Ad un pelo così

Scritto da , il 2018-12-11, genere etero

Mia nonna si è sposata ad agosto, nel giorno del suo sessantacinquesimo compleanno, con l'uomo con cui condivide la vita da trentanni, ovvero da poco dopo che mio nonno biologico, il padre di mamma, morì in un tragico incidente stradale. Doppia festa, quindi, che abbiamo celebrato in un agriturismo dalle parti di Grosseto, terra natia del novello sposo, che è coincisa, propiziandola invero, col giorno più sconcertata della mia relativamente breve esistenza. Sarà un resoconto piuttosto sintetico, quel che segue, perché ritengo che la distanza dall'accaduto non sia ancora sufficiente per concedersi edonistici e narcisistici abbandoni ai piaceri dei dettagli e ad una prosa indugiante e riflessiva. Fatti nudi e crudi, dunque, così come li ho appuntati nel diario.

Dopo il buffet, consumato nella parte più ombrosa di un giardino ampio come un campo da calcio, prendo posto al tavolo assegnatomi - quello dei "giovani", come mi aveva preannunciato nonna - capitando vicino alla figlia di un cugino di nonno Filippo, una ragazza di 24-25 anni ben carrozzata che avrò visto sì e no un paio di volte in vita mia e la cui vicinanza chiaramente mi tiene ad un livello di imbarazzo costante. A tavola c’è un bel clima allegro e goliardico, favorito dal vino che scorre a fiumi, e la mia procace vicina è decisamente su di giri. Parecchio su di giri. ‘Nsomma, per non portarla alle lunghe, ad un tratto, durante uno dei canti e brindisi che intervallano le portate, sento la sua mano poggiarsi sulla patta, slacciarmi il bottone e tirare giù la lampo dei miei calzoni di lino. Lei fa finta di niente, un po’ canta, un po’ parla col fidanzato accanto - cioè, in realtà l'ha presentato come un amico, non proprio il ragazzo, ma ad ogni modo sono venuti insieme ad una rimpatriata famigliare nonché a un matrimonio - sempre, comunque, tenendo il mio cazzo nel pugno, che intanto è cresciuto notevolmente, indurendosi come un pezzo di pane raffermo. Comincia allora a menarmelo lentamente, ma con decisione, tirando giù la pelle al massimo, tenendo il polso fermo e muovendo solo la mano, fin quando non avverte la vena centrale ingrossarsi in prossimità dell’orgasmo. Io, rosso in faccia, tengo lo sguardo calato nel piatto, come se un magnete incorporato nel calamaro alla brace calamitasse le mie pupille, incapace di guardare lei o chiunque altro né, tantomeno, forchetta e coltello a mezz’aria, riesco ad attaccare il cefalopode, che ghermisce il mio olfatto con i suoi vapori da barbecue. Qualche istante prima che godessi, con nonchalance mi ricopre l’uccello col tovagliolo che ha sulle gambe, raccogliendovi tutta la mia venuta, il tutto continuando a cantare e a parlare. Riesco a sfangarla agli occhi degli altri, fingendo di raccattare qualcosa sa terra, così da nascondere gli effetti dell’orgasmo che mi ha devastato e rinfoderare il membro bagnato.

Dopo i dolci, la torta, gli alcolici ecc., oramai passata la mezzanotte, tutti gli invitati si lanciano nei balli, l’orchestra ci dà dentro alla grande e la gente si riversa in giardino, ballando in piedi o agitandosi seduti sulle poltroncine di vimini o sui dondoli disseminati qui e là. Mi do da fare anch'io e sono lì che dimeno culo e braccia al centro della pista improvvisata, a pochi metri dal complesso, quando vengo raggiunto da Amalia – che sarebbe il nome della mia vicina di sedia -, smarcatasi dal fidanzato, o quello che è, che, bollito come uno stracotto, se ne sta seduto papale papale a brindare col cugino di mio nonno - che forse considera suo suocero -, entrambi oramai incapaci di eseguire altro dal movimento della mano per portare il bicchiere alla bocca. Cominciamo a ballare, a saltellare tutti e due euforici. Amalia indossa un vestito scuro lungo, che le evidenzia la linea sinuosa del corpo fino alle caviglie, ma con un vertiginoso spacco sulla destra che scopre tutta la coscia abbronzata ad ogni movimento della gamba. Inoltre il vestito non ha bretelle, così che le spalle rotonde sono nude e preparano lo sguardo prima dell'ubriacatura derivante dalla vista della balconata dei seni, un vero tripudio per i sensi. È alta, Amalia, con una fluente chioma rosso-tramonto. Somiglia fisicamente a Jessica Rabbit, per intenderci, e quando glielo dico a mo' di complimento, mi risponde che è da quando ha 15 anni e le poppe le sono venute su a quel modo che le dicono così. Tuttavia, della Rabbit ha solo il corpo, semmai, perché di viso, nonostante le arie che si dà, non è un granché. Ha il naso grosso e un po’ schiacciato, le labbra sottili e uno strabismo che, sebbene lieve, non dà mai modo di sapere con certezza cosa stiano fissando i suoi occhi. Però ha un corpo da sballo, in effetti. Due bocce toste e un culo da cavalla poggiato su un paio di cosce da capogiro che slanciano le gambe a perdita d’occhio.

Dopo un po’ che balliamo, mi dice all’orecchio che ha una canna già bell’e pronta e vorrebbe fumarsela con me in un posto più appartato. Non aspetta la risposta, mi prende per mano e attraversiamo il mucchio selvaggio e danzante per trovare ricovero dietro uno di quei bugigattoli di legno in cui si mettono gli attrezzi. Infila la mano fra le tette e, strizzandomi l’occhietto con fare cospirativo, pesca uno spinello stropicciato come le cicche di Jighen. Lo stende tra le dita lunghe dalle unghie smaltate in tono con la mise, ridandogli la sua forma propria. Poi lo accosta alla fiamma di un accendino tirato fuori da non so dove. Fumiamo in piedi e in silenzio, sorridendoci e passandoci la canna ripetutamente. Poi, a bruciapelo, mi chiede se m’è piaciuto quello che mi aveva fatto a tavola, o meglio sotto al tavolo. Io fumo hashish, generalmente, perché la maria mi fa un effetto strano, cioè mi sconvolge troppo e subito, e infatti dopo un paio di tiri sono già lesso come una zucchina, per cui, ritornando alla sua domanda, arrossisco e faccio sì con la testa, sfuggendo il suo sguardo. Lei mi stringe il pacco duro e mi dice di non fare il timido, che lo sa che fra le gambe sono bello arzillo. Proprio così dice, arzillo.

“Voglio che me lo metti dentro", dice, "Renato è tanto caro, ma, come dire, un po' pigro... e poi ha bevuto così tanto stasera che mi toccherà fargli da balia, ed io ho voglia di togliermi lo sfizio con te. Tanto siamo tipo cugini, o comunque parenti alla lontana, non vale".

Così dice e si mette a ridere. Poi, sempre tenendomi per il cazzo, apre la porta del bugigattolo ed entriamo dentro. Si vede poco, là dentro, ma si vede, grazie alla luce della luna che entra dall’unica finestrella alla nostra destra. Dentro al bugigattolo ci sono effettivamente gli attrezzi del giardino, accantonati con ordine in un angolo, e un tagliaerba a motore al centro del pavimento in legno, ma anche dei sacchi di terriccio e sementi, sui quali si stende Amalia, dopo aver mollato la presa dalla protuberanza del mio basso ventre. Si tira su la gonna fino alla pancia. È senza mutandine, così appare subito la fica. È senza peli, eccezion fatta per una striscia larga due dita che taglia nel mezzo il Monte di Venere. Il chiaro di luna la becca proprio lì, sul ventre, così posso costatare che la strisciolina di pelo è dello stesso colore dei capelli. È la prima volta che mi trovo così vicino al sesso di una donna. Ad ogni modo, ignara della mia prima volta, allarga le gambe e mi dice di abbassarmi i pantaloni. Io eseguo e l'uccello già in tiro scatta verso l'alto, rampandomi sotto l’ombelico e tremando dalla voglia. Amalia lo afferra e lo stringe forte. Nel palmo dell’altra mano raccoglie i coglioni e li soppesa.

"È impressionante com'è rigido e dritto, ma pure le palle fanno paura", dice, "sono durissime per quanto sono piene. Nonostante tu sia già venuto! Meglio saltare i preliminari,-ficcamelo subito dentro".

Allora salgo con le ginocchia sui sacchi di terriccio, mentre lei si sfila dalla testa il vestito, per non sgualcirlo o sporcarlo, e libera un paio di tette che mi mozzano il fiato nei polmoni. Sono di un bianco lunare, ferme e grosse come mozzarelle di bufala. Al centro dell’areola, larga e rosa, si ergono un paio di capezzoli dritti e sugli attenti, come soldatini di piombo. La visione di quelle tette mi va subito alla testa, non capisco più niente. Amalia mi tira per le chiappe per farmi avvicinare, ed io vedo la cappella che pulsa ad un pelo dalle labbra della passera, già aperte e trepidanti.

"Cazzo aspetti", fa lei, "sbattimmelo dentro, che non ce la faccio più".

Come ipnotizzato, afferro le grosse bocce e prendo ad impastarle, come se fossero pagnotte di pasta lievitata. Lei mi aggancia con le gambe le reni e si tira contro il cazzo, artigliandomi i glutei e ansimando forte, ripetendo dai dai dai come un mantra. La cappella adesso sfiora le labbra, sta entrando... Ed è in quel momento, in quell’attimo che precede l’entrata in scena della mia prima scopata, che il bischero prende a spruzzare come un idrante.

I fiotti si susseguono poderosi uno dietro l'altro, non finiscono più, la colpiscono ovunque, pancia seni viso capelli. Amalia si copre il volto mettendo le mani avanti, ma il casino  è bell’e fatto. Mi urla di smettere o di direzionare altrove "quel coso", poi comincia ad imprecare e ad offendermi, non appena realizza che il suo vestito non è stato risparmiato.

Io voglio morire. Soltanto morire. Ma, visto che papà Zeus dall'alto dei cieli, schifato, non mi ha fulminato seduta stante, risparmiandomi così l'umiliazione e la vergogna, mi rivesto in fretta, e, quando Amalia capisce che me sto tagliando la corda, comincia a protestare, dicendo che non posso lasciarla così, che abbiamo un conto in sospeso e altre cose che non percepisco, rosso e gonfio di vergogna come sono. La verità è che sto crepando dallo scorno, non ragiono più, voglio solo sparire, non considero la possibilità che posso ancora rimediare, allora mi divincolo con uno strattone dalla mano con cui mi tiene il braccio e scappo fuori dal bugigattolo, attraverso di corsa lo schiamazzo del giardino e mi rintano ai piani superiori dell'agriturismo, nella stanza dove pernotterò in questa maledetta notte.

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