Il pensionato è la sua domestica
di
Il pensionato
genere
etero
Il bacio si era fatto feroce. Marta lo stringeva con le cosce, lo guidava, lo accendeva con la bocca e con le mani, ma dentro al vecchio pensionato qualcosa si era incrinato. Un lampo di lucidità. Una lama gelida.
Settant’anni. Un cuore che aveva visto battaglie, ma anche medici e farmaci. Una virilità che, più spesso di quanto volesse ammettere, ormai dormiva.
E ora lei — Marta — con quel corpo caldo addosso, pronta, ansiosa, impaziente.
Si irrigidì. Non di desiderio, ma di terrore.
E se non fosse in grado?
E se lì, nel momento in cui tutto diventa carne, restasse… vuoto?
Nessuna erezione. Nessuna potenza. Solo vergogna. Solo il corpo che non segue più la mente.
Lei se ne accorse subito. Si staccò appena, senza smettere di guardarlo.
«Che succede?»
Lui abbassò gli occhi. Era come se tutta la sicurezza, tutto quel desiderio accumulato, si stesse sgretolando.
«Non posso… o forse non più…»
La voce gli uscì ruvida, impastata. «Non sono più quello che ero.»
Marta non sorrise. Né si ritirò.
Restò lì, davanti a lui, e lo fissò con uno sguardo che non aveva niente di compassionevole — ma tutto di affamato e concreto.
«Non ho bisogno di quello che eri, Claudio. Io voglio quello che sei. Qui. Ora.»
Gli prese la mano, con dolcezza feroce, e se la portò sul proprio corpo, lasciandoglielo sentire pieno, caldo, vivo.
«Se pensi che sia tutto lì sotto, allora non hai capito niente. Ma io ti voglio lo stesso. Anche se non alzi più niente. Perché tu mi fai venire voglia con lo sguardo, con le mani, con quella testa lurida che so che hai.»
Fece una pausa. «E poi, anche se non alzi niente… io so come piegarmi lo stesso.»
Marta non si mosse di un millimetro. Rimase lì, stretta a lui, il corpo vivo contro il suo, mentre le dita di Rinaldi tremavano leggermente, ancora posate su quella curva piena che lei gli aveva offerto con naturalezza, come si offre acqua a un assetato.
«Tu non mi deludi nemmeno adesso», sussurrò. «Anzi, così mi piaci ancora di più. Perché sei vero.»
Gli prese il volto tra le mani e lo guardò fisso. «Gli uomini che si vergognano della loro carne mi eccitano quasi più di quelli che si vantano della loro forza. Perché con loro posso fare tutto. Posso dominare, posso guidare, posso farli impazzire. Posso trasformarli.»
Claudio deglutì. C’era qualcosa di nuovo nei suoi occhi: non la vergogna di prima, ma una resa dolce. Come se finalmente potesse lasciarsi andare, senza il peso di dover dimostrare nulla.
Leilo spinse piano contro la fiancata della DS3, con le mani posate sul suo petto, decise ma senza brutalità. «Adesso stai fermo», ordinò, e il tono non ammetteva repliche.
Con lentezza si abbassò, ma non per offrirgli quel gesto che l’orgoglio maschile brama. No. Le sue mani cominciarono a esplorarlo davvero: la pelle, le braccia, la pancia, il collo, come a cercare punti di piacere dimenticati. Ogni tocco era un comando. Ogni carezza, una prova che il desiderio non si misura solo in erezioni, ma in tremiti, sospiri, occhi socchiusi.
«Hai idea di quanta fame puoi accendere anche così?»
Le sue labbra, adesso, sfioravano la pelle sotto il colletto. «Di quanto puoi farmi godere solo tenendomi ferma, respirando forte, guardandomi come mi guardi tu?»
Le mani di lei si guidarono da sole: si alzarono il vestito, con naturalezza, senza ostentazione. Una gamba salì sopra la sua coscia, nuda e calda, stringendolo in un abbraccio che non chiedeva il suo corpo… ma lo accendeva comunque.
«Non mi serve il tuo sesso, Claudio Mi basta la tua resa.»
E allora lo baciò di nuovo. Lunga, lenta, con la lingua che esplorava e dominava, mentre il suo bacino si muoveva con lentezza, creando un ritmo che era tutto suo.
Era lei a condurre. Era lei a usare il corpo dell’uomo come leva per la propria voglia.
E Rinaldi, per la prima volta da anni, si sentì utile, virile — pur senza erezione.
Sentì di dare piacere. Sentì di essere ancora un uomo.I
Lei lo teneva stretto, le mani sulle sue spalle, il respiro che si faceva più corto, più caldo, più vivo.
Il suo corpo muoveva il ritmo da sola, fregandosi piano su di lui, usando l’attrito della stoffa, la solidità della sua coscia, il calore del petto come strumenti.
Non serviva altro.
«Così… sì… resta fermo», mormorava con la bocca sulla sua guancia.
«Lasciami venire con te addosso… sentimi. Sentimi mentre lo faccio…»
Lui non disse una parola. Era sopraffatto. Dalle sensazioni, dal fiato che gli mancava, dal sudore che scendeva lungo la schiena, dal calore vivo di quella donna che si muoveva come se stesse domando un cavallo selvaggio. Ma era lei, adesso, a galoppare verso il proprio piacere.
E quando lei lo raggiunse — in un gemito strozzato, sordo, più simile a un grido trattenuto tra i denti — non c’era nulla di volgare in quel momento. Era carne viva. Era vita vera. Era potere femminile che non chiedeva permesso.
E lui, col fiato corto e le mani strette ancora ai fianchi di lei, capì che stava partecipando. Anche senza “funzionare”.
Partecipava al piacere. Era stato parte dell’atto.
E questo, per lui, valeva più di qualsiasi prestazione.
Il silenzio che seguì fu spesso, quasi liquido. Solo il ronzio del neon sopra la DS3 e il loro respiro pesante rompevano l’aria. Marta si staccò piano, tirò giù la gonna con un gesto elegante, come se niente fosse. Ma i suoi occhi erano caldi.
«Non dire niente», disse lei, prima che lui potesse anche solo provarci.
«Non serve spiegare, non serve scusarsi. È successo. E andava fatto.»
Claudio abbassò lo sguardo, quasi timoroso. «Non ho saputo—»
«Hai saputo tutto, invece. Hai saputo stare. Hai saputo tenermi. Hai saputo non scappare. Hai saputo… esserci.»
Lei gli mise una mano sulla guancia. «E se pensi che io mi sia accontentata, ti sbagli. Non mi sono accontentata. Mi sono presa esattamente quello che volevo.»
Fece un passo indietro, prese la borsa, poi si voltò di nuovo, con un mezzo sorriso che aveva in sé qualcosa di tenero e implacabile allo stesso tempo.
«La prossima volta, magari, sarai tu a guidare. Ma anche se non succede… non smettere di guardarmi come mi hai guardata oggi.»
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