d’accesso [Per chi non avesse colto il nesso: rileggasi il biglietto da visita di Juan Tenorio etc. etc.]. Nonostante la sua premonizione, Nikolett Pòsàn non era mai stata a guardare. Doveva lavorare e aveva lavorato. Il disagio delle ristrettezze, le situazioni di difficoltà, i mezzi non sempre all’altezza. Le emergenze sempre più vive e complicate. In quella terra dura e riarsa, solo immigrati disperati si spaccavano la schiena a raccogliere frutti o ortaggi, come, un tempo, gli schiavi, il cotone. Chi conosceva “sua bisogna / e ciò ch’ad essa è buono”, non stava a bambocciarsi scioccamente a casa, o a perditempare inutilmente nello struscio. Non raro era l’arrabattarsi a stanare un qualsiasi lavoro. Tanti lavori precari, a termine. Uno di seguito all’altro. Pronta ad adeguarsi alle situazioni e agli spostamenti. Senza continuità, senza stabilità. Poco salario, retribuita in modo inadeguato e inferiore alla capacità ed al merito. Tanto orario, sempre in disponibilità. Flessibile come un giunco. Resistente come una quercia. Tenace come un’edera. Senza perdere fiducia né entusiasmo. Resistendo alle delusioni. Tollerando urti e fastidi. Senza mai storcere il naso. Sempre con dignità. Sempre con diligenza. Senza molestie, che la sua faccia da guerra aveva preventivamente stoppato. Non era la sola, avreste potuto notare, e lo potreste ancora. Quasi in controtendenza, e senza anche il quasi, al resto del Paese, questi lavoratori silenziosi erano una realtà oltre il mondo come volontà e rappresentazione, la sofferenza che a fatica faceva capolino oltre il format nel quale la ingabbiavano la televisione, il cattivo sindacalismo, l’aziendalismo miope. Sindacalismo ed aziendalismo accomunati dalla stessa malattia infantile, il conservatorismo spinto fino al delirio di restaurazione. Un popolo senza convinzione collettiva, ma con una somma di individuali disperazioni, ansie, patimenti. Un popolo neanche postideologico, aideologico, residuale, dimenticato. Meglio, o peggio, non considerato, inopportuno, restasse nel limbo del nero, del grigio, della giungla d’asfalto dei nuovi lavori. Non solo i giovani. C’era la signora di mezza età con i capelli neri curati il più possibile, forse single suo malgrado, che sperava sempre che andasse bene. Il ragazzo, nemmeno quarant’anni, franco: “dobbiamo tutti lavorare, a partire da me, che pure sono single, non ho famiglia, e un quinto di invalidità. La cinquantenne truccata con molta attenzione, un’attenzione per sé che commuove, che scende rapidissima da’autobus, alla velocità della luce. Sempre in ritardo e di corsa, corsa di mamma che ha lasciato il pranzo ai figli, prima d’iniziare il suo part-time pomeridiano. Anche lei sperava che vada bene. Non sono scelte ideologiche o politiche, semmai biopolitiche, nel senso che qui emergono e s’impongono le vite, i corpi, il tentativo di conquistare o salvaguardare un reddito anche se di pura sopravvivenza, la logica dell’autoconservazione. Più che proletariato, unterproletariats, per usare un termine maxiano; marziano per loro, che di Marx e marxismo avevano sentito parlare come di Nostradamus o Rasputin. Non era un’affermazione o reclamo di un diritto, anzi, c’era moltissima esitazione, prudenza, circospezione. Non c’era politica, non c’era lotta di classe, solo l’impegno e lo sforzo di continuare a conservare il lavoro, un reddito. Speravano che andasse bene, vale a dire che continuasse ad avere il lavoro, domani. Un domani alla volta. La vita di Nikolett Pòsàn era corsa così su un binario unico: riuscire a diventare attrice teatrale, e riuscire a mantenersi fino a quel momento. Ancor prima di terminare gli studi aveva presto iniziato a trovarsi lavoretti. Tutto quello che le era capitato di trovare che si conciliasse con un non diminuito impegno nello studio. Se ne era fatta un punto d’onore. Non che ce ne fosse assoluto bisogno. Anche dopo la morte del padre, non si erano trovate in imbarazzo. Aveva lasciato loro una sicurezza economica sufficiente. Non c’era stato da largheggiare, ma neppure da tirare la cinghia. A molti era parso più un capriccio, una posa, che una necessità vera. Sua madre, forse, avrebbe potuto fare una considerazione più fondata. Dopo i primi, inutili, tentativi di dissuaderla, si era rassegnata ed aveva desistito. Aveva tollerato, senza più obiezioni, e non aveva più tentato di non accettare le somme che Nikolett le consegnava, la quasi totalità dei suoi guadagni. Non volendo comunque profittare di quel denaro, che aveva continuato a ritenere spettasse solo a chi se l’era sudato, dopo alcune esitazioni, era giunta a quella che aveva creduto la soluzione del problema: versare le somme su un conto di risparmio intestato a figlia stessa. Nikolett Pòsàn non se ne era ancora resa conto, e la madre era tornata a sentirsi inquieta ogni volta che, andando a versare i denari su quel conto, aveva pensato a come dirglielo. Ogni volta che si era prefigurata il giorno in cui non avrebbe più potuto tenere per sé la cosa, si era lambiccata su come indorare la pillola, rendere più soft la comunicazione. Aveva di volta in volta immaginato una diversa occasione: la laurea, poi l’ammissione alla scuola di recitazione, poi il debutto, poi il fidanzamento e col fidanzamento eran subito balzati fuori come folletti a molla dalla scatola il corredo il matrimonio il primo nipotino. Perché, ogni volta che un’occasione si stava avvicinando, subito la sua mentre la trovava inappropriata, non a tempo debito, e subito la soccorreva un pretesto per un rinvio. Fino a che si era resa conto, con non poca costernazione, che, se avesse proceduto di quel passo, sarebbe arrivata all’assurdo di lasciargliene comunicazione nel testamento. Le era parso proprio insensato trattare come un proprio bene che lasciasse in eredità, quello che invece era sempre stato di Nikolett Pòsàn, frutto del suo lavoro, e che lei, la mamma, si era risoluta ad accettare solo nel suo significato affettivo, non certo nel suo valore economico. Non meno importante, nella decisione della madre ad arrendersi alla volontà della figlia, era stato l’aver compreso come lei avesse voluto convincersi che con la morte del padre si fossero venute a trovare in gravi difficoltà economiche. Una convinzione determinata sicuramente dal grande amore e dalla grande considerazione che Nikolett Pòsàn aveva sempre avuto per papà. Lui era sempre stato la testata d’angolo della famiglia, la pietra portante, la presenza che dava e trasmetteva sicurezza, solidità, serenità. L’elaborazione del lutto, per lei aveva assunto quest’aspetto: la convinzione di aver preso anche se in una minima e infinitesima parte il posto del padre. Non erano le entrate a essere venute meno, ma la presenza del padre. Il suo esserne latore diretto. Così Nikolett Pòsàn, riattivando un flusso minimo di entrate di cui lei era la latrice diretta, si era costruita questa consolante illusione che, finché quel flusso, che era subentrato a quello del padre, fosse rimasto vivo, altrettanto viva sarebbe rimasta la presenza del papà.
Nikolett Pòsàn sapeva che arrivare al maestro era impresa aspra e dura. I suoi esordi, quando “c’era lui, caro lei”, mai rinnegati, lo facevano rimanere rinchiuso in una torre d’avorio. Aveva iniziato ad arrovellarsi su come, dove, quando le sarebbe stato possibile prendere Juan Tenorio Rodriguez de Urtago in disparte. Più si sforzava e si affannava per trovar il bandolo di quella matassa, più questo le sfuggiva, e la lasciava disorientata e persa nel dedaleo labirinto. Una possibilità avrebbe potuto presentarlesi, mentre era in servizio, durante il turno di notte, quando sarebbe stata sola, o quasi, in servizio alla reception, con la hall deserta. O, con clienti in tutt’altre faccende affaccendati, presi dall’una o dall’altra, e ignari di tutto quanto sarebbe accaduto loro all’intorno. Aveva subito meditato su come farsi assegnare a quell’orario con più frequenza di quanto non comportasse la normale turnazione, ma aveva considerato anche come non le paresse proprio che Nikolett Pòsàn si ritirasse ad ore tarde, anzi … In altri orari, però, c’era sempre folla intorno a cui prestare attenzione, o, comunque, in grado di vedere e sentire. La seconda scelta era stata un po’ macchinosa: saltare a più pari l’addetto di servizio, quando Juan Tenorio Rodriguez de Urtago avesse chiesto di portargli l’auto, dalla rimessa al marciapiede, innanzi all’Hotel, e attender lei alla bisogna. Il tempo di consegna delle chiavi, e dei soliti salamelecchi sarebbe stato sufficiente per infilarvi anche una richiesta d’udienza privata. Oppure avrebbe potuto lasciare sul sedile del guidatore un biglietto con identico fine. Sarebbe stata un’iniziativa inconsueta e anche sospetta … Il badge magnetico della camera da ritirare alla reception … Ovvio! Un bigliettino insieme al badge. Romantica … ma anche troppo sfacciata e rischiosa. Eppoi, cosa avrebbe potuto vergare su un bigliettino necessariamente ridotto ai minimi termini? Il suo nome e numero di cellulare … Troppo poco, poteva anche esser scambiato per una ragazzata, financo per una burla. Peggio, avrebbe corso il rischio che a lei pareva maggiore, quello che voleva assolutissimamente evitare: l’equivoco, l’ambiguità. Era pronta ad affondare sacrifici, anche umiliazioni, fosse stato necessario, ma non certo a sottoporsi a procedure di selezione improprie. Aveva fin troppo chiaro quanto il concedersi fosse, forse, la via meno faticosa, ma anche scivolosa … e si prestava, poi, molto bene, alla beffa di facili promesse non mantenute. Quando, tra amiche strette, parlavano dei propri progetti, delle proprie aspirazioni, Nikolett Pòsàn concentrava in due titoli d’opere letterarie l’infausto destino di chi avesse pensato di farsi largo e salir molti gradini con un medico che giudicava peggiore e più esecrabile di quella di una prostituta: sedotta ed abbandonata, umiliata e offesa. Provava tristezza ed anche pietà per quelle povere stolte che s’avventuravano ad improvvisarsi seduttrici in carriera. In ogni caso, al momento non sapeva proprio come districarsi. Ricorrere alla complicità di qualche collega era escluso. Tutti erano a conoscenza del suo “sogno”, che i più avevano considerato un’ambizione, altri un’illusione, altri ancora un chiodo fisso. Sorrisi beffardi e occhiatine sottecchi spiacevoli e sgradite erano la regola. Sì, forse … anzi probabilmente … il maitre, che le aveva sempre dimostrato considerazione ed attenzione … ma non vedeva proprio come potesse esserle di aiuto. Nikolett Pòsàn, che non era persona egoista fino a quel punto, pensava che Cesare Mammì, il gran buon maitre, n’avesse già in abbondanza del suo … a che caricarlo d’altro fardello? Spes ultima dea: l’incontro casuale, prima di prender servizio o appena dismessolo. Ma quante erano le probabilità che ciò si verificasse? Di una pochezza scoraggiante. Avrete certamente notato come Nikolett Pòsàn non fosse minimamente turbata dal pensiero di poter avvicinare Juan Tenorio Rodriguez de Urtago, anche in uno dei momenti, rari peraltro, qualche cena, nei quali si accompagnava a quella strepitosa atomica che rispondeva la nome di Anabel Blanco. Intendeva rivolgersi direttamente a lui, e senza orecchie o sguardi che non dovevano esserci, ma di certo Anabel Blanco conosceva gli inconvenienti e gli imprevisti della professione di … dell’amante, era probabilmente abituata a quegli approcci. Ad Anabel, lei nulla aveva da nascondere, e da lei nulla temeva. Voleva solo esser fuori della portata di colleghi o, peggio, di clienti impiccioni, o, peggio ancora, di suoi superiori. L’ora stava fuggendo sempre più rapida, e il restringersi del tempo aveva assunto, per Nikolett Pòsàn, l’aspetto del rendersi più angusta e impervia la via. Tutto s’avvolgeva su se stesso, in spirali sempre più strette. Soffocanti spire dalle quali diveniva impossibile sciogliersi. Juan Tenorio Rodriguez de Urtago era come una cittadella cinta da mura sempre più alte e possenti, nelle quali non si vedeva né ponte levatoio, né cruna dell’ago. Eppure l’occasione era unica. Altre così non si sarebbero mai più presentate. Anche l’ipotesi dei favori sessuali non era poi più così tassativamente esclusa e rigettata. Il tarlo di quella resa senza condizioni aveva iniziato a farsi strada nella sua mente. Si era autoconvinta sempre più che lui l’avesse notata. Non c’erano stati ammiccamenti o avance. Piuttosto un prolungarsi d’un attimo dello sguardo, il trattenere un istante la mano alla consegna del badge o altro. Se fosse però stata solo una sua sensazione, o, l’essersi tali circostanze verificate per sua iniziativa, senza alcuna percezione o partecipazione da parte di lui, questo non le era dato sapere. C’era, era vero, l’illuminarsi del suo sguardo spento, il distendersi del suo volto sempre in tensione e triste, che pareva, per un istante, tornar sereno, risalendo da un buio profondo, nero e cieco. L’aveva sempre sorpresa, e suscitato in lei un accordo naturale, percependo la tristezza che solo un gran dolore poteva aver fatto nascere, in qualche modo ed in qualche tempo che non erano stati i suoi, di Nikolett, ma erano stati comunque molto simili. Sapeva esserci sofferenze e afflizioni così profondamente radicate nell’anima, così intense, per sopravvivere alle quali non esisteva altro alleviamento che farle precipitare nel più profondo, là dove l’intelletto coscientemente non osa volare, ed un macigno preclude ogni varco. Ci s’illude. Sapeva, lei, che non avrebbe potuto capire, così come non le riusciva a dar nome né sostanza al sentimento che Juan le ispirava. Era così andato montando in lei un misto d’intrigo, di coinvolgimento, d’empatia che urgevano trovar un modo d’approcciarsi a lui con dolcezza, con confidenza, attratta ormai non solo e tanto dall’uomo dei media, ma dall’uomo e basta. Si sentiva disposta a tutto, ormai. Più il suo interesse era stimolato, più sentiva il capriccio farsi desiderio, e il desiderio farsi bisogno, e il bisogno farsi passione, anche se momentanea. Che fosse solo momentanea, non lo percepiva. Questo profondo turbamento la scoteva e agitava nell’anima e nel corpo. Impellente, esigente, logorante, struggente. Se già un semplice e casuale scambio di parole pareva fatica superiore a quelle d’Ercole, un tête à tête pareva inverosimile, senza possibilità di verificarsi, anche a voler ricorrere ad atto di forza o a ulisside impresa. Avrebbe potuto arrendersi, ancora dignitosamente, a valersi dei buoni uffici di Cesare Mammì, il maitre che era il vero timoniere del Grand’Hotel. Di lui avrebbe potuto fidarsi, lui avrebbe capito, lui avrebbe mantenuto il segreto. Più andava soppesando quest’ultima soluzione, cui già ostava il non voler caricare sul buon Cesare ulteriori incombenze, che già gli abbondavan di suo, più le rimaneva indigesto il mostrarsi così sprovveduta, insicura, impacciata da non saper perorare da se stessa la propria causa. Quella sera le toccava il turno di notte, e avrebbe potuto trattenere Cesare, che fosse smontato dopo il suo arrivo. Aveva trovato vuota la casella della camera. Sapeva che la signora Anabel Blanco era ripartita la mattina, e aveva anche fatto un pensierino sull’intercettare Juan quando si fosse presentato. Ora, però, non era ancora uscito per cenare, o era già rientrato? O aveva deciso per il servizio in camera? Non le sembrava il tipo, però. Dal collega che smontava, era stata aggiornata su come il signor Juan Tenorio era rientrato, nel pomeriggio, un po’ provato, sbattuto. Le aveva, con una punta di malignità, ricordato come i due si fossero intrattenuti, di notte, nella stessa camera, ritirandosi presto, e ordinano la colazione quasi all’ora dell’aperitivo. Il rapporto, già in sé tendenzioso, malizioso, e falsato per esagerazione, era stato illustrato da una mimica e una gestualità che sottolineavano, ancor di più, in quali attività fossero stati occupati i due.
RITORNO ALLO SGOBBO. Il week-end era finito. Lunedì mattina Anabel era ripartita per tornare al timone di comando del SOE. Qui corre l’obbligo di fare una precisazione: Anabel e Juan, come alcuni soggetti cui subito accenniamo, operavano sotto la copertura delle attività enunciate dai loro biglietti da visita, copertura dietro la quale si trovava, appunto, il SOE, Security Operation Executive, società di consulenza e assistenza per la sicurezza, a privati e a Governi. Una società di contractor, insomma. Anabel Blanco ne era l’amministratore delegato, o dovrei dire amministratrice delegata? Lo era diventata dopo che Juan aveva ceduto la società da lui fondata, la SOC, Security Operation Company, ai suoi collaboratori più stretti. Lui ne aveva mantenuta la Presidenza, che considerava una posizione onoraria. Per tutti gli altri restava il capo. Solo un soprannome, che, però, rischiando di essere fuorviante, aveva cercato di evitare. Aveva dovuto assoggettarsi, quando gli avevano prospettato l’alternativa: il vecchio. Beh, a tutto c’era pur un limite! Ora posso tirare un attimo il fiato e integrare con una precisazione essenziale. Originariamente l’idea di Juan era stata quella di una sorta di cooperativa tra i soci, se non fondatori, di più antica data. Si era subito presentato il problema di chi sarebbe stato l’uomo al comando. Inizialmente l’idea di Juan era di una sorta di triunvirato con un primus inter pares. Le competenze richieste per le cariche esecutive, E.V.P. e C.O.O. (Executive Vice President e Chief Operating Officer o Chief Operations Officer) non erano messe in discussione da nessuno: Cindy Renée Volk, e Bernard Bauer erano l’ottimo. Lui aveva intenzione di esercitare la sua carica nei limiti strettamente formali che le erano propri, e, anche se era ragionevolmente sicuro che nessuno avrebbe messo in discussione la sua scelta su a chi dare il bastone di maresciallo, era condizionato molto probabilmente dal suo imbarazzo nel prendere quella decisione. Chiunque si sarebbe sentito a disagio nel dover assumere una posizione di comando sugli altri. Così aveva optato per una non del mestiere. Una manager esperta in organizzazione. Ad Anabel Blanco era arrivato tramite un’agenzia di selezione del personale, che ne aveva garantito la professionalità e competenza con referenze ineccepibili. E, soprattutto, perché già consulente di alcuni Governi: quello Spagnolo, e quelli dei Paesi africani di lingua ispanica. Va’ da sé, era stato amore a prima vista. Solo tra i membri di sesso femminile era passata, per questo, un’ombra di melanconia: ma tutte sapevano qual’era la natura di Juan Tenorio Rodriguez Urtago de Villena y Salamanca. Nessuna, tanto meno nessuno –gli uomini sono decisamente più tontoloni- aveva intuito come quella non fosse destinata ad essere la solita infatuazione di Juan, come quelle che aveva avuto con tutte loro. Men che meno lo sospettava Juan, ma non anticipiamo l’historia. Prima di lasciare il Grand’Hotel aveva riconsegnato i badge della camera, e delle due porte interne, e ritirato “la posta”, cioè la busta firmata e controfirmata, timbrata e contro timbrata, che Nikolett aveva riposto nella cassetta della camera, e di cui il giovane alla reception o ignorava la natura, o era stato colto soprapensiero. Juan aveva dovuto, invece, trattenersi: un incontro di lavoro. Una prima presa di contatto, senza impegno. Impegno che Juan sperava poter assumere. Per il poco che gli era stato accennato, quello con cui doveva incontrarsi era l’emissario di un gruppo molto, molto, molto ben messo economicamente. Juan, pur non sapendo ancora di che si trattasse, si era augurato che quelli che potevano diventare suoi committenti, non badassero a spese. La sua speranza non era stata diminuita dal tipo di auto con la quale erano venuti a prenderlo, per portarlo non sapeva dove. Una Land Rover che aveva visto tempi migliori, che aveva il pregio di passare inosservata, ne circolavano molte, e di modelli più recenti, e, in ogni caso, in miglior stato. Anche gli abiti che indossavano i due uomini a bordo dell’auto erano “anonimi”, casual, come il suo. Una tranquilla escursione in campagna. Bellezze naturali, o antiche testimonianze di civiltà precedenti non mancavano certo, e la Nikon che Juan portava al collo, era un altro segno di tipica visita ai tesori locali. La sua polo, tenuta fuori dai pantaloni, ondeggiante, non lasciava né vedere, né supporre, che dietro la schiena, Infilata tra i jeans e la pelle, Juan portasse una Walther P22 calibro .22 lr. Senza dubbio alcuno anche i due tipi che dovevano scortarlo erano armati, e con artiglieria più pesante. Su un’auto potevano permetterselo.
PONZANDO. Alla fine dell’incontro, sulla via del ritorno, era stato Juan stesso a chiedere di essere lasciato all’inizio dell’isola pedonale, al lato opposto a quello dove sorgeva il Grand’Hotel, volendosi concedere una passeggiata nella dolcezza del tramonto, fermarsi a cenare in un posticino dove poteva farlo con tranquillità e godendo di un ottima cucina, e, alla fine iniziare a pensare alle persone con cui prendere contatto. Non dopo, va’ da sé, aver telefonato a Anabel, non solo e tanto per lavoro. Si era incamminato con entusiasmo, pieno di determinazione, come tutte le volte che iniziava a mettere a fuoco il da farsi. Era stato colto impreparato, più all’improvviso e di sorpresa del solito. Qualcosa dentro di lui si era rivoltato, facendogli perdere il passo. Un accenno di capogiro. Sudore, una patina oleosa e sgradevole. Quando aveva sentito l’avviso di tempesta, si era affrettato a rientrare in Hotel, fiondandosi in camera. Un dolore atroce lo faceva boccheggiare, poi gli si erano irrigidite, contratte, le mascelle. Aveva deglutito, iniziando a farsi manifesto e a lui conto che a placare il dolore che martellava nella sua testa, a poco sarebbero servite forza di volontà e capacità di sopportare. Raccogliere le forze per reagire e opporsi sarebbe strato inutile e sciocco. Perché aveva atteso? Cosa aveva sperato? Nulla avrebbe potuto mitigare il dolore all’infuori dei farmaci, e con urgenza. Con affanno aveva preso dall’armadio il borsetto che conteneva tutti i suoi medicinali, che era costretto a portare sempre con sé. L’aveva aperto frugandovi dentro senza curarsi di sparpagliare fuori buona parte del contenuto, prima di trovare la scatoletta che cercava. Una scossa violenta l’aveva atterrito, era vuota. Aveva subito preso a buttar all’aria tutto, con affanno, mandando accidenti al disordine. Quando si aveva bisogno di una cosa, non si riusciva mai a trovarla. Non aveva idea di dove potesse essere finita la scatola piena. Si era persino buttato per terra per frugare sotto il letto, cavandone solo batuffoli di polvere e di capelli femminili. Quando aveva finalmente smesso di cercare sotto i mobili, alzandosi aveva cozzato con la testa contro il bordo del tavolo, un cozzo che si era udito chiaramente. Senza curarsene era corso in bagno, nei cassetti aveva trovato soltanto bottiglie e bottigline di cosmetici, unguenti, profumi: ‘Anabel! Che cazzo te ne fai di tutte ‘ste porcherie? Non le usi … e in più scarichi tutto qui … che ci vieni solo quando vogliamo scopare!’; erano così zeppi che dopo avervi rovistato, non aveva potuto richiuderli. Sospirando con impazienza non aveva cercato a fondo da nessuna parte, ma si era dovuto affidare alla prima impressione superficiale. In bagno la scatola non c’era, nei cassetti dei comodini nei quali doveva pur aver già guardato, era andato di nuovo a rovistare. Il dolore non accennava a smorzarsi, doveva assolutamente trovare quella scatola. Aveva ripreso lena dopo essersi battuto un pugno sul palmo della mano. Ma la scatola non c’era, c’erano soltanto inutili oggetti da toilette di Anabel, ‘devo chiederle perché lo fa … è una cosa ben strana’, ma niente scatola. Aveva continuato ad aprire una dopo l’altra le scatole e scatolette degli altri medicinali frugandovi dentro per accertarsi di cosa contenessero. Nemmeno lì. Scuotendo la testa, stringendosi nelle spalle, bagnato dal sudore che gli correva dal viso e dai capelli, aveva cercato dappertutto, aveva controllato dappertutto, anche nei posti nei quali era improbabile, quasi impossibile che potesse trovarsi quella scatola. Com’era solito dire lui: se una cosa non è dove dovrebbe essere, è dove dovrebbe non essere. Aveva cercato di nuovo, con maggiore zelo, controllando tutti gli spazi disponibili, su e giù per la stanza, mettendo tutto a soqquadro per non trovare nulla. La scatola non c’era. Lasciasse stare. Doveva procurarsene una, lasciare lì tutto e andare a comprarla, e tornare lì. ‘Ma non sto già troppo male? … ormai ho le gambe molli. Che disordine …!’, si era detto, con la mente sempre più confusa e rallentata, ‘appena ritorno devo mettersi a fare un po’ d’ordine. [intendeva: appena torno dalla farmacia, nella quale andrò a prendere il necessario. Ancora si illudeva di poterci riuscire … !, ndr]. Devo darmi un po’ da fare, o non merito di meglio di questo giaciglio, un cumulo di stracci compressi che pare lì da settimane’. [Non volendo recar danno al Grand’Hotel, corre l’obbligo di precisare, che lo stato di disordine e confusione –della camera, intendo; per quello di Juan rivolgersi ad uno psicanalista- erano solo il frutto delle intense e movimentate attività amatorie di Anabel e Juan prima della di lei partenza. Al balzo colgo l’occasione per rassicurare che la crisi di cui Juan stava cadendo preda, non aveva collegamento alcuno con le suddette attività amatorie godute in modo massiccio e intensivo, ndr]. Non fosse stato così sofferente! Si era strofinato le mani sulle cosce, e si era accorto che stavano tremando. Aveva sentito un brivido di paura farsi strada in lui. Forte. Non doveva lasciarsi abbandonare alla disperazione, sarebbe stato un lavoro che avrebbe fatto poi, semmai. Doveva prepararsi il giaciglio, e quando avesse messo anche un po’ d’ordine, avrebbe potuto stendersi lì anche per tutta la notte e il giorno a venire, e il male sarebbe passato. Si era osservato nello specchio. ‘Dunque capisci anche tu in che stato mi trovo …’, si era girato dall’altra parte come per essere assolutamente solo con se stesso e con le proprie sofferenze, ‘… ma credi che mi lasceranno in pace?’. Accorgendosi alfine di quanto fosse sudato, si era fermato ad asciugarsi il viso con un piccolo asciugamano. Gli era costato fatica anche quel semplice atto, la sofferenza si stava facendo una tortura. Si era guardato attorno in silenzio. Trascinatosi fino al letto, si era lasciato cadere seduto sul bordo. Una scossa violenta l’aveva atterrito. Incredibile, impossibile, impensabile: solo la scatoletta vuota! Nessuna fiala! Chi aveva usato le ultime doveva averla riposta, per esecrando errore, o insulsa dabbenaggine, vuota. Non avrebbe dovuto che recitare il mea maxima culpa: lui avrebbe dovuto controllare, accertarsi, assicurarsi. Non era mai lui a riporre quella scatoletta, né a provvedere a gettare la siringa ed il batuffolo di cotone. Quando doveva ricorrere a quei farmaci dall’effetto potente, che si praticasse da lui stesso, o altri lo facesse, l’iniezione, subito si lasciava cadere sul letto o sul divano, o addirittura sul tappeto, qualchesifosse quel che aveva lì, subito pronto, ed altri provvedevano a far pulizia: le fialette rotte, la siringa, l’ago riposto nella sua protezione, il o i batuffoli di cotone. Controllare, poi, la confezione riposta, non era a lui abituale. A casa disponeva sempre di un kit di riserva, per l’emergenza. Forte di quella falsa sicurezza, per il viaggio aveva afferrato, evidentemente, la prima scatola a portata di mano, senza curarsi di controllarne il contenuto. Il sudore che lo copriva copioso, scivolando lungo il corpo, incanalandosi lungo la spina dorsale, le braccia, le cosce, si era subito raggelato. Il pulsare vivo del dolore gli stava dando l’impressione di sprofondare, le gambe avevano cominciato a cedergli. Juan, nel caso i fosse ridotto all’ultimo, come appunto nell’occasione, portava sempre con sé una prescrizione, di breve scadenza e non ripetibile, per aver sempre quell’ultima riserva. Se n’era ricordato, non provando per ciò sollievo, ma un nuovo scoramento. Non aveva più un controllo ed un equilibrio dei suoi movimenti sufficienti per rivestirsi, scendere nella hall, informarsi sulla più vicina farmacia di turno, farsi andata e ritorno, risalire in camera, rispogliarsi, preparare l’iniezione, farsela, e, infine, abbandonarsi sul letto. Il solo pensare a quella sequenza di atti gli aveva dato il capogiro. Il sudore freddo gli aveva appiccicato addosso il pigiama come un sudario. Avrebbe dovuto, ora, vincere una sua avversione, una quasi fobia: rivolgersi a estranei, chiedere l’aiuto di persone sconosciute. Aveva pensato solo per un attimo di telefonare al servizio di assistenza medica continua, e subito l’aveva scartato. Fossero anche giunti con la velocità di un lampo, l’avrebbero prima visitato, interrogato, poi trasportato ad un pronto soccorso, dove sarebbe stato sottoposto a visita e, probabilmente, anche qualche analisi … No, sapeva, per esperienza provata, che, già prima dell’eventuale trasporto, probabilmente prima dell’arrivo dei soccorsi, sarebbe svenuto. E, nonostante la presenza delle prescrizioni dei farmaci, nessuno avrebbe osato farvi ricorso se non dopo tutto l’iter di protocollo. Troppo complicato, e, soprattutto, troppo tempo perso inutilmente, quando invece s’imponeva un intervento d’urgenza. Ciononostante, era ancora indeciso, un po’ l’orgoglio, un po’ il venir meno delle forze che gli rendeva più facile non fare nulla che fare qualsiasi cosa. Si stava rassegnando, era già accaduto. Sì, ma poi c’erano voluti giorni per ristabilirsi.
Dal vostrostrosempredevoto, brunodantecrespi
(IV° - CONTINUA ...)











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