Long Live Jamaica
di
Undead_Voyeur
genere
etero
La prima -e unica- volta che l’ho vista ero in spiaggia. Il caldo arroventava l’aria e la sabbia sotto i miei piedi bruciava come i carboni dei fachiri. Camminavo svelto in direzione del bar e pensavo a una cosa sola: una granita al cocco. Già pregustavo la sensazione del latte gelido che di lì a poco mi avrebbe bagnato la gola e lo scrocchiare di quei dolci pezzi di ghiaccio che si sbriciolavano sotto i miei denti, quando voltai lo sguardo verso la distesa di ombrelloni alla mia sinistra e la vidi.
Se ne stava all’ombra, seduta su un telo con la faccia di Bob Marley stampata sopra. Era curva in avanti nell’atto di rollare una cartina lunga con dita esperte. Aveva i capelli raccolti in un fascio di dreadlock neri e arancioni lunghi fin sotto le spalle esili, che teneva voltate verso di me. La pelle della sua schiena era adornata da una serie di tatuaggi sinuosi e aveva una sfumatura ambrata sotto cui si intuivano le ossa della colonna vertebrale. Lo spazio tra le sue natiche era occupato da un perizoma striminzito con i colori della Giamaica che mi rubò il cuore non appena il mio sguardo si posò su di esso. Mi immobilizzai, perso nella contemplazione di quel panorama, dimentico della granita al cocco, incurante della sabbia che mi ustionava i piedi e dei rivoli di sudore che mi colavano addosso.
La vidi cambiare posizione, inarcare la schiena e protendersi verso l’amica stesa accanto a lei, alla quale, lo ammetto, non dedicai la minima attenzione. Appena si spostò, scorsi parte del suo viso. Aveva i tratti affilati, le labbra sottili, le sopracciglia folte e gli occhi di un colore che la distanza mi impedì di identificare. Portava una collana tribale che le scendeva in mezzo ai seni. Seni piccoli e graziosi, dai capezzoli appuntiti, che mostrava con una noncuranza disarmante a chiunque la guardasse. Disse qualcosa che non udii, ma la sua amica distolse per un attimo lo sguardo dal libro che stava leggendo e le rispose con una risata.
“Ti chiamerò Felurian” pensai, “perché sei selvaggia come lei”.
Mi trascinai fino al bar muovendomi all’indietro, incapace di staccarle gli occhi di dosso finché non fu troppo lontana. Pagai la granita più in fretta che potei, deciso a ripercorrere la stessa strada e passare il più vicino possibile al suo ombrellone mentre a malincuore tornavo al mio e al gruppo di amici con cui avevo deciso di condividere quella torrida giornata di agosto.
In quella manciata di minuti in cui era stata lontana dalla mia vista, aveva cambiato di nuovo posizione. Ora era distesa a pancia in giù, appoggiata sui gomiti mentre fumava erba e parlava del più e del meno con l’amica. Giocherellava con un dreadlock tra le dita e aveva i piedi intrecciati sopra il perizoma che si strofinavano l’un l’altro nell’aria rovente.
Una copiosa quantità di sangue defluì dalle periferie del mio corpo e si concentrò sotto i pantaloncini del costume quando la immaginai in quella esatta posizione sopra il mio telo. Camminare nascondendo l’erezione mentre le passavo accanto divenne complesso, ma non perdersi a fantasticare su di lei fu praticamente impossibile. Non feci nulla per dissimulare il mio interesse. Lasciai vagare lo sguardo dalla punta dei suoi alluci fino al solco dentro cui scompariva il filo degli slip, passando per l’angolazione delle ginocchia e soffermandomi su ogni centimetro del suo fondoschiena sodo e ambrato.
Immaginai che a letto dovesse essere selvatica come un gatto, istintiva, quasi feroce. Forse le piaceva graffiare, mordere, leccare ogni angolo del suo partner. Avrebbe apprezzato un uomo deciso, vulcanico quanto lei, capace di tenerle testa. Ne ero certo. Probabilmente era una di quelle che si scaldavano in fretta, che ritenevano una perdita di tempo spogliarsi completamente, perché fare sesso con addosso una canottiera lunga e un paio di mutandine era molto più eccitante che farlo da nudi. L’odore pungente del suo sudore avrebbe riempito la stanza durante una serie di preliminari che immaginai tutt’altro che dolci. Pensai all’avidità con cui avrebbe preso tra le labbra il mio cazzo e a quanto si sarebbe divincolata sentendo due delle mie dita infilarsi dentro di lei ripetutamente, esplorando ogni anfratto di quella fessura stretta e umida, fino a farla palpitare per le convulsioni. Non avrebbe voluto che mi fermassi tanto presto. Dopotutto, una come lei vive per gli orgasmi multipli, ama farsi masturbare ed essere la prima a godere. Le piace fare la pervertita: se le piaci abbastanza, quando togli le dita impregnate dei suoi umori lei aprirà la bocca per leccarle. Apprezza molto il proprio sapore, le dà alla testa come la marijuana. Ama anche masturbarsi da sola: si sposta il perizoma di lato e si infila nella fica il nuovo dildo che ha comprato al sexy shop due settimane prima. Cristo quanto le piace sentirlo dentro. Ci uscirebbe pure a fare la spesa con quel coso sotto gli shorts, se potesse. La sua serata ideale? Mette sul giradischi qualcosa di Bob Marley, si accende una canna e dopo qualche boccata è già inginocchiata sul pavimento a saltellare sul suo cazzo finto al ritmo di Three Little Birds, immaginando già quello vero che probabilmente si scoperà il prossimo weekend. I gemiti che le escono dalle labbra in quei momenti diventano urli trattenuti a malapena, che gli inquilini del piano di sotto dimostrano di non apprezzare per niente, viste le innumerevoli volte in cui hanno battuto una scopa sul soffitto urlandole di darci un taglio con “certe porcherie”. Ma lei cammina in topless in riva al mare, le piace far vedere il culo e non le frega assolutamente nulla del parere altrui, per cui continua a gridare finché il tremito alle gambe non diventa incontrollabile e la sua fica non zampilla su tutta la moquette.
Qualche volta le è capitato di squirtare anche con qualche ragazzo, ma devono saperci fare e avercelo grosso. Si ricorda ancora di Eduardo, un bagnino brasiliano poco più grande di lei incontrato la scorsa estate. Le scopate che si erano fatti in quei due mesi sono tra quelle che ama immaginare a tarda notte, quando si accarezza alla luce di una abat-jour. Lui era un mulatto ricciolino, con gli occhi azzurri come l’Atlantico e tra le gambe il più bell’uccello che avesse mai visto: longilineo, coperto da un reticolo di vene spesse, con un glande a forma di fragola attorno a cui aveva l’abitudine di arrotolare la lingua ogni volta che glielo tirava fuori dai pantaloni. L’empatia tra di loro era stata immediata fin da quando si era inginocchiata per fargli un pompino di un quarto d’ora negli stretti camerini della spiaggia, una di quelle ciucciate che vorresti non finissero mai e che quando sborri lo fai con una tale irruenza che arrivi a schizzare persino la parete di fronte.
Sesso orale a parte, quando erano finiti a letto per la prima volta era rimasta piacevolmente sorpresa nel constatare che Eduardo la scopava con una ferocia di cui non lo avrebbe mai creduto capace a un primo sguardo, bloccandole i polsi per non farsi graffiare e al tempo stesso infilandosi tra le sue cosce come se dovesse domare una tigre. Lo avevano fatto ovunque: sul tavolo della cucina, sul lavandino del bagno, persino sulla spiaggia di notte e nell’ascensore del condominio. A lui piaceva prenderla da dietro e spingere il cazzo fino a farle sbattere le palle sul culo, mentre con le mani le afferrava i dreadlock raccolti sulla nuca. Inutile dire che lei non aspettava altro: accoglieva a gambe spalancate i suoi affondi, voltandosi a guardarlo godere mentre la penetrava. La sensazione della propria vagina che risucchiava a fatica quel lungo cazzo venoso e rigido come una pietra le faceva perdere ogni freno. Ringhiava come una belva e inarcava la schiena tatuata per sentirlo dentro di più, sempre di più, mentre le sue resistenze crollavano e il piacere dilagava in ogni fibra del suo corpo. Alla fine, quando sentiva la pressione sanguigna di Eduardo raggiungere limiti soddisfacenti, si staccava da lui tremando, si voltava, gli afferrava il cazzo tra le mani e con poche mosse decise si faceva eiaculare addosso tutto il seme che il ragazzo aveva trattenuto così a lungo per lei. Quello era uno dei suoi momenti preferiti: accogliere i rivoli di sborra calda sulla bocca, sui capezzoli, sul ventre, per poi leccarsi le labbra senza staccare gli occhi da quelli di lui, nel mentre che il suo splendido uccello, che ci metteva sempre parecchi minuti a perdere durezza, le stava dritto davanti gocciolando in tutto il suo splendore.
Le era dispiaciuto vederlo andare via al termine della stagione, ma purtroppo non aveva avuto scelta. A volte si sentivano ancora su Telegram e ne approfittavano per mandarsi qualche video. Lui amava guardarla masturbarsi dicendo il suo nome e lei conservava gelosamente ogni immagine di quel bel pisello brasiliano tutto gonfio, sormontato da un blocco di addominali che le inumidivano le cosce solo a pensarci.
Non che Eduardo fosse l’unico, intendiamoci. Di palestrati arrapati tra le sue chat ce n’erano a decine, e lei non si faceva certo problemi a toccarsi per loro ogni volta che la voglia di sesso minacciava di sopraffarla.
Chissà, forse con quella sua amica stava parlando proprio di loro in quel momento, sdraiata sotto l’ombrellone mentre la guardavo con il cazzo dritto sotto il costume. Le stava allungando il cellulare per farle vedere qualcosa, una foto, o un video di qualche scopamico rimasto ipnotizzato dal suo perizoma tanto quanto lo ero io. Vidi che sul volto della sua amica si disegnava una smorfia eloquente. La loro risatina riecheggiò nell’aria fino alle mie orecchie. Stavo per andarmene, girare i tacchi e tornare da dove ero venuto, ma proprio in quel momento, Felurian alzò lo sguardo dallo smartphone…e mi vide.
Se ne stava all’ombra, seduta su un telo con la faccia di Bob Marley stampata sopra. Era curva in avanti nell’atto di rollare una cartina lunga con dita esperte. Aveva i capelli raccolti in un fascio di dreadlock neri e arancioni lunghi fin sotto le spalle esili, che teneva voltate verso di me. La pelle della sua schiena era adornata da una serie di tatuaggi sinuosi e aveva una sfumatura ambrata sotto cui si intuivano le ossa della colonna vertebrale. Lo spazio tra le sue natiche era occupato da un perizoma striminzito con i colori della Giamaica che mi rubò il cuore non appena il mio sguardo si posò su di esso. Mi immobilizzai, perso nella contemplazione di quel panorama, dimentico della granita al cocco, incurante della sabbia che mi ustionava i piedi e dei rivoli di sudore che mi colavano addosso.
La vidi cambiare posizione, inarcare la schiena e protendersi verso l’amica stesa accanto a lei, alla quale, lo ammetto, non dedicai la minima attenzione. Appena si spostò, scorsi parte del suo viso. Aveva i tratti affilati, le labbra sottili, le sopracciglia folte e gli occhi di un colore che la distanza mi impedì di identificare. Portava una collana tribale che le scendeva in mezzo ai seni. Seni piccoli e graziosi, dai capezzoli appuntiti, che mostrava con una noncuranza disarmante a chiunque la guardasse. Disse qualcosa che non udii, ma la sua amica distolse per un attimo lo sguardo dal libro che stava leggendo e le rispose con una risata.
“Ti chiamerò Felurian” pensai, “perché sei selvaggia come lei”.
Mi trascinai fino al bar muovendomi all’indietro, incapace di staccarle gli occhi di dosso finché non fu troppo lontana. Pagai la granita più in fretta che potei, deciso a ripercorrere la stessa strada e passare il più vicino possibile al suo ombrellone mentre a malincuore tornavo al mio e al gruppo di amici con cui avevo deciso di condividere quella torrida giornata di agosto.
In quella manciata di minuti in cui era stata lontana dalla mia vista, aveva cambiato di nuovo posizione. Ora era distesa a pancia in giù, appoggiata sui gomiti mentre fumava erba e parlava del più e del meno con l’amica. Giocherellava con un dreadlock tra le dita e aveva i piedi intrecciati sopra il perizoma che si strofinavano l’un l’altro nell’aria rovente.
Una copiosa quantità di sangue defluì dalle periferie del mio corpo e si concentrò sotto i pantaloncini del costume quando la immaginai in quella esatta posizione sopra il mio telo. Camminare nascondendo l’erezione mentre le passavo accanto divenne complesso, ma non perdersi a fantasticare su di lei fu praticamente impossibile. Non feci nulla per dissimulare il mio interesse. Lasciai vagare lo sguardo dalla punta dei suoi alluci fino al solco dentro cui scompariva il filo degli slip, passando per l’angolazione delle ginocchia e soffermandomi su ogni centimetro del suo fondoschiena sodo e ambrato.
Immaginai che a letto dovesse essere selvatica come un gatto, istintiva, quasi feroce. Forse le piaceva graffiare, mordere, leccare ogni angolo del suo partner. Avrebbe apprezzato un uomo deciso, vulcanico quanto lei, capace di tenerle testa. Ne ero certo. Probabilmente era una di quelle che si scaldavano in fretta, che ritenevano una perdita di tempo spogliarsi completamente, perché fare sesso con addosso una canottiera lunga e un paio di mutandine era molto più eccitante che farlo da nudi. L’odore pungente del suo sudore avrebbe riempito la stanza durante una serie di preliminari che immaginai tutt’altro che dolci. Pensai all’avidità con cui avrebbe preso tra le labbra il mio cazzo e a quanto si sarebbe divincolata sentendo due delle mie dita infilarsi dentro di lei ripetutamente, esplorando ogni anfratto di quella fessura stretta e umida, fino a farla palpitare per le convulsioni. Non avrebbe voluto che mi fermassi tanto presto. Dopotutto, una come lei vive per gli orgasmi multipli, ama farsi masturbare ed essere la prima a godere. Le piace fare la pervertita: se le piaci abbastanza, quando togli le dita impregnate dei suoi umori lei aprirà la bocca per leccarle. Apprezza molto il proprio sapore, le dà alla testa come la marijuana. Ama anche masturbarsi da sola: si sposta il perizoma di lato e si infila nella fica il nuovo dildo che ha comprato al sexy shop due settimane prima. Cristo quanto le piace sentirlo dentro. Ci uscirebbe pure a fare la spesa con quel coso sotto gli shorts, se potesse. La sua serata ideale? Mette sul giradischi qualcosa di Bob Marley, si accende una canna e dopo qualche boccata è già inginocchiata sul pavimento a saltellare sul suo cazzo finto al ritmo di Three Little Birds, immaginando già quello vero che probabilmente si scoperà il prossimo weekend. I gemiti che le escono dalle labbra in quei momenti diventano urli trattenuti a malapena, che gli inquilini del piano di sotto dimostrano di non apprezzare per niente, viste le innumerevoli volte in cui hanno battuto una scopa sul soffitto urlandole di darci un taglio con “certe porcherie”. Ma lei cammina in topless in riva al mare, le piace far vedere il culo e non le frega assolutamente nulla del parere altrui, per cui continua a gridare finché il tremito alle gambe non diventa incontrollabile e la sua fica non zampilla su tutta la moquette.
Qualche volta le è capitato di squirtare anche con qualche ragazzo, ma devono saperci fare e avercelo grosso. Si ricorda ancora di Eduardo, un bagnino brasiliano poco più grande di lei incontrato la scorsa estate. Le scopate che si erano fatti in quei due mesi sono tra quelle che ama immaginare a tarda notte, quando si accarezza alla luce di una abat-jour. Lui era un mulatto ricciolino, con gli occhi azzurri come l’Atlantico e tra le gambe il più bell’uccello che avesse mai visto: longilineo, coperto da un reticolo di vene spesse, con un glande a forma di fragola attorno a cui aveva l’abitudine di arrotolare la lingua ogni volta che glielo tirava fuori dai pantaloni. L’empatia tra di loro era stata immediata fin da quando si era inginocchiata per fargli un pompino di un quarto d’ora negli stretti camerini della spiaggia, una di quelle ciucciate che vorresti non finissero mai e che quando sborri lo fai con una tale irruenza che arrivi a schizzare persino la parete di fronte.
Sesso orale a parte, quando erano finiti a letto per la prima volta era rimasta piacevolmente sorpresa nel constatare che Eduardo la scopava con una ferocia di cui non lo avrebbe mai creduto capace a un primo sguardo, bloccandole i polsi per non farsi graffiare e al tempo stesso infilandosi tra le sue cosce come se dovesse domare una tigre. Lo avevano fatto ovunque: sul tavolo della cucina, sul lavandino del bagno, persino sulla spiaggia di notte e nell’ascensore del condominio. A lui piaceva prenderla da dietro e spingere il cazzo fino a farle sbattere le palle sul culo, mentre con le mani le afferrava i dreadlock raccolti sulla nuca. Inutile dire che lei non aspettava altro: accoglieva a gambe spalancate i suoi affondi, voltandosi a guardarlo godere mentre la penetrava. La sensazione della propria vagina che risucchiava a fatica quel lungo cazzo venoso e rigido come una pietra le faceva perdere ogni freno. Ringhiava come una belva e inarcava la schiena tatuata per sentirlo dentro di più, sempre di più, mentre le sue resistenze crollavano e il piacere dilagava in ogni fibra del suo corpo. Alla fine, quando sentiva la pressione sanguigna di Eduardo raggiungere limiti soddisfacenti, si staccava da lui tremando, si voltava, gli afferrava il cazzo tra le mani e con poche mosse decise si faceva eiaculare addosso tutto il seme che il ragazzo aveva trattenuto così a lungo per lei. Quello era uno dei suoi momenti preferiti: accogliere i rivoli di sborra calda sulla bocca, sui capezzoli, sul ventre, per poi leccarsi le labbra senza staccare gli occhi da quelli di lui, nel mentre che il suo splendido uccello, che ci metteva sempre parecchi minuti a perdere durezza, le stava dritto davanti gocciolando in tutto il suo splendore.
Le era dispiaciuto vederlo andare via al termine della stagione, ma purtroppo non aveva avuto scelta. A volte si sentivano ancora su Telegram e ne approfittavano per mandarsi qualche video. Lui amava guardarla masturbarsi dicendo il suo nome e lei conservava gelosamente ogni immagine di quel bel pisello brasiliano tutto gonfio, sormontato da un blocco di addominali che le inumidivano le cosce solo a pensarci.
Non che Eduardo fosse l’unico, intendiamoci. Di palestrati arrapati tra le sue chat ce n’erano a decine, e lei non si faceva certo problemi a toccarsi per loro ogni volta che la voglia di sesso minacciava di sopraffarla.
Chissà, forse con quella sua amica stava parlando proprio di loro in quel momento, sdraiata sotto l’ombrellone mentre la guardavo con il cazzo dritto sotto il costume. Le stava allungando il cellulare per farle vedere qualcosa, una foto, o un video di qualche scopamico rimasto ipnotizzato dal suo perizoma tanto quanto lo ero io. Vidi che sul volto della sua amica si disegnava una smorfia eloquente. La loro risatina riecheggiò nell’aria fino alle mie orecchie. Stavo per andarmene, girare i tacchi e tornare da dove ero venuto, ma proprio in quel momento, Felurian alzò lo sguardo dallo smartphone…e mi vide.
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