Michele II capitolo

di
genere
confessioni

Rimasi a lungo chiusa nel bagno. Provai a rimettere insieme i pezzi di me e fu una fatica immane, mi sciacquai la faccia con l’acqua gelida del lavandino, fissai a lungo l’immagine riflessa nello specchio provando un misto tra vergogna ,rabbia e cercando di respingere il piacere che ancora mi scorreva dentro di cui gli effetti trasudavano la mia biancheria e mi segnavano l'interno delle cosce.
Davanti alla porta, trassi un profondo respiro prima di uscire.
Presi coraggio e lasciai li bagno ,con cautela mi avvicinai alla mia stanza, Michele non c’era e con lui erano spariti anche le mia mutandine che gli avevano fatto compagnia, il letto era stato rifatto in maniera impeccabile poi ai piedi di esso , in un angolo vicino al comodino, trovai un fagotto minuscolo, nero, ragrinzito, appena lo presi tra le dita una sensazione tiepida, viscida e appiccicosa mi incollo le mani.
Era una delle mie mutandine, un perizoma nero ,uno dei miei preferiti, in tulle semi trasparente, con un ricamo floreale a decorane il pannello.
Il tassello al suo interno era la parte più pregna del seme di mio cognato, un odore forte muschiato mi raggiunse e solleticò le narici, fu l’istinto a guidarmi e avvicinata la faccia a quel tessuto ci intinsi la lingua
Il sapore era metallico quasi alcalino, mi ricordò il sangue e il sudore e accese subito qualcosa dentro di me, mi fece gemere di piacere per poi un attimo dopo inorridire.
Non mi riconoscevo, cosa stavo facendo?
Mi alzai di colpo disgustata da me stessa, e poi di nuovo lo specchio ,questa volta quello della mia camera in cui vedevo riflessa una donna che a stento riconoscevo.
Passarono i giorni. Tutto tornò nella solita quotidianità. Aldo, preso dai suoi impegni lavorativi, continuava ad essere assente. Passavo parecchie notti da sola, nel mio letto.
Michele era sempre lì. Nulla era cambiato nel suo atteggiamento, nei suoi attimi di lussuria e perversione verso di me — che accoglievo come un diversivo alla noia, ma senza lasciare che le cose tra noi andassero oltre.
Poi, una sera, accadde qualcosa.
Aldo, di rientro da una lunga trasferta, avrebbe passato la notte a casa e, come il figliol prodigo, lo accolsi nel nostro letto. Ma qualcosa mi pesava sul cuore.
Lui era lì, con me. Su di me. Era dentro di me. Eppure era distante. O forse ero io ad essere altrove. Nonostante la sua enfasi, il tentativo di dimostrare il suo amore, la sua passione — ogni suo atto, ogni gesto, ogni sospiro — mi sembrava fasullo. Artificiale. Gelido.
Qualcosa era cambiato. Si era rotto. Forse in maniera irreparabile.
Anche se lui era tra le mie gambe, e mi dimostrava il contrario, qualcosa si era smarrito. Provai a ricordare l’ultima volta in cui mi ero sentita davvero desiderata. Non amata — quella era un’altra cosa, più quieta, più educata. In quello, Aldo non aveva mai mancato.
Era altro. Era sentirmi desiderata. Desiderata, invece, era un verbo che avevo smesso di coniugare da quando lui aveva cominciato a guardarmi come si guarda una cosa che c’è. Che non cambia. Che non sorprende. Quotidiana.
Quella sera, però, Aldo — forse intuendo qualcosa, o per semplice bisogno di avermi per sé — sembrò voler cercare un rimedio. Un estremo salvataggio. E io non mi negai. L’assecondai.
All’inizio sembrò funzionare. Forse era il silenzio che ci aveva avvolti. O il modo in cui lui mi aveva cercata, con un ardore che sembrava riemerso da un tempo lontano. Le sue mani erano tornate a esplorarmi come se volessero ricordare. E io avevo lasciato fare.
Ma dentro ero distante. Il corpo rispondeva di riflesso ai suoi gesti, sì — ma io non c’ero. O non del tutto.
Poi sopraggiunse, improvvisa, una sensazione. L’idea di una presenza estranea nell’ombra, che gli occhi ancora non vedevano ma che l’intuito percepiva.
Fu allora che lo vidi. La porta non era chiusa del tutto e, nel buio della notte… Michele. Immobile. Gli occhi fissi su di noi. Su di me.
Mi si gelò il sangue. Cercai istintivamente di coprirmi, di afferrare le lenzuola, di nascondermi — ma il gesto fu goffo. Tardivo. Il tessuto scivolò dalle dita. Rimasi lì: esposta. Indifesa. Colta nel mezzo di qualcosa che non sapevo più se mi apparteneva.
Sentii l’imbarazzo salirmi alla gola, come un nodo. E insieme a quello, una vertigine. Non era solo vergogna. Era qualcosa di più profondo. Più torbido.
Era rabbia. Era eccitazione. Era frustrazione, vergogna, imbarazzo.
Una parte di me — quella che avevo sepolto — si era risvegliata. Mi sentii violata, sì. Ma anche vista. E in quello sguardo rubato c’era qualcosa che Aldo non mi aveva più dato da tempo.
Il respiro mi cambiò. Non per Aldo, ma per quella consapevolezza improvvisa. Il piacere non stava nel gesto, ma nello sguardo che mi catturava. E subito dopo, la vergogna. Come un’onda lenta, inarrestabile, che mi travolse senza chiedere il permesso.
Raccolsi la sfida che mio cognato, silenziosamente, mi aveva lanciato. Mentre lui ci spiava, gli mostrai di cosa ero capace. E feci con suo fratello — mio marito — qualcosa che, idealmente, non potevo negare: avrei fatto con lui. Per lui.
Condivisa. Spartita. Ecco le parole che mi attraversarono la coscienza come un lampo. Condivisa tra due uomini. Due fratelli. Uno che mi amava attraverso la carne. E un altro che, silenziosamente, mi spiava e sembrava desiderarmi attraverso lo sguardo — con tutta la sua anima.
In quell’istante, non ero più padrona di nulla. Né del mio corpo. Né del mio pudore. Né del confine tra ciò che era lecito e ciò che non lo era.
Quella nudità forzata, in quella resa involontaria, fece divampare un incendio dentro di me.
Ancora una volta, come da sola nel bagno, qualche settimana prima , la mia fantasia, il mio istinto, ebbero la meglio sulla ragione.
Una corrente calda, improvvisa, partendo dal basso e dal profondo della mia essenza, mi attraversò come un’onda lenta. Densa. Inarrestabile. L’avevo cercata. Eppure mi aveva sorpresa per la sua intensità. Non ricordavo da quanto non provavo una simile sensazione. Non potevo più fermarla. Potevo solo arrendermi ad essa.
E nell’istante in cui Aldo si svuotò dentro di me, di rimando anche io rilasciai su di lui in un fremito lunghissimo, il miele della mia estasi.
Ci ritrovammo avviluppati l’uno all’altra, nel nostro letto. Esausti. Sfiniti. Felici anche se credo per motivi diversi, lui aveva ritrovato la sua donna, la sua compagna, io per aver ritrovato un emozione che mi mancava da tempo.
Restammo lì distesi tra lenzuola e cuscini sudati e sgualciti, Aldo mi cercò, mi rubò un bacio appassionato, prima di lasciarsi andare ad un riposo meritato.
Nel mentre, il mio sguardo correva altrove, cercava un altro uomo fino alla porta della nostra camera.
Michele era sparito. La porta, dietro la quale si era nascosto , dietro la quale era stato testimone del nostro amplesso ,era tornata ad essere chiusa.
Nella mia anima si sovrapponevano veloci i pensieri. Le voci della colpa, di una donna impegnata che sembrava voler venir meno al suo impegno. Della vergogna per quello che sarebbe stato il giudizio degli altri se i suoi pensieri fossero stati manifesti al mondo. Dell’entusiasmo come quello di una bimba che ha appena ritrovato un suo giocattolo creduto smarrito. Della Donna che ha ripreso possesso della sua libido.
Poi gli occhi si fecero pesanti. Le palpebre si chiusero. E mentre mi persi nell’abbraccio confortevole, noto, quotidiano, di Aldo , mi ritrovai ad immaginare fosse quello di un altro uomo, il sonno sopraggiunse ed ebbe la meglio sul mio conflitto.
Prima che l’oblio calasse su di me, un ultimo improvviso senso di colpa venne a pungermi l’anima. Mi chiesi se fosse colpa mia. Se quel bisogno di essere desiderata avesse aperto una porta che non doveva aprirsi.
Ripensai a tutto quello che era accaduto non solo quella sera ma negli ultimi mesi, e realizzai che la porta era già socchiusa. Ero io che , non so quanto inconsapevolmente , l’avevo fisicamente lasciata così da quando Michele era entrato nella nostra vita, non solo entrando quella sera in camera, forse avevo fatto cosi perchè sperando proprio che accadesse quello che era accaduto.
scritto il
2025-10-23
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