In vacanza a Courmayeur

Scritto da , il 2022-01-17, genere etero

Alla fine, rieccomi qui.
Lo so, lo so, è passato un bel po’ di tempo dal mio ultimo racconto ma le cose al lavoro sono state piuttosto impegnative. Nulla di cui possa lamentarmi, s’intende, solo… impegnative ecco. Per fortuna il volontariato mi ha tenuto compagnia e mi ha aiutata a svagarmi soprattutto nelle giornate più faticose.
Ma immagino che del mio lavoro non vi importi poi granché, giusto? E dopotutto non sono qui per parlare di quello. Ho altro da raccontare, qualcosa di molto più intrigante che riguarda le vacanze di Natale.
L’azienda aveva chiuso per qualche giorno a ridosso del Capodanno, così ho deciso insieme a Valentina, amica e collega, di andare a fare un weekend lungo a Courmayeur.
Non ho mai amato sciare, tuttavia amo la neve e soprattutto la pace che solo un camino acceso, un buon libro e una coperta sulle ginocchia sanno dare; così mi sono lasciata convincere da lei (molto più sportiva di me) e valigia alla mano ho fatto il mio ingresso nell’alberghetto che ci avrebbe ospitate per tre notti. C’era molta gente e, anche se nel rispetto dei distanziamenti, la sala comune al piano terra era sempre abitata da qualcuno; io, naturalmente, avevo finito per essere tra gli avventori abituali mentre Valentina trascorreva le sue giornate in pista.
In quelle condizioni non mi ci è voluto molto, lo ammetto, per dare vita ad un gioco che ha finito per interessarmi molto più di lettura, camino e coperta. Se mi avete già letta saprete forse avrete già intuito che amo stuzzicare, ma in ogni caso a poco a poco finirete per rendervene conto. Fatto sta che sin dal secondo giorno ho preso l’abitudine di uscire dalla camera per prendere posto in una comoda poltrona, sempre la stessa, indossando solo una semplice tuta comoda da palestra. Tuttavia, sotto di essa, non ho mai indossato intimo. No, nemmeno una volta.
Non posso dire di essere una persona particolarmente freddolosa, tuttavia non dubito che sotto il tessuto felpato rosa i miei capezzoli resi turgidi dalla temperatura piuttosto bassa della saletta saltassero piuttosto bene all’occhio degli altri ospiti dell’albergo. E la mia certezza viene in gran parte dal ricordo dei molti sorrisi che mi venivano spesso rivolti durante le ore trascorse lì, semplicemente seduta in poltrona a leggere. O meglio, a fingere di leggere. Già, perché in realtà sin da subito ho preso a ricambiare quegli sguardi e sorrisi, finendo per flirtare con molti di coloro che me li rivolgevano. Nessuno di essi, però, si era mai spinto oltre un saluto a bassa voce o anche solo un cenno garbato con la mano. Almeno sino all’arrivo di Gioele.
Gioele è un pescatore. Un pescatore su una tonnara al largo di Palermo, in vacanza fin quassù in quello che per lui è l’estremo Nord perché suo nipote, un ragazzetto di circa tredici anni, stava per svolgere una gara di sci.
Gioele è un omone di trentasette anni, moro di capelli e con una barba ispida e già brizzolata, dalle mani callose e rigate dal vento e dal sale; una persona calorosa e solare come la sua terra, forse persino più affabile di quanto ci si aspetterebbe da chi trascorre buona parte delle sue giornate piuttosto lontano dalla socialità caotica del mondo moderno. Fatto sta che Gioele, uomo più di mare che di terra, non ha mai amato né ama la neve (che per altro ben poco conosce) e come me preferisce l’atmosfera ovattata e il latente brusio di quella sala così accogliente.
Come dicevo, Gioele non è stato come gli altri, come tutti quelli che dopo il mio sorriso di rimando si alzavano e se ne andavano quasi come se avessero già, in quel modo distante e decisamente preliminare, saziato tutta l’apparente brama di interagire con la sottoscritta. Lui no. Lui al gioco di sguardi aveva risposto e, anzi, aveva finito per avvicinarsi e parlare. È stato diretto Gioiele, con quei suoi occhi neri come il mare profondo. Ricordo bene - è assai difficile da dimenticare – quando mi ha appoggiato la mano sul ginocchio e mi ha chiamato “fimmina” con voce bassa e roca.
Nemmeno cinque minuti dopo eravamo nella sua camera a sorseggiare un vino bianco passito della sua terra. Si è dimostrato persona piacevole e interessante, ma nessuno dei due era in quella camera per chiacchierare.
“Che vuoi, Giulia?” Mi ha chiesto, fissandomi da oltre il bicchierino di plastica che reggeva con la stessa solennità che avrebbe meritato il più delicato dei cristalli.
“Lo sai.” Ho risposto io reggendolo, quello sguardo.
Tutte lì tutte le parole, tutto lì il gioco della seduzione. Ma non serviva. No, quando si sa cosa si vuole non serve granché. Due voci dall’accento molto diverso possono diventare sinfonia se hanno un desiderio comune. E in quel weekend sulla neve, io e Gioele, ce l’avevamo.
Il resto è stato immediato, spontaneo e naturale. I suoi abiti sono caduti a terra per primi, smanioso com’era di cercare il mio corpo semivelato sotto la stoffa dei miei. Il suo tocco era piacevole stimolante, eseguito con la maestria di chi sa come muoversi sulla pelle di una donna. I miei capezzoli turgidi, sino a un istante prima sfiorati solo dalla felpa ora si trovavano a godere del piacere dei suoi polpastrelli. La mia bocca, rivelatasi più avida di quanto potessi pensare, accoglieva la sua lingua dal sapore speziato di tabacco. Poi, una volta soddisfatto di quel gioco, è stato lui a prendere l’iniziativa per procedere oltre. Ecco un altro aspetto che amo dei miei giochi: stuzzicare, sì sempre per prima, ma nella speranza di trovare un degno compagno, qualcuno che quell’iniziativa me la strappi di mano, per condurre la partita a modo suo. Ma con le mie regole.
In ginocchio, Gioele, con la testa fra le mie cosce, cosce divaricate appoggiate sul morbido lenzuolo del suo letto. Seduta, io, pervasa da un piacere crescente che non provavo da tempo. Non il piacere DEL sesso. Certo, anche quello, ma non solo; no, un piacere più profondo e mentale, oltre che fisico. Il piacere di FARE sesso, di farlo come se fosse quanto di più normale per due adulti, quanto di più semplice e ovvio. Ho raggiunto così il primo orgasmo, grazie alle attenzioni della sua lingua e delle sue labbra sul mio clitoride gonfio e bramoso. Ricordo di averlo ringraziato. Ricordo anche il suo membro, non una di quelle enormi nerchie da film erotico, tuttavia molto invitante essendo piuttosto largo e venoso. Naturale.
In bocca aveva un vago sapore salato di ormoni e sudore, eccitante nella sua semplicità. Ecco cosa c’era di tanto eccitante in quell’uomo: la semplicità. Nulla faceva per mostrarsi più di ciò che era, tutto il lui era schietto e sincero. Sono così, pareva dire con uno sguardo, questo è ciò che voglio e che mi piace. Irresistibile.
La mia lingua pareva stimolarlo parecchio, stando alle contrazioni del suo volto. Gli ho anche sorriso più volte, ma ho il sospetto che lui non se ne sia mai accorto. Prima lente carezze, poi tocchi rapidi e frenetici, così agiva la mia lingua. Sino al momento di avvolgerlo per intero con la bocca. È stato un pompino lento, goduto con calma, gustato da entrambi senza fretta né bramosia. Lui mi ha lasciato fare, sia mentre succhiavo sia quando di tanto intanto preferivo dedicare qualche attenzione ai suoi testicoli gonfi e asciutti massaggiando il cazzo con la mano. Gli ho chiesto se desiderava scoparmi, poteva farlo se lo desiderava. Mi ha risposto di no, un’altra volta magari. Non mi è dispiaciuto, sebbene sperassi di sentirlo dentro di me, perché vederlo tanto soddisfatto è stato per me come un secondo orgasmo.
Il suo, invece, mi è esploso fra le labbra, bianco e denso e caldo. Non una goccia è andata sprecata, tutte raccolte col la lingua, una lingua, la mia, che ha sempre adorato l’intenso sapore del seme e che, ne sono certa, sempre lo adorerà. Nemmeno un bacio, fra me e lui. Solo un saluto, un vago e rapido saluto prima che si rivestisse e uscisse dalla sua stessa stanza per darmi il tempo di lavarmi. “Fai pure con calma”. Questo è stato il suo commiato.
Ma, quello, non è stato un addio.

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