Adamo ed Eri (Cuck)
di
Switchlife
genere
corna
La ghiaia scricchiolava sotto le ruote dell’auto. Tutti i parcheggi vicini all’ingresso erano già occupati. Mi sporgevo in avanti con la testa, guardando a destra e a sinistra, mentre la polvere sollevata dalle altre macchine iniziava a entrare dai finestrini.
«Diavolo, non c’è un buco,» dissi spazientito.
Erika alzò gli occhi dal cellulare su cui stava ritoccando alcune foto. «Mmm… là! Guarda, tra la Clio e la… quella bianca, insomma.»
Avvicinandomi al punto indicato da lei, sentivo musica a tutto volume. Un tizio stava in piedi sulla ruota di un’auto urlando qualcosa che non capivo, ma aveva tutta l’aria di essere slang da spacciatore.
«Non so se voglio lasciarla vicino a quelli, Eri.»
«E dai… che vuoi che facciano? Sono qui per divertirsi come tutti. Dai, parcheggia ‘sta macchina e andiamo.»
Sospirai, rassegnandomi a lasciare la mia auto nuova tra gente che beveva, urlava, e si faceva — meglio non sapere cosa. Non avevo ancora spento il motore che Erika aveva già la mano sulla maniglia della portiera.
«Hai fretta, eh?»
«Dai, spegni e andiamo, amore.»
I suoi tacchi picchiettavano sul cemento in una corsa fatta di passi corti, il passo naturale di chi ha più tacco che gamba. Un rumore che attirò subito gli sguardi dei “lord” lì attorno.
«Non so se prendere un gin tonic o qualcosa di più forte…» disse Erika, tirando su il bordo delle autoreggenti. Nessun intimo sotto la gonna di finta pelle: la sua topina bruna era libera sotto la stoffa.
«Inizi già? Vedi di andarci piano.»
«Nemmeno per sogno. Ho l’autista: bevo quello che mi pare.»
La ghiaia si trasformò in asfalto mentre ci avvicinavamo all’ingresso. I fari delle auto in arrivo ci illuminavano a intermittenza, ritagliando la sagoma di Erika come in un flash fotografico: Sotto la chioma rossa lisciata con la piastra, una giacchetta crop di pelle nera, a coprire il seno un reggipetto bianco senza spalline stretto come una seconda pelle, e al centro il tessuto si torceva in un nodo che attirava lo sguardo proprio dove voleva lei , lasciando intravedere la curva calda della pelle.
Si voltò di colpo, fermandosi appena quel tanto da farmi quasi urtare contro di lei.
Mi guardò dritto negli occhi, il riflesso delle luci del locale che le danzava nelle pupille. Poi mi baciò — lento, deciso — restando vicina qualche secondo in più del necessario.
«Andiamo,» disse appena staccandosi, con quel mezzo sorriso che sapeva usare solo con me.
Dopo l’ennesimo pezzo serrato, Erika mi tirò per mano verso l’uscita laterale. «Ho bisogno d’aria… e di una sigaretta», disse con un sorriso ancora appannato dal gin tonic. Fuori, la musica rimbombava ovattata, tagliata dal vociare della gente che fumava. L’aria fredda le fece arricciare le spalle mentre io le accendevo la sigaretta.
Un gruppo di ragazzi chiacchierava poco distante, le sigarette accese creavano piccoli bagliori nella penombra. Uno di loro si voltò e, squadrandomi con un sorriso a metà tra sorpresa e complicità, disse:
«Davide?»
Per un attimo mi irrigidii, poi riconobbi quel volto segnato dal tempo ma ancora familiare.
«Adamo?» risposi, avvicinandomi a lui.
Ci stringemmo la mano con fermezza, la nostalgia aleggiava nell’aria. Poi Adamo si voltò verso Erika e, per un istante, i suoi occhi incrociarono i suoi, mentre lei lo guardava con un’intensità che non mi era sfuggita.
«Erika, questa è la mia ragazza,» dissi, sorridendo, un po’ sorpreso da quell’elettricità che percepivo fra loro.
Adamo annuì, guardandola con interesse.
Mentre gli stringevo la mano, non potei fare a meno di notare quanto fosse cambiato da quei giorni di scuola media. Adamo era diventato un uomo imponente, con la pelle olivastra e i capelli neri che gli incorniciavano un volto scolpito come una statua. Un fisico da modello, probabilmente frutto di anni di allenamento: lo avevo sempre saputo uno tosto, appassionato di videogiochi di combattimento come Mortal Kombat e Tekken, ma era andato ben oltre.
«Ancora a calci e pugni?» chiesi con un sorriso.
Lui rise, facendo scivolare una ciocca ribelle dietro l’orecchio. «Eh sì, mi alleno ancora ogni giorno. Sono un lottatore di MMA adesso, e il mio eroe… sempre Goku!»
Vestiva con una giacca di jeans consumata sopra una maglietta semplice, jeans strappati e scarpe da ginnastica. Un look un po’ tamarro, ma con un’aria così simpatica che ti faceva sentire subito a tuo agio.
Mentre Adamo parlava, notai che gli occhi di Erika si facevano lucidi, un misto di ammirazione e… altro.
Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli, e quel suo sorriso leggero si trasformò in qualcosa di più deciso.
«Interessante, un lottatore di MMA…» mormorò, quasi per sé, ma abbastanza forte da farmi sentire il peso di quelle parole.
La guardai incuriosito, osservando come si spostava impercettibilmente più vicino a lui, come se quel suo charme naturale si facesse ancora più potente quando decideva di puntare una preda.
Non c’era bisogno che dicessi nulla: sapevo già come sarebbe finita. Quando Erika perdeva la testa così, otteneva sempre quello che voleva.
Erika era silenziosa, ma notavo i suoi occhi scuri che non perdevano un dettaglio di Adamo, la sua mano che sfiorava appena il braccio di lui mentre parlava.
Dopo qualche minuto, lei si allontanò con un sorriso e mi disse: «Vado al bagno, torno subito.»
Rimasti soli, Adamo mi guardò serio, il sorriso meno spensierato.
«Davide,» disse piano, «ma… è normale che Erika si comporti così?»
Lo guardai. «Sì. Tranquillo.»
Lui fece un cenno, quasi a voler capire meglio. «Mi sembra… intensa.»
Dopo il dialogo con Adamo, rientrammo nel locale. La musica era più forte, le luci colorate si muovevano rapide sulla pista. Adamo non perse tempo: iniziò a muoversi, ballando con una sicurezza e un’eleganza che catturavano ogni sguardo, compreso il mio.
I suoi movimenti erano fluidi e sensuali, un misto di potenza e grazia, mentre si muoveva a pochi passi da me. Non potevo distogliere lo sguardo, anche se dentro sentivo quella fitta di gelosia mista a qualcosa di più complesso.
Erika mi sfiorò il braccio e, con un sorriso complice, mi sussurrò all’orecchio: «Vai a prendere da bere, mi raccomando due.»
Accennai un cenno e mi diressi verso il bancone, il cuore che batteva un ritmo incalzante. Quando tornai, li trovai in una posizione che non avevo previsto: si stavano limonando di brutto, le mani di Adamo che esploravano liberamente le curve di Erika, lei che si abbandonava con un misto di passione e determinazione.
Mi fermai per un istante, il respiro corto, consapevole che quella notte avrebbe preso una piega diversa da qualsiasi altra.
Rimasi lì, un’ombra silenziosa ai margini della serata. I drink che avevo preso finiti buttati senza essere nemmeno sfiorati. Non bevevo, avevo promesso a me stesso di restare lucido e alla guida.
Loro invece erano inseparabili, come se il resto del locale non esistesse. Si muovevano lenti, parlavano a bassa voce, poi si perdevano in baci profondi e mani che non si staccavano mai.
Ogni tanto mi tornava addosso una gelosia sorda, ma poi la rassegnazione prendeva il sopravvento. Ero lì perché volevo, o almeno così mi dicevo.
Passò un’ora, o forse di più. Il mondo intorno a me si era dissolto, e tutto quello che vedevo era quel legame incandescente tra Erika e Adamo.
Dopo un’eternità trascorsa a guardare senza essere visto, sentii il tocco leggero di Erika sulla mia spalla.
Si chinò verso di me, la voce bassa e sicura, senza bisogno di cercare parole inutili.
«Dammi le chiavi della macchina.»
Non ci fu un’ombra di esitazione nel suo sguardo. Era un ordine mascherato da richiesta, una certezza che non ammetteva replica.
La guardai, il cuore che batteva forte, consapevole di quello che stavo concedendo.
Con un gesto lento, tirai fuori le chiavi dalla tasca e gliele passai.
Lei sorrise, quella scintilla di vittoria negli occhi.
«Torniamo dopo,» sussurrò, prima di scomparire nel groviglio di luci e corpi, con Adamo al suo fianco.
La macchina era parcheggiata sotto un lampione che tagliava a metà l’oscurità della notte.
Erika aprì la portiera con calma, lasciandomi ancora un po’ sospeso tra curiosità e rassegnazione.
«Allora?» chiesi, cercando di leggere qualcosa nei suoi occhi.
Lei si strinse nella giacca, il sorriso sulle labbra appena accennato.
«Niente, solo mani.» disse con un tono leggero, quasi a voler evitare spiegazioni troppo dettagliate.
La guardai, aspettando un segno, qualcosa che confermasse o smentisse.
«Ma ci siamo scambiati i numeri,» aggiunse con un’alzata di spalle e un sorrisetto malizioso.
La sera dopo,Adamo arrivò con passo leggero, senza fretta, portando sotto braccio una bottiglia di vino. Non sapeva bene perché Erika avesse insistito tanto per quella serata “tra amici”, ma non aveva sospetti.
Lo accolse proprio lei, col sorriso di chi sa più di quanto dica. Indossava un abito semplice ma che, a ogni movimento, lasciava intravedere più di quanto celasse. Io ero già lì, rilassato sul divano, bicchiere in mano.
Ci scambiammo i convenevoli, battute, qualche brindisi. Ma Adamo non poté fare a meno di notare certi sguardi tra me ed Eri: non c’era nulla di plateale, eppure c’era una complicità silenziosa, una sorta di accordo non detto che vibrava nell’aria.
A un certo punto, Erika si alzò e mi si avvicinò, sfiorandomi la spalla mentre mi versava da bere. Quel gesto, apparentemente innocente, fece capire ad Adamo che qualcosa era stato deciso prima ancora che lui arrivasse.
Lo guardai, sospirai.
« Adamo…» dissi, con tono basso e fermo. « Erika vuole che la scopi.»
Lei si voltò verso di lui, gli occhi fissi nei suoi, senza il minimo imbarazzo.
Le parole restarono sospese nell’aria, cariche di un significato che non aveva bisogno di essere spiegato.
Erika si alzò dal divano senza dire una parola, le sue dita sfiorarono appena il bracciolo mentre si voltava verso il corridoio. La porta della camera da letto si richiuse piano dietro di lei, lasciando nella stanza un silenzio quasi sospeso.
Adamo rimase immobile, il respiro leggermente accelerato.
«Aspetta… tu stai dicendo che… non è uno scherzo?» chiese, abbassando la voce come se temesse che la risposta potesse cambiare tutto.
Lo guardai dritto negli occhi. «No. È esattamente quello che hai capito. E va bene così.»
La porta si riaprì e Erika riemerse, avvolta in un insieme di tessuti e linee sottili che sembravano più disegnati che indossati. Autoreggenti nere, e mutandine che davanti erano trasparenti con ricami in pizzo, mentre ai lati e dietro erano fatte solo di sottili laccetti che lasciavano tutto scoperto. Sul retro, un grosso fiocco di raso completava il disegno.
Dal davanti della mutandina partiva un laccetto nero che saliva in verticale, passava tra il seno e si chiudeva a collarino attorno al collo. La parte superiore lasciava scoperto quasi tutto il seno, coprendo appena i capezzoli, con lo stesso stile della mutandina, e un altro fiocco di raso sul davanti.
Abbassai immediatamente lo sguardo, fissandole i piedi con una disciplina quasi forzata, consapevole che non mi era concesso vedere oltre. Erika si avvicinò, lenta, e si sistemò a cavalcioni su di me. Girai il viso di lato, evitando il contatto visivo, finché sentii il tocco fresco della seta sulla fronte e la benda che oscurò tutto.
Sentivo la morbida pressione della vulva calda di Erika sul mio uccello che stava esplodendo,
Nel buio, l’unico pensiero che si fece strada nella mia mente fu il contrasto tra lei — minuta, compatta, precisa nei movimenti — e la figura massiccia di Adamo, seduto di fronte, come se quella sproporzione fosse parte stessa del gioco.
Erika restò sopra di me, il peso ben centrato, i movimenti ancora caldi. Poi, senza staccarsi, si inclinò appena a destra, il busto che scivolò in avanti. La mano si allungò sicura, prese il cazzo di Adamo tirandolo fuori dai pantaloni, lo segava con lentezza, mentre con l’altra teneva stretto il mio collo pungendo con le unghie. Un istante di sospensione — poi iniziò a succhiarglielo, piccoli movimenti regolari, precisi, decisi. Il rumore si fece più intenso. Trattenni il respiro; Adamo, gemeva. Lei lasciò la presa dal mio collo e mi prese la mano, per mettersela sulla nuca. Sopra la mia mise quella di lui.
Il cazzo di Adamo affondava più a fondo nella gola di Eri, il ritmo sempre più stretto. Erika, aumentò la pressione con il peso del corpo, quasi a schiacciarmi contro il divano. Il busto oscillava avanti e indietro, un respiro profondo ad ogni movimento. Con la mano libera, stringeva la base del cazzo, segandolo più veloce, come se volesse godere di ogni centimetro ogni parte, senza lasciare nulla. Il viso, caldo, umido. Chiuse gli occhi, l’istinto di ritirare la mano attraverso la quale mi sembrava di poter percepire quanto profonde fossero quelle boccate.; Adamo, seguiva il ritmo, quasi a incitarla. Il suo cazzo le allargava gola, deciso, regolare, instancabile.
Sentii Erika staccarsi lentamente da me, il calore del suo corpo che scivolava via lasciava dietro di sé una scia di pelle umida e brividi. Adamo le prese la mano e la sentii muoversi verso l’alto, fino a quando entrambi si alzarono in piedi. Non vedevo nulla, ma i suoni erano nitidi: il fruscio rapido di vestiti che cadevano a terra, uno dopo l’altro, come se la foga li avesse resi superflui.
Il respiro di Erika si fece irregolare, e poi un suono secco squarciò l’aria: lo schiocco di una mano sul suo sedere. Lei lasciò andare un gemito breve, quasi sorpreso, ma subito seguito da un tono più basso, di piacere.
Potevo immaginare la scena: Adamo imponente, più alto e largo di lei, le sue mani grandi probabilmente le cingevano i fianchi con facilità, sollevandola senza sforzo. Erika, più minuta, doveva essere quasi sospesa davanti a lui, le gambe che si agganciavano attorno alla sua vita. Li sentivo muoversi: i passi pesanti di lui, lo sfiorare rapido dei piedi di lei avvolti nel nylon contro le sue gambe. Ogni movimento è accompagnato da colpi profondi e decisi, e io percepisco ogni vibrazione nell’aria, ogni cambio di respiro, come se fossi lì, ma imprigionato in un buio che amplifica tutto.
Mentre i loro corpi si muovevano in sintonia, sentii Adamo sussurrare con voce roca:
«Sei sicura di voler prendere questo cazzo?»
Erika rise, con quel tono di sfida che conoscevo bene, rispondendo:
«Non è una questione di prendere, è una questione di non farmelo scappare.»
Il loro scambio, breve ma carico, arrivò fino a me chiaro come un segnale. Quel mestolo doveva essere più grosso di quanto avessi mai immaginato.
Li sentii avviarsi verso la camera da letto, la porta socchiusa che nessuno si era preoccupato di richiudere.
Dal divano, udii il tonfo sordo di Erika scaraventata sul materasso. Poi un gemito strozzato, acuto, seguito dal ritmo sincopato del loro respiro. La tentazione di toccarmi era un fiume in piena – il gelido morso della gelosia si scioglieva nell'ardore dell'eccitazione. Ma non potevo trasgredire. Mi afferrai la nuca, inarcandomi all'indietro in un muto tentativo di dominare i sensi.
Dalla camera, i colpi ritmici della testiera contro il muro scandivano il tempo, accompagnati dai gemiti di Erika che si ripetevano, precisi, ogni tre spinte. Un metronomo di carne. Il ritmo si fece più serrato, incalzante, e i suoi suoni mutarono: non più piacere, ma un lamento continuo, quasi sopportazione.
«Aspetta...» la sua voce ebbe un fremito di serietà.
Percepii il cambiamento di posizione, il letto scricchiolare sotto nuovi assestamenti.
«Sicura?» la domanda di Adamo era carica di un timore non detto.
«Sì, sì, meglio così»
Un attimo di sospensione. Solo respiri lenti, poi un «oooooouuummmmh» profondo, viscerale, le sfuggì dalle labbra.
Il ritmo riprese, più violento. Il materasso gemeva sotto di loro, la testiera batteva contro la parete con furia crescente. I loro corpi erano un groviglio di suoni incontrollati – i suoi sospiri si trasformarono in grida, bruscamente interrotte, come se una mano le soffocasse. La sentii ansimare, riprendere fiato a fatica, prima di essere nuovamente travolta dall'onda.
La voce di Erika si faceva sempre più rara, più flebile. Quando raggiungeva il salotto, era intrisa di qualcosa di oscuro – dolore, sfinimento, e sotto, molto sotto, una paura che mi gelò il sangue.
Stavo per alzarmi, per assicurarmi che stesse bene, quando un fruscio di lenzuola di raso e un tonfo sordo mi bloccarono. Era caduta a terra, respiro affannoso, ansimi simili a quelli di un cane accaldato. Adamo gemeva, e il suono umido della sua mano che si strofinava con furia mi trafisse le orecchie.
Poi, l’esplosione. Un urlo che sembrò strappargli l'anima, un orgasmo tanto intenso da sembrare dolore. Erika emise poi un suono gutturale, soffocato. Il respiro, ora attraverso le narici, era un affanno, i gemiti soffocati sempre più acuti, disperati, come quelli di un prigioniero in catene. Una boccata d'aria, un colpo di tosse.
Nei minuti successivi, li udii raggiungere il bagno. Risatine sommesse, parole indistinte sopra il fragore dell'acqua.
«Wow,» disse Adamo tornando in salotto. «Tu, tutto a posto?»
Alzai un pollice, muto.
«Benissimo… Fidati,» rispose Erika al posto mio. Poi, con voce vellutata: «Fammelo salutare un’ultima volta.»
Le sue labbra si richiusero su di lui, ancora molle, per pochi secondi. «Grazie, Adamo. Ora, però… Lasciaci soli.»
Lui annuì, con quel tono affabile che lo caratterizzava, offrendosi già per un prossimo incontro.
Appena la porta si chiuse a chiave, Erika mi afferrò la mano, trascinandomi in camera. Si posizionò a cavalcioni sul mio viso, rivolta verso le mie gambe, slacciandomi i pantaloni con gesti rapidi.
Quando il suo ano, ancora dilatato, si posò sulla mia bocca, iniziai a leccare con lentezza cerimoniale. Soffi caldi mi accarezzavano la pelle mentre le sue dita affondavano nello scroto, tirando, torcendo, punzecchiando con le unghie. Ogni mio gemito veniva soffocato dalle sue natiche, che si serravano più forte, muovendosi in cerchi lascivi.
Abbandonò la testa sulla mia coscia, spostandosi all’indietro, e all’improvviso il suo sapore mi inondò – la sua topa, bagnata, calda, dipingeva il mio naso con i suoi umori. La lingua si mosse vorace, succhiando quel nettare denso, dal sapore intenso e leggermente aspro. I suoi gemiti erano melodie ora, caldi, femminili, un inno al piacere che si faceva sempre più forte.
«Metti le dita,» ordinò, voce roca.
Obbedii. La mia bocca era un vuoto avido su di lei, mentre due dita esploravano il suo interno, trovando quel punto G gonfio, pulsante, più prominente che mai. Al crescere dei suoi lamenti, aumentai il ritmo, finché non la sentii irrigidirsi, la schiena inarcarsi in una curva perfetta. Un grido lacerante, poi l’onda – un fiume caldo mi inondò il viso, il mento, il collo. Bevvi avidamente, in estasi per quel sapore dolce, piccante, che mi bruciava la gola come un liquore raro.
Erika si accasciò su di me, il suo sudore mescolato al mio, il respiro ancora affannoso. Le sue dita mi scostarono i capelli dalla fronte, un gesto tenero che contrastava con la ferocia di pochi minuti prima. Le mie dita tracciarono invisibili linee sulla sua schiena, evitando con cura i confini proibiti. Lei sospirò, soddisfatta, e mi baciò attraverso la benda.
Si strusciò contro il mio torso, nuda, la sua pelle calda che aderiva alla mia. Sentii il suo cuore battere forte, il tremito residuo delle cosce ancora tese.
«Lui…» esitò, poi ridacchiò, un suono strozzato. «Adamo ha un cazzo enorme. Quello che ti aspetti da un porno, capisci?» La voce si fece più bassa, quasi complice. «Ma come tutti quelli così, credeva che bastasse ficcarlo a martellate per farmi venire.» Un sibilo tra i denti. «Mi ha solo spaccata.»
Le mani le cingevo i fianchi, seguendo le curve che conoscevo a memoria, evitando di scivolare troppo in basso. Non dovevo toccare, non dovevo vedere. Ma potevo ascoltare.
«E allora…» continuò, accarezzandomi il petto, «mentre lui mi sfondava, ho pensato a te. A come mi lecchi, a come ascolti quando gemo davvero. Ho capito che dovevo farlo godere e basta.» Un sorriso nella voce. «Gli ho offerto il culo. Lui non ha resistito.»
Mi strinsi a lei, ridendo. «E tu?»
«Io avevo te nei pensieri. Il modo in cui trattieni il fiato quando mi fai godere, come mi stringi i fianchi quando sto per venire…» Si mise a cavalcioni, sfiorandomi l’erezione con il pube.
«Sei stato bravissimo» mormorò, mentre una mano mi accarezzava i capelli. «Domani ti ricompenso.»
Sorrisi, sfiorandole il fianco. «Cos’hai in mente?»
«Shhh.» Un dito mi chiuse le labbra. Poi lo sostituì con qualcos’altro—il calore morbido della sua pianta del piede che mi sfiorò la bocca, un tocco leggero ma carico di promesse. «Niente domande. Solo obbedienza.»
Risi, ma annuii. Il suo piede si fermò un attimo, premendo appena, prima di scivolare via.
«Dormi» sussurrò, sistemandosi al mio fianco. «Sogno già di come ti userò domani.»
E mentre il buio della benda diventava più profondo, sentii il suo respiro farsi regolare contro la mia spalla. Avevamo tutta la notte per riposare—e tutto il domani per giocare.
«Diavolo, non c’è un buco,» dissi spazientito.
Erika alzò gli occhi dal cellulare su cui stava ritoccando alcune foto. «Mmm… là! Guarda, tra la Clio e la… quella bianca, insomma.»
Avvicinandomi al punto indicato da lei, sentivo musica a tutto volume. Un tizio stava in piedi sulla ruota di un’auto urlando qualcosa che non capivo, ma aveva tutta l’aria di essere slang da spacciatore.
«Non so se voglio lasciarla vicino a quelli, Eri.»
«E dai… che vuoi che facciano? Sono qui per divertirsi come tutti. Dai, parcheggia ‘sta macchina e andiamo.»
Sospirai, rassegnandomi a lasciare la mia auto nuova tra gente che beveva, urlava, e si faceva — meglio non sapere cosa. Non avevo ancora spento il motore che Erika aveva già la mano sulla maniglia della portiera.
«Hai fretta, eh?»
«Dai, spegni e andiamo, amore.»
I suoi tacchi picchiettavano sul cemento in una corsa fatta di passi corti, il passo naturale di chi ha più tacco che gamba. Un rumore che attirò subito gli sguardi dei “lord” lì attorno.
«Non so se prendere un gin tonic o qualcosa di più forte…» disse Erika, tirando su il bordo delle autoreggenti. Nessun intimo sotto la gonna di finta pelle: la sua topina bruna era libera sotto la stoffa.
«Inizi già? Vedi di andarci piano.»
«Nemmeno per sogno. Ho l’autista: bevo quello che mi pare.»
La ghiaia si trasformò in asfalto mentre ci avvicinavamo all’ingresso. I fari delle auto in arrivo ci illuminavano a intermittenza, ritagliando la sagoma di Erika come in un flash fotografico: Sotto la chioma rossa lisciata con la piastra, una giacchetta crop di pelle nera, a coprire il seno un reggipetto bianco senza spalline stretto come una seconda pelle, e al centro il tessuto si torceva in un nodo che attirava lo sguardo proprio dove voleva lei , lasciando intravedere la curva calda della pelle.
Si voltò di colpo, fermandosi appena quel tanto da farmi quasi urtare contro di lei.
Mi guardò dritto negli occhi, il riflesso delle luci del locale che le danzava nelle pupille. Poi mi baciò — lento, deciso — restando vicina qualche secondo in più del necessario.
«Andiamo,» disse appena staccandosi, con quel mezzo sorriso che sapeva usare solo con me.
Dopo l’ennesimo pezzo serrato, Erika mi tirò per mano verso l’uscita laterale. «Ho bisogno d’aria… e di una sigaretta», disse con un sorriso ancora appannato dal gin tonic. Fuori, la musica rimbombava ovattata, tagliata dal vociare della gente che fumava. L’aria fredda le fece arricciare le spalle mentre io le accendevo la sigaretta.
Un gruppo di ragazzi chiacchierava poco distante, le sigarette accese creavano piccoli bagliori nella penombra. Uno di loro si voltò e, squadrandomi con un sorriso a metà tra sorpresa e complicità, disse:
«Davide?»
Per un attimo mi irrigidii, poi riconobbi quel volto segnato dal tempo ma ancora familiare.
«Adamo?» risposi, avvicinandomi a lui.
Ci stringemmo la mano con fermezza, la nostalgia aleggiava nell’aria. Poi Adamo si voltò verso Erika e, per un istante, i suoi occhi incrociarono i suoi, mentre lei lo guardava con un’intensità che non mi era sfuggita.
«Erika, questa è la mia ragazza,» dissi, sorridendo, un po’ sorpreso da quell’elettricità che percepivo fra loro.
Adamo annuì, guardandola con interesse.
Mentre gli stringevo la mano, non potei fare a meno di notare quanto fosse cambiato da quei giorni di scuola media. Adamo era diventato un uomo imponente, con la pelle olivastra e i capelli neri che gli incorniciavano un volto scolpito come una statua. Un fisico da modello, probabilmente frutto di anni di allenamento: lo avevo sempre saputo uno tosto, appassionato di videogiochi di combattimento come Mortal Kombat e Tekken, ma era andato ben oltre.
«Ancora a calci e pugni?» chiesi con un sorriso.
Lui rise, facendo scivolare una ciocca ribelle dietro l’orecchio. «Eh sì, mi alleno ancora ogni giorno. Sono un lottatore di MMA adesso, e il mio eroe… sempre Goku!»
Vestiva con una giacca di jeans consumata sopra una maglietta semplice, jeans strappati e scarpe da ginnastica. Un look un po’ tamarro, ma con un’aria così simpatica che ti faceva sentire subito a tuo agio.
Mentre Adamo parlava, notai che gli occhi di Erika si facevano lucidi, un misto di ammirazione e… altro.
Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli, e quel suo sorriso leggero si trasformò in qualcosa di più deciso.
«Interessante, un lottatore di MMA…» mormorò, quasi per sé, ma abbastanza forte da farmi sentire il peso di quelle parole.
La guardai incuriosito, osservando come si spostava impercettibilmente più vicino a lui, come se quel suo charme naturale si facesse ancora più potente quando decideva di puntare una preda.
Non c’era bisogno che dicessi nulla: sapevo già come sarebbe finita. Quando Erika perdeva la testa così, otteneva sempre quello che voleva.
Erika era silenziosa, ma notavo i suoi occhi scuri che non perdevano un dettaglio di Adamo, la sua mano che sfiorava appena il braccio di lui mentre parlava.
Dopo qualche minuto, lei si allontanò con un sorriso e mi disse: «Vado al bagno, torno subito.»
Rimasti soli, Adamo mi guardò serio, il sorriso meno spensierato.
«Davide,» disse piano, «ma… è normale che Erika si comporti così?»
Lo guardai. «Sì. Tranquillo.»
Lui fece un cenno, quasi a voler capire meglio. «Mi sembra… intensa.»
Dopo il dialogo con Adamo, rientrammo nel locale. La musica era più forte, le luci colorate si muovevano rapide sulla pista. Adamo non perse tempo: iniziò a muoversi, ballando con una sicurezza e un’eleganza che catturavano ogni sguardo, compreso il mio.
I suoi movimenti erano fluidi e sensuali, un misto di potenza e grazia, mentre si muoveva a pochi passi da me. Non potevo distogliere lo sguardo, anche se dentro sentivo quella fitta di gelosia mista a qualcosa di più complesso.
Erika mi sfiorò il braccio e, con un sorriso complice, mi sussurrò all’orecchio: «Vai a prendere da bere, mi raccomando due.»
Accennai un cenno e mi diressi verso il bancone, il cuore che batteva un ritmo incalzante. Quando tornai, li trovai in una posizione che non avevo previsto: si stavano limonando di brutto, le mani di Adamo che esploravano liberamente le curve di Erika, lei che si abbandonava con un misto di passione e determinazione.
Mi fermai per un istante, il respiro corto, consapevole che quella notte avrebbe preso una piega diversa da qualsiasi altra.
Rimasi lì, un’ombra silenziosa ai margini della serata. I drink che avevo preso finiti buttati senza essere nemmeno sfiorati. Non bevevo, avevo promesso a me stesso di restare lucido e alla guida.
Loro invece erano inseparabili, come se il resto del locale non esistesse. Si muovevano lenti, parlavano a bassa voce, poi si perdevano in baci profondi e mani che non si staccavano mai.
Ogni tanto mi tornava addosso una gelosia sorda, ma poi la rassegnazione prendeva il sopravvento. Ero lì perché volevo, o almeno così mi dicevo.
Passò un’ora, o forse di più. Il mondo intorno a me si era dissolto, e tutto quello che vedevo era quel legame incandescente tra Erika e Adamo.
Dopo un’eternità trascorsa a guardare senza essere visto, sentii il tocco leggero di Erika sulla mia spalla.
Si chinò verso di me, la voce bassa e sicura, senza bisogno di cercare parole inutili.
«Dammi le chiavi della macchina.»
Non ci fu un’ombra di esitazione nel suo sguardo. Era un ordine mascherato da richiesta, una certezza che non ammetteva replica.
La guardai, il cuore che batteva forte, consapevole di quello che stavo concedendo.
Con un gesto lento, tirai fuori le chiavi dalla tasca e gliele passai.
Lei sorrise, quella scintilla di vittoria negli occhi.
«Torniamo dopo,» sussurrò, prima di scomparire nel groviglio di luci e corpi, con Adamo al suo fianco.
La macchina era parcheggiata sotto un lampione che tagliava a metà l’oscurità della notte.
Erika aprì la portiera con calma, lasciandomi ancora un po’ sospeso tra curiosità e rassegnazione.
«Allora?» chiesi, cercando di leggere qualcosa nei suoi occhi.
Lei si strinse nella giacca, il sorriso sulle labbra appena accennato.
«Niente, solo mani.» disse con un tono leggero, quasi a voler evitare spiegazioni troppo dettagliate.
La guardai, aspettando un segno, qualcosa che confermasse o smentisse.
«Ma ci siamo scambiati i numeri,» aggiunse con un’alzata di spalle e un sorrisetto malizioso.
La sera dopo,Adamo arrivò con passo leggero, senza fretta, portando sotto braccio una bottiglia di vino. Non sapeva bene perché Erika avesse insistito tanto per quella serata “tra amici”, ma non aveva sospetti.
Lo accolse proprio lei, col sorriso di chi sa più di quanto dica. Indossava un abito semplice ma che, a ogni movimento, lasciava intravedere più di quanto celasse. Io ero già lì, rilassato sul divano, bicchiere in mano.
Ci scambiammo i convenevoli, battute, qualche brindisi. Ma Adamo non poté fare a meno di notare certi sguardi tra me ed Eri: non c’era nulla di plateale, eppure c’era una complicità silenziosa, una sorta di accordo non detto che vibrava nell’aria.
A un certo punto, Erika si alzò e mi si avvicinò, sfiorandomi la spalla mentre mi versava da bere. Quel gesto, apparentemente innocente, fece capire ad Adamo che qualcosa era stato deciso prima ancora che lui arrivasse.
Lo guardai, sospirai.
« Adamo…» dissi, con tono basso e fermo. « Erika vuole che la scopi.»
Lei si voltò verso di lui, gli occhi fissi nei suoi, senza il minimo imbarazzo.
Le parole restarono sospese nell’aria, cariche di un significato che non aveva bisogno di essere spiegato.
Erika si alzò dal divano senza dire una parola, le sue dita sfiorarono appena il bracciolo mentre si voltava verso il corridoio. La porta della camera da letto si richiuse piano dietro di lei, lasciando nella stanza un silenzio quasi sospeso.
Adamo rimase immobile, il respiro leggermente accelerato.
«Aspetta… tu stai dicendo che… non è uno scherzo?» chiese, abbassando la voce come se temesse che la risposta potesse cambiare tutto.
Lo guardai dritto negli occhi. «No. È esattamente quello che hai capito. E va bene così.»
La porta si riaprì e Erika riemerse, avvolta in un insieme di tessuti e linee sottili che sembravano più disegnati che indossati. Autoreggenti nere, e mutandine che davanti erano trasparenti con ricami in pizzo, mentre ai lati e dietro erano fatte solo di sottili laccetti che lasciavano tutto scoperto. Sul retro, un grosso fiocco di raso completava il disegno.
Dal davanti della mutandina partiva un laccetto nero che saliva in verticale, passava tra il seno e si chiudeva a collarino attorno al collo. La parte superiore lasciava scoperto quasi tutto il seno, coprendo appena i capezzoli, con lo stesso stile della mutandina, e un altro fiocco di raso sul davanti.
Abbassai immediatamente lo sguardo, fissandole i piedi con una disciplina quasi forzata, consapevole che non mi era concesso vedere oltre. Erika si avvicinò, lenta, e si sistemò a cavalcioni su di me. Girai il viso di lato, evitando il contatto visivo, finché sentii il tocco fresco della seta sulla fronte e la benda che oscurò tutto.
Sentivo la morbida pressione della vulva calda di Erika sul mio uccello che stava esplodendo,
Nel buio, l’unico pensiero che si fece strada nella mia mente fu il contrasto tra lei — minuta, compatta, precisa nei movimenti — e la figura massiccia di Adamo, seduto di fronte, come se quella sproporzione fosse parte stessa del gioco.
Erika restò sopra di me, il peso ben centrato, i movimenti ancora caldi. Poi, senza staccarsi, si inclinò appena a destra, il busto che scivolò in avanti. La mano si allungò sicura, prese il cazzo di Adamo tirandolo fuori dai pantaloni, lo segava con lentezza, mentre con l’altra teneva stretto il mio collo pungendo con le unghie. Un istante di sospensione — poi iniziò a succhiarglielo, piccoli movimenti regolari, precisi, decisi. Il rumore si fece più intenso. Trattenni il respiro; Adamo, gemeva. Lei lasciò la presa dal mio collo e mi prese la mano, per mettersela sulla nuca. Sopra la mia mise quella di lui.
Il cazzo di Adamo affondava più a fondo nella gola di Eri, il ritmo sempre più stretto. Erika, aumentò la pressione con il peso del corpo, quasi a schiacciarmi contro il divano. Il busto oscillava avanti e indietro, un respiro profondo ad ogni movimento. Con la mano libera, stringeva la base del cazzo, segandolo più veloce, come se volesse godere di ogni centimetro ogni parte, senza lasciare nulla. Il viso, caldo, umido. Chiuse gli occhi, l’istinto di ritirare la mano attraverso la quale mi sembrava di poter percepire quanto profonde fossero quelle boccate.; Adamo, seguiva il ritmo, quasi a incitarla. Il suo cazzo le allargava gola, deciso, regolare, instancabile.
Sentii Erika staccarsi lentamente da me, il calore del suo corpo che scivolava via lasciava dietro di sé una scia di pelle umida e brividi. Adamo le prese la mano e la sentii muoversi verso l’alto, fino a quando entrambi si alzarono in piedi. Non vedevo nulla, ma i suoni erano nitidi: il fruscio rapido di vestiti che cadevano a terra, uno dopo l’altro, come se la foga li avesse resi superflui.
Il respiro di Erika si fece irregolare, e poi un suono secco squarciò l’aria: lo schiocco di una mano sul suo sedere. Lei lasciò andare un gemito breve, quasi sorpreso, ma subito seguito da un tono più basso, di piacere.
Potevo immaginare la scena: Adamo imponente, più alto e largo di lei, le sue mani grandi probabilmente le cingevano i fianchi con facilità, sollevandola senza sforzo. Erika, più minuta, doveva essere quasi sospesa davanti a lui, le gambe che si agganciavano attorno alla sua vita. Li sentivo muoversi: i passi pesanti di lui, lo sfiorare rapido dei piedi di lei avvolti nel nylon contro le sue gambe. Ogni movimento è accompagnato da colpi profondi e decisi, e io percepisco ogni vibrazione nell’aria, ogni cambio di respiro, come se fossi lì, ma imprigionato in un buio che amplifica tutto.
Mentre i loro corpi si muovevano in sintonia, sentii Adamo sussurrare con voce roca:
«Sei sicura di voler prendere questo cazzo?»
Erika rise, con quel tono di sfida che conoscevo bene, rispondendo:
«Non è una questione di prendere, è una questione di non farmelo scappare.»
Il loro scambio, breve ma carico, arrivò fino a me chiaro come un segnale. Quel mestolo doveva essere più grosso di quanto avessi mai immaginato.
Li sentii avviarsi verso la camera da letto, la porta socchiusa che nessuno si era preoccupato di richiudere.
Dal divano, udii il tonfo sordo di Erika scaraventata sul materasso. Poi un gemito strozzato, acuto, seguito dal ritmo sincopato del loro respiro. La tentazione di toccarmi era un fiume in piena – il gelido morso della gelosia si scioglieva nell'ardore dell'eccitazione. Ma non potevo trasgredire. Mi afferrai la nuca, inarcandomi all'indietro in un muto tentativo di dominare i sensi.
Dalla camera, i colpi ritmici della testiera contro il muro scandivano il tempo, accompagnati dai gemiti di Erika che si ripetevano, precisi, ogni tre spinte. Un metronomo di carne. Il ritmo si fece più serrato, incalzante, e i suoi suoni mutarono: non più piacere, ma un lamento continuo, quasi sopportazione.
«Aspetta...» la sua voce ebbe un fremito di serietà.
Percepii il cambiamento di posizione, il letto scricchiolare sotto nuovi assestamenti.
«Sicura?» la domanda di Adamo era carica di un timore non detto.
«Sì, sì, meglio così»
Un attimo di sospensione. Solo respiri lenti, poi un «oooooouuummmmh» profondo, viscerale, le sfuggì dalle labbra.
Il ritmo riprese, più violento. Il materasso gemeva sotto di loro, la testiera batteva contro la parete con furia crescente. I loro corpi erano un groviglio di suoni incontrollati – i suoi sospiri si trasformarono in grida, bruscamente interrotte, come se una mano le soffocasse. La sentii ansimare, riprendere fiato a fatica, prima di essere nuovamente travolta dall'onda.
La voce di Erika si faceva sempre più rara, più flebile. Quando raggiungeva il salotto, era intrisa di qualcosa di oscuro – dolore, sfinimento, e sotto, molto sotto, una paura che mi gelò il sangue.
Stavo per alzarmi, per assicurarmi che stesse bene, quando un fruscio di lenzuola di raso e un tonfo sordo mi bloccarono. Era caduta a terra, respiro affannoso, ansimi simili a quelli di un cane accaldato. Adamo gemeva, e il suono umido della sua mano che si strofinava con furia mi trafisse le orecchie.
Poi, l’esplosione. Un urlo che sembrò strappargli l'anima, un orgasmo tanto intenso da sembrare dolore. Erika emise poi un suono gutturale, soffocato. Il respiro, ora attraverso le narici, era un affanno, i gemiti soffocati sempre più acuti, disperati, come quelli di un prigioniero in catene. Una boccata d'aria, un colpo di tosse.
Nei minuti successivi, li udii raggiungere il bagno. Risatine sommesse, parole indistinte sopra il fragore dell'acqua.
«Wow,» disse Adamo tornando in salotto. «Tu, tutto a posto?»
Alzai un pollice, muto.
«Benissimo… Fidati,» rispose Erika al posto mio. Poi, con voce vellutata: «Fammelo salutare un’ultima volta.»
Le sue labbra si richiusero su di lui, ancora molle, per pochi secondi. «Grazie, Adamo. Ora, però… Lasciaci soli.»
Lui annuì, con quel tono affabile che lo caratterizzava, offrendosi già per un prossimo incontro.
Appena la porta si chiuse a chiave, Erika mi afferrò la mano, trascinandomi in camera. Si posizionò a cavalcioni sul mio viso, rivolta verso le mie gambe, slacciandomi i pantaloni con gesti rapidi.
Quando il suo ano, ancora dilatato, si posò sulla mia bocca, iniziai a leccare con lentezza cerimoniale. Soffi caldi mi accarezzavano la pelle mentre le sue dita affondavano nello scroto, tirando, torcendo, punzecchiando con le unghie. Ogni mio gemito veniva soffocato dalle sue natiche, che si serravano più forte, muovendosi in cerchi lascivi.
Abbandonò la testa sulla mia coscia, spostandosi all’indietro, e all’improvviso il suo sapore mi inondò – la sua topa, bagnata, calda, dipingeva il mio naso con i suoi umori. La lingua si mosse vorace, succhiando quel nettare denso, dal sapore intenso e leggermente aspro. I suoi gemiti erano melodie ora, caldi, femminili, un inno al piacere che si faceva sempre più forte.
«Metti le dita,» ordinò, voce roca.
Obbedii. La mia bocca era un vuoto avido su di lei, mentre due dita esploravano il suo interno, trovando quel punto G gonfio, pulsante, più prominente che mai. Al crescere dei suoi lamenti, aumentai il ritmo, finché non la sentii irrigidirsi, la schiena inarcarsi in una curva perfetta. Un grido lacerante, poi l’onda – un fiume caldo mi inondò il viso, il mento, il collo. Bevvi avidamente, in estasi per quel sapore dolce, piccante, che mi bruciava la gola come un liquore raro.
Erika si accasciò su di me, il suo sudore mescolato al mio, il respiro ancora affannoso. Le sue dita mi scostarono i capelli dalla fronte, un gesto tenero che contrastava con la ferocia di pochi minuti prima. Le mie dita tracciarono invisibili linee sulla sua schiena, evitando con cura i confini proibiti. Lei sospirò, soddisfatta, e mi baciò attraverso la benda.
Si strusciò contro il mio torso, nuda, la sua pelle calda che aderiva alla mia. Sentii il suo cuore battere forte, il tremito residuo delle cosce ancora tese.
«Lui…» esitò, poi ridacchiò, un suono strozzato. «Adamo ha un cazzo enorme. Quello che ti aspetti da un porno, capisci?» La voce si fece più bassa, quasi complice. «Ma come tutti quelli così, credeva che bastasse ficcarlo a martellate per farmi venire.» Un sibilo tra i denti. «Mi ha solo spaccata.»
Le mani le cingevo i fianchi, seguendo le curve che conoscevo a memoria, evitando di scivolare troppo in basso. Non dovevo toccare, non dovevo vedere. Ma potevo ascoltare.
«E allora…» continuò, accarezzandomi il petto, «mentre lui mi sfondava, ho pensato a te. A come mi lecchi, a come ascolti quando gemo davvero. Ho capito che dovevo farlo godere e basta.» Un sorriso nella voce. «Gli ho offerto il culo. Lui non ha resistito.»
Mi strinsi a lei, ridendo. «E tu?»
«Io avevo te nei pensieri. Il modo in cui trattieni il fiato quando mi fai godere, come mi stringi i fianchi quando sto per venire…» Si mise a cavalcioni, sfiorandomi l’erezione con il pube.
«Sei stato bravissimo» mormorò, mentre una mano mi accarezzava i capelli. «Domani ti ricompenso.»
Sorrisi, sfiorandole il fianco. «Cos’hai in mente?»
«Shhh.» Un dito mi chiuse le labbra. Poi lo sostituì con qualcos’altro—il calore morbido della sua pianta del piede che mi sfiorò la bocca, un tocco leggero ma carico di promesse. «Niente domande. Solo obbedienza.»
Risi, ma annuii. Il suo piede si fermò un attimo, premendo appena, prima di scivolare via.
«Dormi» sussurrò, sistemandosi al mio fianco. «Sogno già di come ti userò domani.»
E mentre il buio della benda diventava più profondo, sentii il suo respiro farsi regolare contro la mia spalla. Avevamo tutta la notte per riposare—e tutto il domani per giocare.
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