L'estate della mia tesi
di
Aghusk
genere
etero
Quello che segue dovrebbe essere, nelle intenzioni dell'autore, il primo di una serie di racconti. Le sequenze più interessanti occupano meno della metà dello spazio, affinché facciano parte di una storia, seppur ridotta al minimo indispensabile.
I fatti raccontati sono frutto di pura invenzione, anche se le ambientazioni sono luoghi esistenti e molto noti. Anche i personaggi e i loro nomi sono del tutto immaginari e ogni eventuale riferimento a persone o fatti reali è puramente casuale.
Mi scuso in anticipo per qualunque errore o refuso sia sfuggito alla mia revisione.
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11 luglio 2012, v. Festa del perdono
- Alla sessione! –
Dario alzò il bicchiere di Aperol Spritz con un gran sorriso, invitandoci a fare altrettanto. Brindammo entusiasticamente tutti e tre.
Alle cinque di un pomeriggio della seconda settimana di luglio il calore saliva dall’asfalto dei marciapiedi facendo ondeggiare l’aria; eravamo tutti appiccicaticci di sudore e il ghiaccio nei bicchieri si scioglieva velocemente, annacquando lo spritz.
Dopo il brindisi Davide e Dario avevano iniziato a rollare l’ennesima sigaretta chiacchierando allegramente. Io, invece, sentivo salire il solito senso di vuoto e nausea che mi assaliva dopo un esame. Proprio non riuscivo a sentirmi felice o sollevato, tantomeno orgoglioso. A prescindere dal voto, ogni volta la fine di un esame portava con sé tristi considerazioni sull’inutilità delle cose e sull’insensatezza dell’esistenza; sprofondavo così per un paio di giorni in uno stato di latente depressione e inerzia.
- Quest’estate non mi scappate come l’anno scorso: Basilicata coast to coast, non si discute! Mio padre stavolta ci presta il camper. – esclamò di nuovo Dario, che tra di noi era quello propositivo.
- Non se ne parla. Io devo finire la tesi – risposi.
Dario mi guardò di traverso e ribatté, ma io resistetti sulle mie posizioni. La tesi mi preoccupava non poco; se fosse stato per il mio relatore, il prof. Momiseno, non mi sarei mai laureato. Era un settantenne grasso, irascibile e alcolizzato che aveva perso da tempo il talento e l’entusiasmo che in passato gli avevano garantito un’ottima reputazione. Non leggeva mai il materiale che gli si inviava, non si presentava agli appuntamenti e quando c’era spesso sproloquiava in deliri insensati con l’alito che puzzava di grappa da due soldi. Spesso scambiava uno studente con l’altro ed era capace di esplodere rabbiosamente per una frase mal compresa.
Se non fosse stato per la sua assistente, che si era proposta come correlatrice e di fatto faceva il lavoro al posto suo, sarei scappato a gambe levate. Dio l’abbia in gloria, sempre.
Il discorso virò inevitabilmente sulle vacanze e la discussione si fece lunga e accesa.
Due spritz e una birra più tardi guardai il telefono. Le sei e mezza.
Cazzo.
- Ragazzi, io devo andare. Ci sentiamo domani. – dissi, sollevando da terra lo zaino. Saldai la mia parte del conto e li salutai. Avevo raccontato ai miei amici una balla sul compleanno di un mio cugino milanese per giustificare il fatto che non sarei tornato a Bergamo in treno con loro.
Corsi per trecento metri in direzione Duomo per prendere la metropolitana, corsi attraverso il tornello passando il biglietto al volo e giù per le scale mobili. Giusto in tempo per salire sulla carrozza prima che si chiudessero le porte.
Solo quando fui seduto sul treno, sicuro di non essere in ritardo, mi rilassai e mi resi conto che il senso di nausea e vuoto era sparito per lasciare spazio a una crescente eccitazione.
Cambiai e infine scesi a Lambrate. Camminai velocemente per qualche minuto seguendo la sopraelevata dei binari che portavano i treni fuori città e mi fermai davanti a un vecchio stabile di ringhiera molto alto; il portone che dava sulla corte interna era aperto. Salii le scale fino al ballatoio dell’ultimo piano e lo percorsi fino in fondo. Suonai il campanello di una porta la cui vernice verde scuro era scrostata in molti punti.
Mi aprì una donna alta e longilinea. Indossava un paio di shorts di jeans, una camicetta bianca e un paio di occhiali tondi piuttosto grandi; i capelli corvini erano raccolti sul capo in uno chignon disordinato.
Sorrise, mi mise le braccia intorno al collo e premette le sue labbra contro le mie. Fu un bacio lungo e vorace. Portò una mano sulla mia nuca mentre io la stringevo sui fianchi e succhiavo le sue labbra. Pian piano feci scivolare le mie dita sotto la camicetta e iniziai ad accarezzarle la pelle nuda della schiena con l’intento di spingerla dentro e spogliarla.
Il cazzo mi pulsava già ferocemente nei pantaloni. Volevo scoparla subito, contro il muro giallo alle sue spalle.
Lei, però, si staccò da me e, guardandomi teneramente con i suoi occhi scuri, mi salutò:
- Ciao tesoro. Puzzi parecchio, sai? Perché non entri e ti fai una doccia? - .
Deluso e imbarazzato, trotterellai dietro di lei dentro l’appartamento. C’era una sola stanza, che comprendeva un piccolo corridoio, la cucina e un salotto-tinello stipato di libri e carte che si assiepavano nelle librerie, sul tavolo e persino sul pavimento; alcuni vestiti giacevano abbandonati sul divanetto e sugli schienali delle sedie. Un’unica finestra, affacciata sul ballatoio, illuminava il locale.
Sopra il bagno e un’ampia cabina armadio era stato ricavato, probabilmente da una vecchia soffitta, un soppalco, dove sapevo esserci un letto matrimoniale e altri libri e altri vestiti.
Le mie speranze che l'invito a farmi una doccia prevedesse anche la sua presenza furono frustrate quando la vidi appollaiarsi come un gargoyle su una delle seggiole e mettersi a battere sulla tastiera del portatile; dovevo essere arrivato in un momento delicato del suo lavoro e sapevo per esperienza che era meglio non cercare di interromperla. Così entrai in bagno e mi spogliai da solo.
Ci frequentavamo da due mesi, ma l’avevo conosciuta all’inizio del secondo anno, durante il corso di storia romana di Momiseno, di cui era l’assistente; all’epoca io avevo vent’anni e lei trentacinque. Didatticamente era stata l'insegnante più coinvolgente e carismatica che avessi avuto fino ad allora, ma era anche una donna alta e magra, dai capelli corvini segnati da qualche filo grigio e gli occhi stretti da orientale. Mi attraevano il suo modo di parlare e i suoi gesti a volte inconsapevolmente maliziosi.
Una volta, mentre ci faceva lezione, mi accorsi che non indossava il reggiseno sotto la maglietta ed ebbi un’erezione così evidente e incontrollabile che preferii rimanere seduto al mio banco anche durante la pausa, fingendo di sistemare gli appunti.
All’esame mi aveva dato il massimo del punteggio e si era complimentata. Dopo quella volta, nei successivi tre anni, ci eravamo incrociati raramente in biblioteca o in mensa e avevo sostenuto con lei altri due esami, sempre con grande, reciproca soddisfazione. Anzi, l’ultima volta aveva persino interceduto per me col terribile Momiseno perché mi concedesse la lode. Ormai sapeva chi ero e questo, oltre al fatto che sembrava avere stima di me, mi esaltava e mi riempiva d’orgoglio.
Avevo sperato di incontrarla anche durante la tesi triennale, ma quell’anno non la incontrai mai nell’ufficio di Momiseno. Fu lei, molto più tardi, a raccontarmi che in quel periodo era stata spesso alla Sorbona a preparare un ciclo di conferenze per il suo dominus.
L’avevo ritrovata, invece, seduta alla sua scrivania in quello stesso ufficio a febbraio, quando ci ero entrato nuovamente per chiedere la tesi magistrale.
Si ricordava chi fossi, mi aveva in simpatia e aveva avuto pietà di me. Iniziai a portarle spesso i miei capitoli; il mio lavoro le piaceva molto e le sue indicazioni mi stavano permettendo di acquisire un metodo di ricerca che nessuno, in quattro anni di università, si era mai preso la briga di insegnarmi.
Un paio di volte ci fermammo a mangiare insieme e una sera uscimmo a bere una cosa in un bar. Fu allora che ci baciammo per la prima volta.
Mi insaponavo i capelli a occhi chiusi, quando sentii le sue mani abbracciarmi da dietro; non l’avevo sentita entrare in doccia. Il suo corpo era appiccicato alla mia schiena, i suoi capezzoli mi premevano sulla pelle, le sue mani mi accarezzavano il petto e la sua bocca mi mordicchiava il collo. L’acqua era calda, ma avevo i brividi. Mi afferrò l’uccello e iniziò una sega lenta e decisa, mentre continuava a baciarmi sul collo. Mi sentivo completamente in suo potere. – Ti piace, vero? – mi sussurrò all’orecchio. Io non riuscii a rispondere. Il movimento sul mio cazzo diventò sempre più veloce e quando le dita dell’altra mano iniziarono a giocare con il mio capezzolo destro, sapevo che non avrei resistito a lungo. – Bea… - rantolai. E lei strinse il capezzolo e accelerò la mano.
Venni schizzando sul vetro della doccia e le gambe quasi mi cedettero. Beatrice mi abbracciava teneramente ma mi voltai per baciarla. Strinsi il mio corpo al suo e lentamente portai la mia mano tra le sue cosce. Ripetutamente accarezzai con le dita le sue labbra polpose e lisce, mentre mi staccavo dalla sua bocca per scendere su un seno e iniziare a leccarlo. Bea era magra e aveva il seno di una ragazzina, ma i suoi grossi capezzoli scuri erano sempre ritti e duri come pioli di legno. Quando iniziai a succhiarne uno, i suoi sospiri divennero piccoli gemiti e il suo bacino iniziò a muoversi per cercare le mie dita. Allora chiusi a tentoni l’acqua e presi a stimolarla con più decisione più in profondità. Quando la sentii viscida portai due polpastrelli sul suo clitoride e iniziai a sgrillettarla con energia. Lei mise la sua mano sulla mia e la strinse con forza perché non la spostassi; gemeva rumorosamente. Con l’altra mano mi premeva la faccia contro il seno togliendomi quasi il respiro. Quando la sentii pronta, mi liberai della sua stretta e, come mi aveva insegnato, le infilai dentro indice e medio premendo verso l’alto mentre il pollice continuava a masturbarle il clitoride. Mandò un urletto strozzato e ci vollero pochi secondi per farla venire violentemente.
Dopo l’orgasmo restammo abbracciati per un po’, scambiandoci baci teneri e pigri.
Ci spostammo sul letto e restammo lì, nudi, a farci le coccole, bere birra e a chiacchierare. Mi alzai e mi infilai pantaloni e maglietta solo per scendere a ritirare le pizze. Anche quelle le mangiammo sul letto.
Mentre guardavamo un film sul portatile le accarezzavo le chiappe e un poco alla volta spingevo la mano sempre più vicino alla sua fessura invitante. Mi piaceva toccarla, mi piaceva la sua carne liscia e morbida, mi piaceva vederla sorridere di piacere.
A un certo punto, quando ormai la stavo masturbando senza pudore, si girò e mi fece sdraiare. Si mise sopra di me e guidò il mio uccello nella sua vagina, che mi avvolse calda e accogliente.
Ho fatto sesso anale qualche volta e ho ricevuto moltissimi pompini, ma nulla è paragonabile a una vagina: è semplicemente il posto più bello del mondo in cui un cazzo possa trovarsi.
La cavalcata iniziò lenta. Le misi due dita in bocca per riempirle bene di saliva, facendo il giro delle sue labbra coi polpastrelli; poi le infilai tra i nostri inguini in modo che fossero a contatto con la sua piccola lumachina. Il suo clitoride si gonfiò ancora di più e lei aumentò il ritmo. I suoi occhi erano chiusi, mentre il bacino si muoveva sempre più rapido. Anche il mio piacere aumentava, ma sapevo che difficilmente avrei raggiunto l’orgasmo in quella posizione. Decisi di muovere le dita per farla venire più rapidamente e i suoi movimenti divennero spasmi convulsi. Quando sembrava non farcela più e le spinte erano diventate violente, proruppe in un urlo liberatorio e si lasciò cadere sul mio petto, sconvolta, i capelli incollati al viso dal sudore.
Restammo uno dentro l’altra qualche minuto; io le baciavo la testa e le spalle e le accarezzavo la schiena mentre sentivo i suoi capezzoli premere piacevolmente sul mio petto.
Riavutasi, Bea si alzò sulle braccia e, baciandomi il peto e la pancia scese verso il mio inguine. Mi baciò tutto intorno al pube e sull’interno coscia. Baciò i miei testicoli uno per volta, provocandomi piccoli brividi lungo la schiena, poi leccò l’asta eretta dal basso verso l’alto e arrivata in punta giocherellò con la lingua sulla fessura, infine circondò con le labbra il glande turgido e iniziò un lento pompino.
Non capivo più nulla; se avesse accompagnato il pompino con una mano la mia fine sarebbe stata vicina, ma io volevo scoparla, perciò la fermai e a feci sdraiare a pancia in giù.
La penetrai con foga. La sua vagina era calda e meravigliosamente stretta. La scopai voracemente. A ogni affondo potevo sentire il suo culo sodo premere contro il mio bacino. Quasi non sentivo i suoi gemiti. Non durai a lungo, ma l’orgasmo schioccò come un colpo di frusta dalla base della schiena e una scarica elettrica raggiunse la punta del mio cazzo e la base della mia testa.
Mentre galleggiavo in un brodo di ormoni, sdraiato sulla sua schiena, avrei voluto dirle 'ti amo', ma sapevo che quelle due parole avrebbero potuto interrompere il bellissimo sogno che stavo vivendo e le tenni strette tra i denti.
I fatti raccontati sono frutto di pura invenzione, anche se le ambientazioni sono luoghi esistenti e molto noti. Anche i personaggi e i loro nomi sono del tutto immaginari e ogni eventuale riferimento a persone o fatti reali è puramente casuale.
Mi scuso in anticipo per qualunque errore o refuso sia sfuggito alla mia revisione.
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11 luglio 2012, v. Festa del perdono
- Alla sessione! –
Dario alzò il bicchiere di Aperol Spritz con un gran sorriso, invitandoci a fare altrettanto. Brindammo entusiasticamente tutti e tre.
Alle cinque di un pomeriggio della seconda settimana di luglio il calore saliva dall’asfalto dei marciapiedi facendo ondeggiare l’aria; eravamo tutti appiccicaticci di sudore e il ghiaccio nei bicchieri si scioglieva velocemente, annacquando lo spritz.
Dopo il brindisi Davide e Dario avevano iniziato a rollare l’ennesima sigaretta chiacchierando allegramente. Io, invece, sentivo salire il solito senso di vuoto e nausea che mi assaliva dopo un esame. Proprio non riuscivo a sentirmi felice o sollevato, tantomeno orgoglioso. A prescindere dal voto, ogni volta la fine di un esame portava con sé tristi considerazioni sull’inutilità delle cose e sull’insensatezza dell’esistenza; sprofondavo così per un paio di giorni in uno stato di latente depressione e inerzia.
- Quest’estate non mi scappate come l’anno scorso: Basilicata coast to coast, non si discute! Mio padre stavolta ci presta il camper. – esclamò di nuovo Dario, che tra di noi era quello propositivo.
- Non se ne parla. Io devo finire la tesi – risposi.
Dario mi guardò di traverso e ribatté, ma io resistetti sulle mie posizioni. La tesi mi preoccupava non poco; se fosse stato per il mio relatore, il prof. Momiseno, non mi sarei mai laureato. Era un settantenne grasso, irascibile e alcolizzato che aveva perso da tempo il talento e l’entusiasmo che in passato gli avevano garantito un’ottima reputazione. Non leggeva mai il materiale che gli si inviava, non si presentava agli appuntamenti e quando c’era spesso sproloquiava in deliri insensati con l’alito che puzzava di grappa da due soldi. Spesso scambiava uno studente con l’altro ed era capace di esplodere rabbiosamente per una frase mal compresa.
Se non fosse stato per la sua assistente, che si era proposta come correlatrice e di fatto faceva il lavoro al posto suo, sarei scappato a gambe levate. Dio l’abbia in gloria, sempre.
Il discorso virò inevitabilmente sulle vacanze e la discussione si fece lunga e accesa.
Due spritz e una birra più tardi guardai il telefono. Le sei e mezza.
Cazzo.
- Ragazzi, io devo andare. Ci sentiamo domani. – dissi, sollevando da terra lo zaino. Saldai la mia parte del conto e li salutai. Avevo raccontato ai miei amici una balla sul compleanno di un mio cugino milanese per giustificare il fatto che non sarei tornato a Bergamo in treno con loro.
Corsi per trecento metri in direzione Duomo per prendere la metropolitana, corsi attraverso il tornello passando il biglietto al volo e giù per le scale mobili. Giusto in tempo per salire sulla carrozza prima che si chiudessero le porte.
Solo quando fui seduto sul treno, sicuro di non essere in ritardo, mi rilassai e mi resi conto che il senso di nausea e vuoto era sparito per lasciare spazio a una crescente eccitazione.
Cambiai e infine scesi a Lambrate. Camminai velocemente per qualche minuto seguendo la sopraelevata dei binari che portavano i treni fuori città e mi fermai davanti a un vecchio stabile di ringhiera molto alto; il portone che dava sulla corte interna era aperto. Salii le scale fino al ballatoio dell’ultimo piano e lo percorsi fino in fondo. Suonai il campanello di una porta la cui vernice verde scuro era scrostata in molti punti.
Mi aprì una donna alta e longilinea. Indossava un paio di shorts di jeans, una camicetta bianca e un paio di occhiali tondi piuttosto grandi; i capelli corvini erano raccolti sul capo in uno chignon disordinato.
Sorrise, mi mise le braccia intorno al collo e premette le sue labbra contro le mie. Fu un bacio lungo e vorace. Portò una mano sulla mia nuca mentre io la stringevo sui fianchi e succhiavo le sue labbra. Pian piano feci scivolare le mie dita sotto la camicetta e iniziai ad accarezzarle la pelle nuda della schiena con l’intento di spingerla dentro e spogliarla.
Il cazzo mi pulsava già ferocemente nei pantaloni. Volevo scoparla subito, contro il muro giallo alle sue spalle.
Lei, però, si staccò da me e, guardandomi teneramente con i suoi occhi scuri, mi salutò:
- Ciao tesoro. Puzzi parecchio, sai? Perché non entri e ti fai una doccia? - .
Deluso e imbarazzato, trotterellai dietro di lei dentro l’appartamento. C’era una sola stanza, che comprendeva un piccolo corridoio, la cucina e un salotto-tinello stipato di libri e carte che si assiepavano nelle librerie, sul tavolo e persino sul pavimento; alcuni vestiti giacevano abbandonati sul divanetto e sugli schienali delle sedie. Un’unica finestra, affacciata sul ballatoio, illuminava il locale.
Sopra il bagno e un’ampia cabina armadio era stato ricavato, probabilmente da una vecchia soffitta, un soppalco, dove sapevo esserci un letto matrimoniale e altri libri e altri vestiti.
Le mie speranze che l'invito a farmi una doccia prevedesse anche la sua presenza furono frustrate quando la vidi appollaiarsi come un gargoyle su una delle seggiole e mettersi a battere sulla tastiera del portatile; dovevo essere arrivato in un momento delicato del suo lavoro e sapevo per esperienza che era meglio non cercare di interromperla. Così entrai in bagno e mi spogliai da solo.
Ci frequentavamo da due mesi, ma l’avevo conosciuta all’inizio del secondo anno, durante il corso di storia romana di Momiseno, di cui era l’assistente; all’epoca io avevo vent’anni e lei trentacinque. Didatticamente era stata l'insegnante più coinvolgente e carismatica che avessi avuto fino ad allora, ma era anche una donna alta e magra, dai capelli corvini segnati da qualche filo grigio e gli occhi stretti da orientale. Mi attraevano il suo modo di parlare e i suoi gesti a volte inconsapevolmente maliziosi.
Una volta, mentre ci faceva lezione, mi accorsi che non indossava il reggiseno sotto la maglietta ed ebbi un’erezione così evidente e incontrollabile che preferii rimanere seduto al mio banco anche durante la pausa, fingendo di sistemare gli appunti.
All’esame mi aveva dato il massimo del punteggio e si era complimentata. Dopo quella volta, nei successivi tre anni, ci eravamo incrociati raramente in biblioteca o in mensa e avevo sostenuto con lei altri due esami, sempre con grande, reciproca soddisfazione. Anzi, l’ultima volta aveva persino interceduto per me col terribile Momiseno perché mi concedesse la lode. Ormai sapeva chi ero e questo, oltre al fatto che sembrava avere stima di me, mi esaltava e mi riempiva d’orgoglio.
Avevo sperato di incontrarla anche durante la tesi triennale, ma quell’anno non la incontrai mai nell’ufficio di Momiseno. Fu lei, molto più tardi, a raccontarmi che in quel periodo era stata spesso alla Sorbona a preparare un ciclo di conferenze per il suo dominus.
L’avevo ritrovata, invece, seduta alla sua scrivania in quello stesso ufficio a febbraio, quando ci ero entrato nuovamente per chiedere la tesi magistrale.
Si ricordava chi fossi, mi aveva in simpatia e aveva avuto pietà di me. Iniziai a portarle spesso i miei capitoli; il mio lavoro le piaceva molto e le sue indicazioni mi stavano permettendo di acquisire un metodo di ricerca che nessuno, in quattro anni di università, si era mai preso la briga di insegnarmi.
Un paio di volte ci fermammo a mangiare insieme e una sera uscimmo a bere una cosa in un bar. Fu allora che ci baciammo per la prima volta.
Mi insaponavo i capelli a occhi chiusi, quando sentii le sue mani abbracciarmi da dietro; non l’avevo sentita entrare in doccia. Il suo corpo era appiccicato alla mia schiena, i suoi capezzoli mi premevano sulla pelle, le sue mani mi accarezzavano il petto e la sua bocca mi mordicchiava il collo. L’acqua era calda, ma avevo i brividi. Mi afferrò l’uccello e iniziò una sega lenta e decisa, mentre continuava a baciarmi sul collo. Mi sentivo completamente in suo potere. – Ti piace, vero? – mi sussurrò all’orecchio. Io non riuscii a rispondere. Il movimento sul mio cazzo diventò sempre più veloce e quando le dita dell’altra mano iniziarono a giocare con il mio capezzolo destro, sapevo che non avrei resistito a lungo. – Bea… - rantolai. E lei strinse il capezzolo e accelerò la mano.
Venni schizzando sul vetro della doccia e le gambe quasi mi cedettero. Beatrice mi abbracciava teneramente ma mi voltai per baciarla. Strinsi il mio corpo al suo e lentamente portai la mia mano tra le sue cosce. Ripetutamente accarezzai con le dita le sue labbra polpose e lisce, mentre mi staccavo dalla sua bocca per scendere su un seno e iniziare a leccarlo. Bea era magra e aveva il seno di una ragazzina, ma i suoi grossi capezzoli scuri erano sempre ritti e duri come pioli di legno. Quando iniziai a succhiarne uno, i suoi sospiri divennero piccoli gemiti e il suo bacino iniziò a muoversi per cercare le mie dita. Allora chiusi a tentoni l’acqua e presi a stimolarla con più decisione più in profondità. Quando la sentii viscida portai due polpastrelli sul suo clitoride e iniziai a sgrillettarla con energia. Lei mise la sua mano sulla mia e la strinse con forza perché non la spostassi; gemeva rumorosamente. Con l’altra mano mi premeva la faccia contro il seno togliendomi quasi il respiro. Quando la sentii pronta, mi liberai della sua stretta e, come mi aveva insegnato, le infilai dentro indice e medio premendo verso l’alto mentre il pollice continuava a masturbarle il clitoride. Mandò un urletto strozzato e ci vollero pochi secondi per farla venire violentemente.
Dopo l’orgasmo restammo abbracciati per un po’, scambiandoci baci teneri e pigri.
Ci spostammo sul letto e restammo lì, nudi, a farci le coccole, bere birra e a chiacchierare. Mi alzai e mi infilai pantaloni e maglietta solo per scendere a ritirare le pizze. Anche quelle le mangiammo sul letto.
Mentre guardavamo un film sul portatile le accarezzavo le chiappe e un poco alla volta spingevo la mano sempre più vicino alla sua fessura invitante. Mi piaceva toccarla, mi piaceva la sua carne liscia e morbida, mi piaceva vederla sorridere di piacere.
A un certo punto, quando ormai la stavo masturbando senza pudore, si girò e mi fece sdraiare. Si mise sopra di me e guidò il mio uccello nella sua vagina, che mi avvolse calda e accogliente.
Ho fatto sesso anale qualche volta e ho ricevuto moltissimi pompini, ma nulla è paragonabile a una vagina: è semplicemente il posto più bello del mondo in cui un cazzo possa trovarsi.
La cavalcata iniziò lenta. Le misi due dita in bocca per riempirle bene di saliva, facendo il giro delle sue labbra coi polpastrelli; poi le infilai tra i nostri inguini in modo che fossero a contatto con la sua piccola lumachina. Il suo clitoride si gonfiò ancora di più e lei aumentò il ritmo. I suoi occhi erano chiusi, mentre il bacino si muoveva sempre più rapido. Anche il mio piacere aumentava, ma sapevo che difficilmente avrei raggiunto l’orgasmo in quella posizione. Decisi di muovere le dita per farla venire più rapidamente e i suoi movimenti divennero spasmi convulsi. Quando sembrava non farcela più e le spinte erano diventate violente, proruppe in un urlo liberatorio e si lasciò cadere sul mio petto, sconvolta, i capelli incollati al viso dal sudore.
Restammo uno dentro l’altra qualche minuto; io le baciavo la testa e le spalle e le accarezzavo la schiena mentre sentivo i suoi capezzoli premere piacevolmente sul mio petto.
Riavutasi, Bea si alzò sulle braccia e, baciandomi il peto e la pancia scese verso il mio inguine. Mi baciò tutto intorno al pube e sull’interno coscia. Baciò i miei testicoli uno per volta, provocandomi piccoli brividi lungo la schiena, poi leccò l’asta eretta dal basso verso l’alto e arrivata in punta giocherellò con la lingua sulla fessura, infine circondò con le labbra il glande turgido e iniziò un lento pompino.
Non capivo più nulla; se avesse accompagnato il pompino con una mano la mia fine sarebbe stata vicina, ma io volevo scoparla, perciò la fermai e a feci sdraiare a pancia in giù.
La penetrai con foga. La sua vagina era calda e meravigliosamente stretta. La scopai voracemente. A ogni affondo potevo sentire il suo culo sodo premere contro il mio bacino. Quasi non sentivo i suoi gemiti. Non durai a lungo, ma l’orgasmo schioccò come un colpo di frusta dalla base della schiena e una scarica elettrica raggiunse la punta del mio cazzo e la base della mia testa.
Mentre galleggiavo in un brodo di ormoni, sdraiato sulla sua schiena, avrei voluto dirle 'ti amo', ma sapevo che quelle due parole avrebbero potuto interrompere il bellissimo sogno che stavo vivendo e le tenni strette tra i denti.
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6.2
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