Tinder Stories_1_"Moglie, madre e... Tinder!"

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Tinder Stories_1_"Moglie, madre e… Tinder!"

Mi sono fatta Tinder, è così, il giorno del mio trentottesimo compleanno.
Non so perché; forse per gioco, come ora sto scrivendo qua sopra, forse perché ho molto tempo libero, forse perché mi sento sola.
Mi sono sposata a vent’anni, lui ne aveva trentasette, ora ne ha cinquantacinque, abbiamo una stupenda figlia fresca diciottenne, la mia luce, e una bellissima casa sul mare, o dovrei dire villa, con un parco enorme e, sinceramente, non dovrebbe mancarmi niente.
Mio marito però è sempre via per lavoro, è un imprenditore, e già quando l’ho conosciuto faceva il manager. Da quasi otto anni poi ha la sua azienda, con sede a Malta, e quindi torna da noi solamente ogni due settimane, escluse le feste. Mi manca.
Quando glielo dico, dice di non preoccuparmi, di guardare a tutte le belle cose che possiamo comprarci: la Panamera per me e il Cayenne per lui, la piscina nuova, il campo da tennis, la barca, le vacanze di lusso cinque settimane l’anno, e poi tutte le mie borse e tutti i miei vestiti, gli orologi, i gioielli, le migliori scuole per nostra figlia, la mia luce, la chiamerò Luce, e ancora la casa in montagna, e quella in collina, con sette ettari a uliveto, e potrei andare avanti… eppure tutto questo non mi basta. O meglio, mi è bastato, per anni, anni in cui mi sono allontanata sempre più dagli amici, finché non me ne è rimasto alcuno.
«Devi uscire di più, mamma!» mi dice spesso Luce, mia figlia.
Da molto, troppo, per quattordici giorni di fila siamo state io e lei, io e lei, lei che ora che è maggiorenne si sente grande e passa sempre meno tempo con me. Mi sento sola?
Ad eccezione della donna delle pulizie, del giardiniere e di Anna, la mia preparatrice atletica, non vedo nessuno. Le madri delle amiche di mia figlia non le posso soffrire. Mia madre chiama ogni tanto, vive lontano, mio marito non l’ha mai voluta con noi. Mio padre non l’ho mai conosciuto. I miei suoceri… meglio se non chiamano.
«Non ti preoccupare,» mi dice mio marito, «dieci anni ancora e poi viaggeremo per il mondo in barca!» Dieci anni. Ne avrò quarantotto. Lui sessantacinque. La nostra Luce ventotto e, magari, avrà già una figlia, come io ho avuto lei, e io sarò nonna.
Altri dieci anni. Ma posso aspettare così altri dieci anni? Forse.
Intanto però mi sono fatta Tinder.
E forse anche perché a son di leggere libri e guardare serie, mi sono accorta che il genere erotico stava diventando predominante. Mi masturbo assiduamente, giorno e notte, con tutta una serie di giocattoli da far invidia alle professioniste. Vado pazza per i racconti erotici, li preferisco di gran lunga ai classici video porno, troppo semplici, troppo banali. Ho bisogno che la mia mente possa correre libera, possa spaziare, possa creare e comporre la scena così come IO voglio immaginarla.
Per questo sto scrivendo: mi eccita. E naturalmente ci avevo già pensato, a scrivere, inventando tutto di sana pianta, ma proprio non mi riesce, ho una fantasia limitata, necessito di scrivere di ciò che vivo, o non funziona, e non posso farci niente.
Così mi sono fatta Tinder; con l’obbiettivo di avere un appuntamento e magari trovarmi un amante! Potrà sembrare sciocco. Ma c’è da considerare che anche quando lo faccio con mio marito, lui non è più come un tempo, e anche se prende tutti quegli integratori e quelle pillole, Viagra e Cialis in primis, alle volte dura si e no cinque/sette minuti, che sembra una follia aspettare due settimane per sentirsi così insoddisfatte.
Ma non bisogna fraintendermi, anche perché forse ho scritto male, non sono molto brava, ma io, io mio marito lo amo! E della nostra intimità con lui non mi lamento, anzi, mi impegno come lui si impegna ogni giorno per cercare di darmi tutto ciò di cui ho bisogno. Amore e sesso non sono alla fine così legati, giusto?
Non so rispondere; nella mia vita ho avuto solamente quattro uomini e li ho amati tutti.
E quanti altri potevo averne…
Dopotutto sono una donna davvero attraente: sono alta 1,74, bionda, occhi mielati e, grazie anche all’esercizio fisico e alla mia preparatrice Anna, ho mantenuto una linea perfetta, quasi come avessi ancora vent’anni. Solo il seno mi sta leggermente cascando, ma poco, e rimane il mio punto di forza, insieme al viso, al culo, alle gambe, alle braccia, sì, mi piaccio proprio! Soprattutto quando resto, completamente nuda, ad accarezzarmi davanti allo specchio. Ringrazio anche mia mamma per questo! E ringrazio di aver fatto il cesareo, così che le mie pareti vaginali non si sono dilatate e la mia figa, perché si chiama figa, è rimasta bella stretta. Anche se questa parte non ce l’ho molto chiara e probabilmente è una sorta di mia psicosi…
Anna per esempio ha avuto due bambini e dice che, dopo essersi dilatata, poi è tornata uguale e non le è cambiata per niente. Mente?
Comunque è meglio se parlo di Tinder. Tinder è facile da usare, soprattutto se si è donne e soprattutto se si è belle. Ho creato un profilo senza mentire su niente e ho caricato quattro foto. 1) Un ritratto del mio viso fatto da un fotografo professionista l’anno passato. 2) Un mezzobusto di me in bikini che rido in spiaggia (per valorizzare il seno!). 3) Una che mi ha fatto mio marito mentre sono sul divano e accarezzo il nostro Golden retriever, Susi. 4) Una assieme a Veronica, la moglie di un socio di mio marito, mentre prendiamo il sole su un lettino di uno chalet di Madonna di Campiglio. Poi, non ho resistito, e ho collegato il profilo con quello di Facebook. L’ho fatto perché volevo essere trasparente, in un certo senso, e non volevo mi considerassero una fake. Tanto non lo uso praticamente più e ci sono solo foto vecchie e avrò forse appena cinquecento amici. E, cosa più importante, mio marito non lo usa. (A parte che non si vede nulla giusto?) Comunque alla fine era tutto pronto, ho impostato il raggio d’azione mi pare di 20km (da tenere conto che siamo in una località gettonata e con molto passaggio) e l’età: dai 18 (lo so che sono piccolini!) al massimo! Perché alla fine mi sono detta che mica devo trovare per forza uno con cui fare sesso, magari può nascere soltanto una bella amicizia, qualcuno con cui chattare e che mi riempia di complimenti, anche un uomo anziano, un gentiluomo di settant’anni magari, una sorta di amore platonico…
Così ho cominciato a fare gli swipe a destra e a sinistra e scrollare e scrollare e scrollare e ho notato che dopo poco, molti di quelli che sceglievo mi avevano già scelta a loro volta e appena il match era confermato, iniziavano ad arrivarmi i loro messaggini.
La maggior parte erano patetici. Ma ad un certo punto ne ho trovato uno con cui chattare, uno che non aveva scritto: «Ciao, sei stupenda!» e poi sono diventati due e quattro e in venti minuti mi sono ritrovata a passare il pomeriggio col tablet a letto e entro sera avevo fissato il primo appuntamento e per la sera stessa! Sono stata precipitosa?
Lui era proprio come nel profilo, aveva 29 anni, nove meno di me, era poco più alto di me, capelli alle spalle, un bel viso da attore francese, dalle foto faceva surf, e doveva avere un grosso e bruno gatto. Appena l’ho visto da lontano, ho pensato subito a mio marito.
«Non posso farlo,» mi sono detta, «devo andarmene.»
ma sono rimasta seduta ai tavolini esterni del bar.
Forse devo precisare che dove viviamo, nessuno mi conosce, nessuno a parte alcune madri delle amiche di mia figlia, ma quelle lavoravano o stavano in casa sempre, giusto?
Per farla breve comunque, il tizio era davvero simpatico, e tra noi si è instaurata da subito una grande sintonia, non abbiamo smesso di parlare un minuto, e, dopo due ore, sembravamo quasi due coetanei che si conoscono da una vita, nonostante lui avesse nove anni meno di me, e fosse ancora soltanto un ragazzo e non un uomo. E forse era proprio questo di lui a piacermi; era un sognatore!
Un sognatore che mi ha invitato a cena!
E io dovevo declinare. E invece ho accettato!
Ho chiamato Luce per dirle che mangiavo fuori, lei, per nulla sorpresa, ha risposto che cenava da Paola, e di non aspettarla alzata.
Naturalmente ho pensato che Paola fosse Paolo.
Al ristorante, abbiamo preferito una pizzeria al taglio periferica, sicuramente evitata da ogni mia possibile conoscenza, ha pagato lui, che carino, e poi mi ha invitata a passeggiare sul lungomare. Quando gli ho risposto che preferivo prendere qualcosa di caldo, chiedendogli se abitava nelle vicinanze, insistendo che mi sarebbe piaciuto davvero molto vedere la sua casa, a momenti cascava per terra! Che buffo! Ed è proprio straordinario, vedere un bel ragazzo che non crede ai propri occhi, e che deve prendere una decisione e che all’improvviso non sa come dirmi che da lui non si può, perché vive ancora con i genitori.
E allora io che ho fatto?
Ho pensato a mio marito e l’ho invitato da noi.
Era ancora presto, prima del rientro di Luce, avevamo forse un paio d’ore.
Ero eccitata. Lui mi attraeva invincibilmente, anche, quando si ritrovò a varcare l’ingresso della villa, senza sapere come comportarsi, cercando di ostentare una certa sicurezza. La cagna Susi dormiva nella sua cuccia. Io invece ero bella sveglia!
«Vuoi qualcosa di caldo?» gli chiesi.
«Voglio te.» rispose, sorridendo.
«Va bene…» sorrisi io, mordendomi il labbro, «ma per favore sii porco!»
Al surfista uscii un ghigno ma non si mosse, era immobile nel nostro atrio di marmo bianco di Carrara, con gli occhi che prima di fissarsi su di me erano guizzati dal lampadario ai tappeti persiani come un vero e proprio intruso.
I capelli lunghi gli si appiccicavano al collo per il sudore.
«Non preoccuparti», sussurrai tra me e me, stringendo l’orlo della mia camicetta di seta, avanzando lentamente verso di lui. Occhi negli occhi, gli feci una carezza. E stavo per dirgli di baciarmi, ma non aspettò il permesso. Un bacio forte, profondo. Con mani tremanti, mi spinse contro il muro freddo, la bocca sempre calda e pressante contro la mia. Quando mi strappò la camicetta, i bottoni si sparsero sul pavimento, sussultai, non per la sua aggressività, ma per l'immagine improvvisa del sorriso stanco di mio marito che mi balenava dietro le palpebre. I suoi denti mi sfiorarono la clavicola, scendendo ancora più in basso, e mi inarcai contro di lui, sussurrando «Sì» mentre la sua lingua mi accarezzava il capezzolo attraverso il pizzo. "Dio, hai il sapore del sale", gemette, succhiando così forte da fargli venire un livido, e io gemetti il nome di mio marito invece del suo.
«Luca, mi chiamo Luca.»
Annuii, mentre il tradimento mi si aggrottava deliziosamente nello stomaco.
Mi fece girare, sollevandomi la gonna mentre mi appoggiavo al muro. Il suo cazzo premeva contro di me attraverso i jeans, il denim ruvido mi graffiava le cosce.
«Scopami come una troia», sussurrai, spingendomi contro di lui, e lui non esitò, penetrandomi con una spinta violenta. Il viso di mio marito mi riapparve davanti agli occhi: il modo in cui mi baciava la fronte dopo il sesso, come se stesse premiando un bambino. Luca mi afferrò i fianchi, martellandomi più forte a ogni colpo, sussurrando parolacce in un italiano che mi rendevano più viscida. «Stasera sei la mia troia», gracchiò, le dita che mi scavavano lividi nella pelle. Venni con un singhiozzo, immaginando mio marito che ci osservava dalla porta, con la disapprovazione che gli serrava la bocca. Mi trascinò sul tappeto persiano, mettendomi a quattro zampe. A pecorina: il naso umido di Susi mi urtò il gomito prima di allontanarsi. La vera cagna ero io. Le mani di Luca si strinsero nei miei capelli mentre mi sbatteva contro, e poi mi sorreggevano e palpavano i seni attraverso il pizzo strappato. «Succhiameli», implorai, inarcando la schiena finché i miei capezzoli non sfiorarono le sue labbra. Morse, la lingua roteava, gemendo come se stesse morendo di fame. Quando sputò sul mio buco del culo e ci sfregò il pollice, gridai di nuovo il nome di mio marito, una violazione elettrica. «Più forte!» urlai, sentendo i suoi testicoli schiaffeggiarmi contro, ogni spinta mi faceva sentire posseduta, distrutta, gloriosamente degradata.
La seconda volta fu contro il pianoforte a coda: legno freddo contro il mio stomaco, spartiti che si sparpagliavano mentre mi sollevava le gambe sopra le spalle. I suoi occhi erano fissi sul mio seno che ondeggiava selvaggiamente sopra di me, il sudore perlaceo che si raccoglieva nella mia scollatura. «Assaggia», ordinò, infilandomi due dita in bocca. Succhiai avidamente, assaporando il sapore del sale e della mia stessa viscosità mentre lui martellava senza sosta, sussurrando quanto fosse «perfetta» la mia figa. L'espressione delusa di mio marito mi balenò dietro le palpebre, stava scuotendo la testa a un gala di beneficenza, e venni così violentemente che le cosce tremarono. Ma luca non era ancora venuto e, irruente, mi trascinò per i capelli di sopra, nel nostro letto matrimoniale: il fresco cotone egiziano di mio marito ci inghiottì come un complice. A faccia in giù, con il culo in su, Luca mi massaggiava e strizzava i seni fino a farmeli dolere, mentre mi penetrava da dietro. «Vuoi che entri?» ringhiò, allargandomi le guance per sputare sul mio buco più stretto. L'umiliazione mi inghiottì il respiro: questo ragazzo mi reclamava dove mio marito dormiva accanto a me. Annuii freneticamente, inarcandomi più profondamente nelle sue spinte. Quando mi diede uno schiaffo rosso sul sedere e mi chiamò «La sua puttana bisognosa», immaginai mio marito che entrava... vedendomi cavalcata in quel modo... la vergogna bruciava più del cazzo di Luca. Ad un certo punto mi sollevò, le gambe strette intorno alla vita, e mi scopò in posizione eretta, i nostri riflessi nello specchio un collage osceno. La sua bocca rimase incollata al mio capezzolo mentre guardavo il mio viso contorcersi per il piacere. Ogni suzione inviava onde d'urto alla mia figa bagnata. «Stringimi», sibilò contro il mio seno. «Fammi sentire chi sei.» Mi strinsi forte intorno a lui, delirante per l'attrito. Luca si dimenava più forte, sussurrando parolacce sulla mia umidità, la mia fame, il mio tradimento. Il vetro si appannava. Mi lasciò cadere sul letto, rovesciandomi a faccia in giù sul cuscino di mio marito. Inspirai l'acqua di colonia sbiadita. Le dita spesse di Luca mi divaricarono le guance, spingendo il suo cazzo di nuovo nel mio buco abusato. «Più forte!» ansimai. «Fammi la tua troia!» Mi diede uno altro schiaffo rosso sul culo, il bruciore si mescolò al disgusto immaginario di mio marito. Ogni spinta sembrava una confessione: cruda, violenta, assolutamente necessaria. Si chinò su di me, bloccandomi i polsi, i denti che mi graffiavano il collo mentre ringhiava:
«Ti piace così?»
«Siii.»
Il suo pollice mi sfiorò di nuovo il buco del culo, girando mentre mi penetrava. Le due invasioni mi distrussero: urlai il nome di mio marito mentre venivo e Luca si inginocchiò, succhiandomi i seni come un vitello affamato. La sua lingua mi circondò i capezzoli con una fame disperata. «Che buoni», mormorò, mordendomi fino a farmi gridare. Il piacere si trasformò in dolore: il tocco delicato di mio marito mi avvolse in un velo, facendo sembrare sacra la ruvidezza di Luca. Infilò due dita nella mia fica, serrandole contro il mio punto G mentre succhiava. I miei fianchi sussultarono incontrollabilmente. «Mi stai mungendo il cazzo», mi accusò, spingendo le dita in profondità. «Spremi più forte!» Mi strinsi, gocciolando sul velluto. La sua bocca non lasciò mai il mio seno. Mi trascinò a terra. Di nuovo a pecorina, la sua preferita. Premetti la mia faccia contro il giocattolo da masticare dimenticato di Susi. Luca sputò sul mio ano, strofinandoci il pollice mentre il suo cazzo si immergeva nella mia umidità. «Guarda», ringhiò, torcendomi i capelli per guardarli verso lo specchio. Mi vidi: occhi vitrei, seni ondeggianti, viso arrossato dalla dissolutezza. La moglie di… quella sconosciuta nel riflesso. Luca mi diede uno schiaffo fino a farmi diventare cremisi. «Di chi è questa troia?» chiese. Mia? Sua? Le parole si dissolsero in gemiti. Mi inarcai più in profondità, implorando: «Scopami come se lo odiassi!»
Obbedì: ogni spinta brutale era una preghiera al vuoto. Venni così forte che battevo i denti. Mi inchiodò contro l'armadio di quercia intagliata. La sua bocca si aggrappò al mio capezzolo come un marchio, succhiando con suoni gutturali e disperati. Il dolore fioriva sotto il piacere: i teneri baci di mio marito mi deridevano a memoria. Luca morse, i denti graffiavano la carne sensibile finché non gemetti. «Hai il sapore del peccato», soffiò contro la mia pelle, la lingua turbinava, reclamando. Le sue dita scivolarono tra le mie gambe, trovando il mio clitoride gonfio. «Vieni ancora per me», ordinò. Mi sgretolai all'istante, piangendo la sua sporcizia contro le venature del legno. Rise, voce bassa e crudele. «Che puttana». La vergogna mi infiammò le vene, più calda del suo cazzo. Mi fece girare, spingendomi la faccia contro lo specchio freddo. Di nuovo a pecorina. Il mio riflesso mi fissava: capelli arruffati, labbra gonfie, seni macchiati di cremisi dalla sua bocca. L'elegante moglie di… ridotta a questo. La mano di Luca mi afferrò il fianco, le dita scavavano lividi mentre mi sbatteva dentro. «Guardati,» sibilò. «Guarda la troia che sei.» Ogni spinta mi faceva sobbalzare lo sguardo sul riflesso: i miei occhi erano vitrei, la mia bocca era aperta per l'estasi. La degradazione era squisita. Mi inarcai all'indietro, implorando:
«Più forte!»
Sputò per l’ennesima volta sul mio buco del culo, strofinando il pollice contro l'anello stretto mentre martellava senza sosta. «Urla il mio nome,» ringhiò. L'invasione raddoppiò; urlai il suo nome, pensando a quello di mio marito. Contro la finestra con le tende di seta, mi piegò in avanti. La bocca di Luca si aggrappò ancora al mio seno come una morsa, succhiando avidamente, la lingua che roteava sul capezzolo finché non gemetti, era assatanato. Il dolore si confuse con il piacere: i baci morbidi di mio marito mi perseguitavano. Luca morse forte, i denti che mi graffiavano, reclamandomi con un desiderio selvaggio. «Sei perfetta» gemette contro la mia pelle, adorando ogni curva. Le sue mani mi massaggiavano la carne, possessive e ruvide. Gemetti, spingendomi nella sua bocca, bramando il dolore. «Questo è ciò che una donna merita», pensai delirante: essere divorata, non solo toccata. Quando il suo pollice mi circondò il clitoride, crollai all'istante, i succhi mi colavano lungo le cosce. Lui rise cupamente. «Che troia avida.» Mi trascinò ancora per i capelli verso il letto, girandomi a quattro zampe. Di nuovo a pecorina, per l’ennesima volta: il mio riflesso sbatteva le palpebre sulla porta a specchio dell'armadio: pelle arrossata, seni che ondeggiavano come frutti maturi, occhi vitrei come quelli di un ubriaco. La moglie di… e poi di nuovo a terra. Continui cambi di posizione. Era tutto un orgasmo… graffiai il tappeto, stordita dall'umiliazione. Ogni scatto dei suoi fianchi era come una punizione: bellissima, meritata. «Ancora», imploravo silenziosamente. «Ancora ti prego.»
Mi girò sulla schiena, con le ginocchia che mi formicolavano. Prima che potessi riprendere fiato, la sua bocca era di nuovo sul mio seno, selvaggia, affamata. I denti mi graffiarono il capezzolo, la lingua leccò il bruciore. «Come sei buona», gemette, succhiando baci ammaccati lungo il mio stomaco. Gli intrecciai le dita tra i capelli, spingendo il suo viso più forte contro di me. Mio marito non mi ha mai assaggiato così, pensai amaramente. La lingua di Luca scese più in basso, separando le mie pieghe con ruvida urgenza. Mi divorò, leccando, succhiando, mordendomi l'interno coscia finché non mi contorcei. «Stai gocciolando di nuovo», ringhiò contro il mio clitoride, le dita che affondavano di nuovo dentro. «Dimmi che vuoi il mio cazzo, dimmi che lo vuoi ancora.» Lo feci. Suppliche sporche e spezzate mi piovvero fuori. Immaginai mio marito entrare, vedendomi spalancata, bagnata, implorante, e mi strinsi alle dita di Luca. La vergogna mi si accumulò calda nel ventre. Seguì ancora l'estasi…
All'improvviso, i fari fenderono la finestra, abbaglianti, inconfondibili. L’Audi di Luce scricchiolava sul vialetto di ghiaia. Il panico mi bloccò a metà spinta. Anche Luca si bloccò, con il pene conficcato dentro di me. «Luce mia», ansimai, indietreggiando di scatto. «Devi andartene. Subito!»
Luca si allontanò con un suono viscido che echeggiò oscenamente nel silenzio improvviso. Eravamo entrambi nudi, tremanti: io per l'adrenalina, lui per la lussuria interrotta. Afferrò i jeans, saltellando goffamente. «Le scale sul retro», sibilai, spingendogli la camicia. «Attraverso la cucina... vai!» I fari illuminarono il soffitto, dipingendo strisce di panico sulle pareti. Susi abbaiò due volte dalla sua cuccia fuori: Luce stava parcheggiando. Luca si arrampicò, inciampando nelle mutandine abbandonate vicino alla poltrona di mio marito. Gli afferrai il polso, trascinandolo verso la scala della servitù nascosta dietro la porta della dispensa. Sentivo la sua pelle febbrile contro la mia.
«Ora!» Lo spinsi sui gradini bui.
«Non correre, cammina e basta!» La pesante porta si chiuse con un tonfo. Con il respiro affannoso, scrutai la carneficina: tende di seta mezze strappate, la palla da tennis di Susi a pezzi vicino alla chaise longue, la mia camicetta a brandelli come coriandoli sul tappeto persiano. La poltrona di pelle profumata di sigaro di mio marito luccicava di sudore.
«Tre volte». Il tutto mentre immaginavo il volto di mio marito. Raccolsi i calzini di Luca, di cotone grigio, non del cashmere di mio marito e li infilai sotto il cuscino del divano proprio mentre le chiavi tintinnavano alla porta d'ingresso.
«Mamma?» La voce di Luce echeggiò nel corridoio di marmo. Un nuovo panico mi strinse la gola. L'odore. Il sesso era denso come una nebbia: muschiato, salato, vergognoso. Spruzzai selvaggiamente la colonia al bergamotto di mio marito, la nebbia mi bruciava gli occhi. Il profumo legnoso di Luca mi era ancora attaccato alla pelle, sotto i lividi che mi fiorivano sui fianchi. Mi dolevano i seni dove li aveva succhiati fino a farli quasi sanguinare.
«Qui dentro!» chiamai, con la voce troppo alta. Afferrai un cuscino, premendolo contro il mio stomaco nudo. La porta sul retro si chiuse con uno scatto: Luca se n'era andato, grazie a Dio. La ghiaia scricchiolò sotto le gomme che si spegnevano lungo il vialetto.
Luce girò l'angolo, con le Doc Martens che graffiavano il parquet. Socchiuse gli occhi, osservando le mie guance arrossate, i capelli impregnati di sudore che mi si appiccicavano al collo.
«Stai bene? Sembra che tu abbia corso una maratona.»
«Vampata di calore», mentii, stringendo più forte il cuscino. La disapprovazione della casa era palpabile nell'aria: il pianoforte a coda era ancora aperto, gli spartiti erano sparsi come la mia dignità. Tirò su col naso, lasciando cadere lo zaino.
«Strano. C'è odore di... cane bagnato e dopobarba scadente qui dentro.» Il suo sguardo si posò sulla pallina da tennis asciutta di Susi vicino alla chaise longue di velluto, una testimone silenziosa. Poi, sulla poltrona di pelle di mio marito. Una macchia umida luccicava sul bracciolo, dove era colato il sudore di Luca, Il mio sudore. Dove mi aveva inchiodata, allargata, fatta urlare il suo nome.
Gli occhi di Luce indugiarono. Il mio battito cardiaco martellava contro il cuscino.
«Birretta?» sbottai, disperata per distrarla. Per distrarre… me. Le dita fantasma di Luca mi circondavano ancora il culo. Il fantasma del suo cazzo mi dilatava. La vergogna si avvolgeva calda sotto l'acqua di colonia di mio marito.
«Nah. Sono stanca, andrò a letto.» Il suo sorriso vacillò. «Mamma? Sembri... distrutta.» Distrutta. Sì. I morsi di Luca pulsavano sotto la mia vestaglia di seta. Sentivo i miei seni pesanti, gonfi per la sua bocca avida. La mia fica mi faceva male – cruda, usata, gocciolante. Tre volte negli spazi sacri di mio marito.
Contro il suo pianoforte. Nel suo letto… e Luce, la mia luce, la mia dolce ragazza, vide le crepe nella mia facciata da mamma perfetta. «Stress», mormorai, evitando il suo sguardo. Il tappeto persiano portava impronte fangose vicino allo specchio del camino. Il mio riflesso mi fissava: labbra gonfie, capelli selvaggi, lividi che mi fiorivano sul collo come rose scure. Una sconosciuta. Una sgualdrina. La sgualdrina di Luca. Le sue ultime spinte echeggiavano nelle mie ossa – punitive, gloriose. Luce diede un calcio alle sue scarpe: «Davvero? Stress? Sei arrossata come se ti fossi infilata dei peperoncini in...» Si bloccò. Gli occhi si fissarono sulla poltrona a orecchioni del papà. Il bracciolo sinistro. Una striscia perlacea luccicava dove il piacere di Luca era caduto quando mi aveva girata sulla schiena. Il mio piacere. Mischiato. Osceno. Mi lanciai in avanti, afferrando la coperta di cashmere abbandonata da mio marito, quella che si drappeggiava sulle spalle mentre leggeva i contratti, e la gettai sulla macchia. Troppo veloce. Troppo evidente. Luce corrugò la fronte. «Da quando nascondi le macchie?» chiese lentamente. Il sospetto acuì il suo sguardo, non più l'innocenza di una bambina, ma l'intuito di una donna. Lo sapeva. Lo sapeva. Mi si strinse la gola. Il panico aveva un sapore metallico. «Prosecco rovesciato», dissi con voce strozzata, con le dita tremanti mentre rimboccavo il bordo della coperta. L'odore muschiato e legnoso di Luca sembrò addensarsi intorno a noi, un'accusa fantasma. Sotto la vestaglia, i segni dei morsi pulsavano dove i suoi denti mi avevano affondato nell'osso iliaco. Un calore intenso si accalcava tra le mie cosce. Mi sentivo svuotata, riempita, violata in modi in cui mio marito non aveva mai fatto. Gli occhi di Luce saettarono: sul cuscino di velluto storto della chaise longue, sulla pallina da tennis di Susi incastrata sotto la gamba del pianoforte come un segreto di colpa, sullo specchio del corridoio che rifletteva i miei capelli spettinati. Le sue narici si dilatarono. Spruzzai di nuovo selvaggiamente bergamotto. La nebbia rimase sospesa, uno scudo patetico. Bene. Luce si alzò di scatto, le Doc Martens abbandonate, i piedi che scivolavano sul parquet. Il suo telefono vibrò: Paolo, probabilmente. Un senso di sollievo mi invase. «Va be, parliamo domani, buonanotte Mamma», evitando il mio sguardo. «Buonanotte Luce mia.»
Sulla soglia della sua cameretta, si fermò. «Sei sicura di stare bene?» Il sospetto le acuì la voce: non la preoccupazione di una figlia, ma l'indagine di un detective. La macchia fangosa del tappeto persiano luccicava sotto il lampadario. Il mio riflesso nello specchio del corridoio: labbra punte da un'ape, collo chiazzato di viola. La faccia di una prostituta. La faccia di mio marito ondeggiava dietro la mia, il disgusto distorceva i suoi bei lineamenti. «Hai visto?» La voce di Luca mi echeggiò nella testa. «Questo è ciò di cui avevi bisogno.»
«Bene!» cinguettai, troppo allegra. Il bergamotto soffocava l'aria. Lo sperma fantasma di Luca mi colava lungo la coscia. «Sono solo stanca. Serata tra ragazze!» La bugia aveva un sapore aspro. Lo sguardo di Luce cadde sulla sedia del padre, la coperta di cashmere gettata frettolosamente sul tradimento perlaceo di Luca. La sua mascella si serrò. Lo sapeva. Oh dio, lo sapeva. Borbottò un’altra buonanotte, sbattendo la porta senza baciarmi la guancia. Il silenzio urlò. Sola. Tremavo nonostante il calore che mi aderiva alla pelle. La disapprovazione di mio marito si irradiava dalla poltrona come un fuoco gelido. Tirai via la coperta di cashmere, rivelando la macchia viscosa che Luca aveva lasciato sulla pelle. Tre volte. Il suo cazzo mi dilatava la fica fino a farmi male. I miei seni pulsavano ancora dove i suoi denti mi avevano marchiata, eh, certo, non ricordavo neanche più quanto ai ragazzi piaccia il seno, Il tappeto persiano era ruvido sotto i miei piedi nudi, disseminato di prove: la palla da tennis sbavata di Susi, il calzino smarrito di Luca che spuntava da sotto la chaise longue, il fantasma delle mie urla che echeggiava sul coperchio del pianoforte. Afferrai la caraffa di mio marito, tracannando scotch fumoso dritto. Bruciava, ma non come le spinte finali di Luca: profonde, brutali, che mi svuotavano, sfibrandomi completamente. La vergogna mi si rannicchiò calda nello stomaco. Dolce vergogna. Il mio tablet brillava accusatorio dal tavolino. Tinder. Solo qualche ora prima, mi annoiavo. Mi sentivo sola. Ora? Usata. Soddisfatta. I messaggi di Luca lampeggiavano: «Dio che donna fantastica. Quando ti rivedo?» La sua foto profilo, sorridente accanto alla tavola da surf, sembrava surreale. Quel sorriso da ragazzino nascondeva l'animale che mi aveva inchiodata, strappato le mie mutandine di seta e ringhiato «Prendilo, troia» mentre mi scopava finché non ho pianto il nome di mio marito, arrabbiandosi in quel caso, volendo che urlassi il suo. Luca. La gelosia possessiva di un ragazzino che non desidera altro che ciucciare delle belle tette e scopare fino alla fine. Le mie cosce tremavano al ricordo dello stiramento. Il morso sulla spalla mi bruciava deliziosamente. La stanchezza mi appesantiva le ossa, ma la mia fica pulsava, ancora affamata.
Tinder funzionava.
Troppo bene...
scritto il
2025-11-06
3 2 9
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