La dama croata

Scritto da , il 2019-01-16, genere etero

All’epoca dei fatti mio nonno era un giovane capitano dell’esercito italiano, con il suo contingente di una ottantina di uomini era partito per la Croazia.
Gli era stato affidato il controllo di una regione di rurale, semplici paesi immersi in una campagna incontaminata ma povera.
Lui che era più alto in grado fu ospitato nel castello dei conti che governavano sul contado da più di seicento anni.
Il castello svettava su una piccola altura poco distante dal villaggio, aveva un aspetto assai severo ma sembrava che negli ultimi anni fosse stato un po’ lasciato andare.
Gli altri graduati avevano trovato posto nella locanda del paese, mentre il resto della truppa aveva adattato alle proprie esigenze una grande cascina dall’aspetto vagamente fortificato che si trovava poco più in basso rispetto al paese.
Sotto la gestione di mio nonno l’occupazione italiana proseguì senza troppi drammi, anche se i nostri soldati erano comunque visti dagli abitanti del villaggio e della contea come degli usurpatori alleati dei tedeschi.
Per fortuna l’umanità e il senso di fratellanza universale che distinguono da sempre l’italiano medio fecero in modo che il fastidio e il rancore per lo stato di occupati non si trasformassero mai in odio e non diedero il là ad episodi particolarmente violenti, ne da una parte ne dall’altra.
Non lo dico solo perché mi fa piacere pensare che mio nonno fosse un essere umano di cui non vergognarsi, ma anche e soprattutto perché questo è quello che mi raccontava mia nonna, alla fine degli anni sessanta quando ero un bambino, e passavo con lei quasi tutti i miei pomeriggi e le mie estati.
Avevo avuto il piacere di passare con mio nonno soli pochi anni della mia infanzia, perché era morto poco prima di compiere sessant’anni per un attacco cardiaco quando avevo otto anni per cui questi fatti mi furono riferiti dalla nonna, solo alcuni ovviamente, perché certi particolari non ho potuto che immaginarmeli...
Un certo numero di soldati italiani avevano cominciato a corteggiare le donne del luogo, era una cosa abbastanza normale in tempo di guerra, del resto gli unici maschi rimasti nel villaggio erano i bambini e i vecchi, tutti i giovani erano emigrati o in guerra o nella peggiore delle ipotesi deceduti al fronte.
Le ragazze e le donne, di quello come di tanti villaggi occupati, non riuscivano a resistere al richiamo dei loro ormoni in piena giovinezza, intessendo delle relazioni più o meno amorose con i giovani e bei soldati italiani.
Mio nonno non era stato da meno.
La Castellana, così la chiamava mia nonna con una certa ironia nei suoi racconti, era rimasta vedova già da due anni quando mio nonno si era presentato con due attendenti al portone del castello.
Era andata sposa giovanissima al conte che era decisamente più anziano e non avevano avuto figli.
Lei ora aveva circa 35 anni, una decina più di mio nonno, e a detta della nonna, pare che fosse ancora una bellissima donna.
Lunghi capelli castani chiaro, raccolti in voluminosi ed elaborate acconciature o più semplicemente in spesse trecce, un naso fiero che si stagliava in mezzo a due occhi luminosi e intelligenti, un viso spigoloso dagli zigomi alti e affilati, un bel corpo costretto in severi corpetti, come usavano fare al tempo le donne di un certo lignaggio, bellissime mani con dita sottili e affusolate unico anello ad adornare il pollice, con lo stemma della casata che era stato del vecchio Conte.
Viveva nel castello con poca servitù comandata a bacchetta da una vecchia governante dall’aspetto arcigno e severo, che però stranamente prese in simpatia mio nonno e non osteggiò una loro ipotetica relazione, anzi, sembrava lavorare per fare in modo che la scintilla tra loro scoccasse.
All’inizio però la Contessa si comportò, se non con una certa alterigia, quando meno con un freddo distacco, del resto mio nonno stava usurpando il castello degli avi del suo defunto marito con un branco di rozzi militari.
Per le prime tre sere non si presentò a cena e mio nonno dovette mangiare da solo al capotavola di un lungo tavolo nell’enorme e austera sala da pranzo.
Una antenata in costume seicentesco lo guardava da una delle tele sull’altissima parete del salone, illuminata in modo quasi spettrale dalla luce delle poche candele che ardevano sui candelieri.
La quarta sera lei rinunciò ai suoi propositi e il giovane capitano finalmente la trovò, elegantemente vestita, seduta all’altro capo del tavolo.
Le si avvicinò e con un rispettoso inchino cercò di farle il baciamano, ma la contessa si ritrasse e lui tornò a sedersi al suo posto senza insistere oltre.
Mangiarono in silenzio senza quasi guardarsi, ma mio nonno non poté non notare una incredibile somiglianza tra la contessa e la donna in costume che li guardava benevolmente dalla grande cornice dorata, che fosse una antica progenitrice che la donna aveva portato con se in dote? Non era dato saperlo.
Lentamente, giorno dopo giorno, sotto i dolci sguardi della vecchia governante e della ancora più vecchia dama seicentesca del grande ritratto, man mano che lei si rendeva conto di non avere di fronte un rozzo individuo ma un uomo gentile, dotato di una certa cultura, le barriere che aveva eretto nei suoi confronti si sciolsero una ad una.
La nobildonna sapeva il latino e perfino un poco d’Italiano e mio nonno stava cercando di imparare il croato, per cui quelle cene videro i loro sforzi di comunicare produrre degli imbarazzanti e a volte divertenti tentativi di conversazione.
Se le frasi che si rivolgevano potevano essere poco comprensibili non era lo stesso per i loro sguardi che, almeno da parte della donna si erano molto addolciti.
Alla fine della settimana il giovane capitano dovette assentarsi per controllare una zona abbastanza lontana, sarebbe partito prima di cena e avrebbe viaggiato nella notte con un sottufficiale e un piccolo manipolo di soldati.
Dopo aver preparato un leggero bagaglio si introdusse furtivamente nella camera della nobildonna e le posò una delle prime rose rosse di maggio sul cuscino, poi la raggiunse nel grande atrio e si congedò baciandole rispettosamente la mano, questa volta lei non si ritrasse ma al contrario sembrò provare un certo dispiacere all’idea che mio nonno si sarebbe allontanato.
Lui lasciò il villaggio sotto il comando di un giovane sottotenente e salì un po’ a malincuore sulla vettura che lo aspettava nel cortile del piccolo castello.
Si fermò per tre notti a dormire in un contado a diversi chilometri dal villaggio,
ma non smise mai di chiedersi che effetto aveva fatto il suo gesto romantico.
Arrivò il momento di rientrare, non stava più nella pelle di essere di nuovo in quella che ormai sentiva un po’ come la sua casa, ma soprattutto di rivedere la Contessa.
Arrivò al castello a notte fonda, congedò i soldati e cercando di non svegliare nessuno, silenziosamente raggiunse l’ala a lui riservata e si infilò nella sua camera da letto.
La stanza era immersa nel buio, gli scuri e i pesanti tendaggi di velluto damascato accuratamente chiusi per conservare il tepore del caminetto ormai spento.
Il capitano si spogliò velocemente rimanendo in mutandoni e canottiera ed entrò nel letto per godersi quelle ultime ore di riposo prima dell’alba.
A momenti non gli venne un infarto quando infilandosi sotto le leggere coperte non trovò un corpo caldo ad attenderlo.
Anche nel buio più assoluto però non ebbe alcun dubbio su chi fosse il proprietario di quel corpo, aveva immediatamente riconosciuto il suo profumo dolce e leggero, che gli ricordava quello delle amate peonie della sua casa di campagna sul lago di Como.
Tirò su le coperte sdraiandosi di fianco a lei che gli dava la schiena.
Il suo pene rispose immediatamente cominciando a rizzarsi nelle mutande mentre si accostava ai suoi glutei generosi.
La contessa era completamente nuda e quando mio nonno le sfiorò i fianchi con una mano la sentì rabbrividire per la pelle d’oca e per il piacere.
Lei rimaneva girata di schiena e non diceva una parola, la mano del capitano si spostò lentamente lungo la linea del fianco, poi sul gluteo, passò ad accarezzarle il ventre leggermente molle e il monte di venere, generosamente ricoperto da una morbida e assai folta peluria.
Infilò le dita tra quei riccioli e scese ancora, fino a sfiorare la sua intimità.
A quel tocco leggero lei rispose con un profondo sospiro, era quasi un gemito, come un urlo soffocato che era rimasto dentro di lei per più di due anni e che ora veniva liberato dal tocco gentile dei polpastrelli del capitano.
I ciuffi di peli più vicini al suo sesso erano già fradici, completamente intrisi dei suoi dolci umori vischiosi.
Il capitano ne raccolse un po’ tra le dita e se li portò alle narici, aspirandone la forte fragranza di donna e poi alle labbra gustandone il dolce sapore vagamente mielato.
Gli sembrava assai più dolce di quello di tutte le donne che aveva avuto nella seppur breve vita amorosa e sicuramente più profumato di quello delle prostitute cui ogni tanto faceva visita in una delle tante case chiuse di Milano.
Riportò le dita tra le cosce della donna e raggiunse le sue labbra, erano già dischiuse e gli offrivano il clitoride che al suo tocco vibrò come una corda di violino facendo emettere alla donna un altro lungo lamento.
Lei continuava a rimanere immobile sempre girata dall’altra parte, allora mio nonno si abbassò le mutande e si fece strada col membro turgido tra le sue umide carni.
Lei non muoveva un muscolo, ma era talmente eccitata e bagnata che trovare la strada della sua vagina fu semplicissimo, il pene scivolò all’interno di lei senza incontrare alcuna resistenza, un altro sospiro ancora più lungo del primo sfuggì dalle labbra della donna.
Il pene di lui cominciò a muoversi, andando avanti e indietro sempre più veloce, sempre più a fondo.
La contessa cominciò ad ansimare man mano che il ritmo e la profondità della penetrazione aumentava, fu un rapporto sessuale abbastanza veloce e assai silenzioso, tanta era la voglia e la forzata astinenza che in pochi minuti mio nonno arrivò all’orgasmo, strinse i morbidi fianchi di lei tra le dita delle mani e diede ancora tre o quattro spinte particolarmente profonde prima di estrarre il pene in fretta e furia e venire sui suoi bianchi glutei.
Si abbandonò su di lei e in pochi minuti si addormentò.
Quando si risvegliò della contessa non c’era traccia, tirò i tendoni di velluto e aprì le finestre per cambiare aria alla stanza, indossò la divisa da ufficiale e come tutte le mattine si recò nella cucina del castello per fare una rapida colazione, il giovane sottotenente che lo aveva sostituito durante la sua assenza aspettava in piedi per fare rapporto, quando fu il momento riferì che nei giorni della sua assenza tutto aveva proseguito con la solita routine e che l’unica novità era un dispaccio con un ordine di rientro immediato in Italia per mio nonno che era atteso agli alti comandi di Milano per una importantissima riunione degli ufficiali di stanza all’estero.
La partenza era prevista la mattina stessa e mio nonno, suo malgrado non poté fare altro che ubbidire, preparò in fretta i bagagli, e mentre la vettura militare lo aspettava nel cortile si mise a cercare la contessa per spiegargli che sarebbe dovuto tornare in Italia per qualche tempo, e che sarebbe tornato il prima possibile, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte, e nemmeno la vecchia governante si fece vedere.
Fu così che a malincuore partì senza poterla salutare, solo a metà del viaggio, cercando delle cose tra i bagagli trovò un grosso rotolo avvolto in un vecchio tendaggio e quando lo srotolò si accorse che era il ritratto dell’antenata che tanto assomigliava alla sua amante.
Il cuore gli si strinse per la commozione e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Le cose in Europa stavano mutando e i rapporti tra Italia e Germania erano bruscamente cambiati, mio nonno non poté più ritornare in Croazia, dopo poco conobbe e sposò mia nonna, nacque mio zio e in seguito mio padre, e la contessa fu messa in un angolo del suo cuore, ma mai dimenticata.
E oggi, dopo quasi novant’anni, il ritratto della sua antenata fa bella mostra di se nel nostro soggiorno, guardandoci con la stessa benevolenza con cui allora guardava i due giovani amanti.


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