La donna che non sapeva amare
di
Paolo Deghenghi
genere
prime esperienze
Ora che era rimasta sola aveva tutta la vita davanti a sé e un’immensa fortuna da sperperare.
Alla sua morte non aveva speso una lacrima. Anche far finta era stato difficile. Gli fu data in sposa appena compiuti i diciotto. Solo dopo aveva scoperto che era stata venduta. I suoi genitori avevano stabilito un prezzo e questo era stato accettato. Venduta, e basta. Ma le avevano concesso di finire gli studi, lasciata libera di iscriversi ad un corso di laurea così per distrarsi. Dentro la bara riposava a braccia conserte nel suo miglior tight, tremila euro di sartoria abbandonati a marcire con lui. Sembrava davvero solo addormentato. I lineamenti del volto possedevano la rilassatezza caratteristica di chi non ha mai fatto niente nella vita. Sarebbe stato così anche per lei? Inutilmente giovane per sempre?
I vecchi di lui l’avevano comprata per assicurare al figlio una parvenza di rispettabilità. Era omosessuale, lei una ragazza bellissima, cinematografica. Nell'ambiente di elezione in cui pascolava non era concesso il beneficio del coming out – doveva rimanere un segreto da nascondere. Come se fosse un crimine. Col suo splendore adolescenziale ambivano mascherare il sudiciume nella vita di lui. Lo aveva scoperto troppo tardi che era gay, quando risultava chiaro che tra loro non poteva che sussistere la mera facciata di un rapporto mai consumato. E nemmeno mai addolcito da una parvenza di affetto, di affabilità, di affabulazione. Non si era neppure prodigato di farle credere in qualcosa anche se non avrebbe potuto esserci niente di vero. E per questo aveva imparato ad odiarlo.
Ma temeva i vecchi più del proprio odio. Lo avevano avuto tardi, quel figlio che li imbarazzava. Il suocero la fissava di nascosto sotto le folte sopracciglia spruzzate di grigio. Non aveva mai smesso di considerarla un’estranea. Chissà se non nascondesse un pizzico di rimorso, di annacquata pietà dietro la patina gialla, da stampa antica, degli occhietti cattivi. Chiunque si fosse legato anche in modo platonico al ragazzo non meritava che la medesima moneta di indifferenza, e c’era da esserne grati perché più di una volta li aveva sospettati di azioni peggiori. Quarant’anni passavano tra loro e il figlio, dieci tra lei e il marito. E mentre il tempo passava la forbice degli interessi anziché restringersi si era così allargata da rompersi. La dissolutezza era diventata penale: pedofilia, tossicodipendenza, soldi buttati in equivoci giri di affari. A voler stare alla larga più facile rinchiudersi in un convento. Poi i vecchi erano morti, uno dietro l’altro come di crepacuore quasi che ci fosse del vero amore tra loro. Ma il suocero lo aveva sempre visto interessato a non altro che al mercato azionario – rendeva meglio quello che qualsiasi intrapresa, a sapersi destreggiare dentro la giungla. La suocera era una scopa vestita di pelle vizza, il naso sempre all’insù, come se sotto una certa altitudine il lezzo si facesse insopportabile.
In quel dominio perpetuo di finzione e inganni finse anche lei un lutto profondo, tramò un lungo inganno contro quelli che l’avevano asservita come una cosa usa e getta. Vestiva di nero e di viola. Rimuginava su quella prima notte di nozze in cui il suo cuoricino di cenerentola batteva all’impazzata aspettando il principe azzurro mentre le prime inutili zolle calavano sul feretro. E il suo principe bello lo era davvero, ma di una bellezza già sfiorita, decrepita e assente, come quella di un sarcofago egizio.
Vestita di nero e di viola, un cappello a tesa larga con un nastro di seta, aspettò la sera e il tramonto per insinuarsi nei vicoli dell’angiporto. Sembrava una perla inghiottita dai sargassi di una mostruosa isola equatoriale. I peggiori tipi umani, prima ancora che le etnie da cui provenivano, l’attrassero e la spaventarono. In un lounge sorseggiò un cocktail, spiando intorno con occhi spaventati. Vide mescolarsi gente del suo ceto a ceffi loschi come in un serial: forse altri mezzi uomini come il defunto marito che sfogavano le perversioni con maschi disposti a vendersi. E ce n'era di tutti i gusti: albini, neri, meticci, orientali, deformi... una Babele di lingue di volti di maschere di espressioni da dare il capogiro.
Sapeva che ai piani di sopra si trovavano le camere. Un albergo annesso secondo le intenzioni, un postribolo nella realtà. Fece cenno ad uno del locale che la fissava e questo sedendole accanto le chiese che cosa. “Cocaina? Ecstasy? Fentanyl?”. Ma lei che aveva memorizzato il gergo rispose “Tenda. Nera”. L’altro non obiettò. C’erano svaghi più dissoluti ma davano più rogne.
La fece condurre di sopra ed entrò in una stanza dove si trovavano un letto, una luce soffusa, oltre una porticina il bagno. Su un lato, la tenda dietro le cui cortine la nascose l’accompagnatore. Il tessuto permetteva di vedere in trasparenza ma non di essere visti. Gli avventori sapevano che qualcuno li avrebbe spiati, ma non chi: l'identità sarebbe rimasta segreta.
Rimase a lungo in attesa e più volte fu sul punto di andare. Udiva gente salire le scale di legno che scricchiolavano sotto il peso dei corpi in calore ma nessuno entrava mai. Le porte che si aprivano erano sempre altre. Finché quei passi non si fermarono, l’uscio si schiuse e la prostituta si accomodò col cliente.
Il terrore la pietrificò. Non era abituata a stare in mezzo agli altri. Questo privilegio le era stato concesso fino a che non l'avevano data via. Un clima di terrore regnava in quella casa dove aveva condotto i propri giorni come una prigioniera. Qualunque deviazione dalla via prestabilita era immediatamente e severamente sanzionata. Privata del suo passato, di ogni conoscenza, di ogni rapporto che esulasse dalla orribile cerchia del cognome che portava addosso come un marchio infamante, aveva finito progressivamente per smantellare il costrutto emotivo del contatto sociale. Uno sfinimento della costanza, la novità delle conoscenze, il bisogno di evadere, avrebbero potuto condurla a tradire. Anche solo concedersi i vizi più innocui della ricchezza potevano farle aprire il diario segreto e divulgare verità che si intendeva mantenere celate. Così, lei che si chiedeva come si potesse precipitare in mondi di proibizioni anacronistiche, nel contempo restava sospesa sul mistero sconosciuto della sessualità. E dopo aver esplorato sé stessa nei primi mesi di cordoglio spaesato dopo quel “sì” pronunciato a caro prezzo e aver scoperto la noia, si era come ritirata dalla sfera del piacere carnale. Ne aveva fatto per tutti quegli anni inconsapevolmente a meno. Ma ora sapeva che se voleva uscire dal bozzolo – ora che tutti erano morti e che la cella era aperta – per prima cosa aveva bisogno di sapere davvero cosa fosse un uomo.
La professionista era giovane e con accento straniero. Sotto l’abito da sera portava lingerie provocante. I due si buttarono sul materasso. Lei gingillò in bocca il membro dell’uomo e lo rese trionfante. Poi con sguardo allibito fu spettatrice di infiniti modi di legare la carne, di farla scalpitare e palpitare insieme. I due amanti godettero e prima di andare lanciarono un bacio all'ignoto spettatore.
Aveva pagato per tre rappresentazioni. La successiva avvenne tra uomini. Nel partner brutalmente sodomizzato rammentò le fattezze già sbiadite del morto. L’altro aveva in dote un glande mostruoso. Dopo l'esibizione della terza coppia scese tremebonda le scale. Qualcosa dentro di lei la forzava a fuggire senza neppure voltarsi. Ma riconosciuto nella baraonda crescente il piazzista ne rimase attratta e sedotta e si fece largo verso di lui. Bevve un cocktail disgustoso (era astemia), e disse soltanto “Tenda. Rossa”.
Fu portata in un alcova molto particolare. Era un labirinto di tessuti buttati su strutture metalliche. Lei sapeva cosa doveva fare, ma aveva paura di farlo. C’era un’altra che le sorrise dalla bocca rifatta. Era tutta rifatta, e sotto la chirurgia nascondeva un'età geriatrica. Sembrava divertirsi molto e non essere nuova all’esperienza.
Da un taglio praticato a metà spuntò un genitale maschile. Lei si inginocchiò e mise in opera ciò che aveva studiato. Alle prime carezze della masturbazione sbocciò turgido e duro tra le dita. Osservò incantata il meato: sembravano due minuscole labbra. Le baciò. Sopra di lei un suono gutturale manifestò apprezzamento per quel gesto inusuale. Stimolata dal consenso dello sconosciuto accompagnò il movimento delle dita con la bocca. La pelle era morbida e vellutata. La trovava piacevole dentro il palato. L’eiaculazione la sorprese e stordì, perché sebbene conservasse una vaga idea di quello che avrebbe dovuto fare, quel liquido in bocca la nauseò. Ma trattenne i conati e ingoiò.
Aveva prenotato altre due fellatio. Non dovette attendere. Dai fori cominciavano a spuntare impazienti e non c'erano abbastanza bocche. Lei esercitava senza compenso, come un'apprendista. Gli sconosciuti a cui assicurava il divertimento non pagavano lei. Sapeva che molte signore del bel mondo si dilettavano in simili giochi, e ora iniziava a capirne i motivi. Era tutto sordido e obbrobrioso, ma procurava un senso di eccitazione e di sregolatezza. Il secondo fiotto di seme lo sputò, il terzo lo lasciò colare in faccia come le aveva mostrato la compagna di piacere. Che le andò incontro per leccarglielo via, come se fosse stata la più dolce delle leccornie.
Giù alla reception sedette di nuovo insieme al gestore. “Maschera” disse sicura. Sentì la mano dell'uomo salire lungo la coscia. “Potrei farci un pensiero, madame” disse con un tono di voce da baritono, raschiando in gola. “Se ti piace, potremmo fare un pensierino a trasformarti in una delle nostre ragazze”. Arrossì.
Le diedero una maschera da carnevale veneziano. Era comoda e di tessuto tutto arabescato. Lasciava liberi soltanto gli occhi, e poiché era fumé il verde degli occhi avvampava come mare intravisto in mezzo alle ombre di una scogliera.
La fecero entrare in una stanza. Si accorse della tendina nera, e le parve smossa da un corpo che si accomodasse sulla sedia. Dovette attendere. Era già nuda perché non indossava nulla di sexy. Sexy erano il suo corpo e la sua voglia.
Entrò un uomo. Non aveva mentito. Voleva metterla alla prova. “Non dire che non ti avevo avvertita”.
La sperimentò in tutte le posizioni. Alcune le fecero male, altre le trovò sublimi. Le insegnò come cavalcare il cliente davanti e come farlo in modo da offrirgli le rotondità meravigliose e perfette del sedere, della schiena. La deflorò con dolore, e allora scoprì di essersi perduta. Ma ora era anche più libera di cercarsi, stanarsi dietro gli angoli, agguantarsi e indossare quella nuova lei come un vestito appena comprato. La costrinse anche ad un rapporto anale, e anche questo le piacque abbastanza da giungere all’apice. Ebbe multipli orgasmi. Finalmente era lei a riceverli e non soltanto a donarli. Scoprì che ogni parte del corpo esprime sofferenza e piacere. Era madida di sudore, esausta, quando lui la finì un’ultima volta, da dietro. Fissò il suo arnese gigante, ancora in tiro.
“Si comincia praticando il mestiere” le confessò, “poi si scalano i vertici”.
“Ti fai?” gli chiese. Era ancora abbandonata sotto di lui e temeva volesse iniziare un altro rodeo.
“Qualcosina. Serve a mantenere alta l'adrenalina. Ma non ho bisogno di altro. Mi basta che con me ci sia una bella femmina, che stuzzichi la fantasia. In certi weekend ho avuto rapporti con dozzine di donne”.
Una fitta di gelosia la trapassò per un dolorosissimo istante. Lo guardò dritto negli occhi, severa e orgogliosa. “Ed erano come me?”.
Lui meditò la risposta. Somigliava a quell'attore che aveva interpretato la parte del detective in Chi ha incastrato Roger Rabbit, con in più sul fondo della mascella una piccola cicatrice. Solo che lei non era Jessica. “Tu sei come nessun’altra. Sei una principessa. Ecco come ti chiamerai se vorrai tornare: Principessa. Ma petite Princesse. E verrai pagata, se ti interessa arrotondare. Sarai l’attrazione principale. Eserciterai nella suite. Te la rifaccio nuova per te. Chi ti vuole, dovrà pagare il doppio. Il triplo. E tu sarai libera di scegliere: se qualcuno non è di tuo gradimento lo accompagniamo da un’altra o lo sbattiamo fuori. Cosa ne dici, Principessa?”.
“Avrei dovuto iniziare molto prima. Ora è tardi” mormorò, e c’era davvero cordoglio in quella risposta. Aveva scoperto dentro di sé improvvisa e dirompente l’anima di una ninfomane, che era rimasta troppo a lungo chiusa nel cassetto segreto dei sensi.
“Quanti anni hai? E perdonami se non è una domanda da fare ad una madame”.
“Ventotto”.
“Allora non è mai troppo tardi. Cinque, dieci anni di professione ti renderanno benestante, se non ricca. Adesso ti cercano quelli che ne hanno quaranta, poi ti vorranno i ragazzi. La clientela cambia con l’età”.
Non rispose.
“Benissimo. Ma ora finiamo quanto pattuito. Sei in novena. Altri due clienti ti attendono”.
Lei fece una smorfia civettuola. “E non ti dispiace nemmeno un po'?”.
“Sono affari, ragazza. C’è pur sempre la tenda”.
Entrò il penultimo. Sapeva chi era. Lui non diede cenno di averla riconosciuta. Faceva parte dei dandy maniaci con cui si conciava il marito. Quel depravato era appena stato al suo funerale, vestiva ancora il lutto posticcio dell'amicizia venale. Non poteva darle un nome perché lei era sempre in disparte nelle grandi occasioni in cui si presentavano tutti ad augurarsi a vicenda ogni male e la morte dietro ampi sorrisi. Sembrava intimidito dallo charme della ragazza che lo attendeva, profumata come un fiore appena colto dopo le abluzioni a cui l'aveva sottoposta l'amante con grosse mani delicate e premurose. Avrebbe desiderato cacciarlo, ma il contratto di quella nottata non prevedeva rescissioni. “È la prima volta per te? Non ti ho mai vista”.
Lei annuì. Aveva l'obbligo di non parlare con nessuno. Le mostrò un dildo, la invitò ad indossarlo. Per tutto il tempo che durò quello stravagante rapporto fissò con insistenza la tenda. E anche dopo col terzo e suo ultimo cliente, in cui tornò a recitare il ruolo della femmina.
Era l’alba. Era distrutta come dopo un turno in fabbrica o di volontariato il primo giorno. Non aveva mai fatto né una cosa né l’altra, e mai l’avrebbe fatta. Le offrì la colazione. Mantennero a lungo il silenzio. Si sentiva bruciare in mezzo alle cosce. Ora sapeva cos’era il cazzo e cosa significava godere. Poi lui si accese una sigaretta, si fece un tiro e gliela porse. La studiò guardinga. Non aveva mai fumato. Tossì come una scolaretta.
“Per tutto c'è una prima volta” sentenziò il suo uomo infilandole la lingua in gola. Si baciarono per un minuto. Sentì la sua voglia. Anche a lei era tornata. In bocca macerava un impasto di caffè di fumo e di maschio. Poi con gesto gentile le strappò dalle labbra quel che restava e la scagliò in strada, lontano. “Ma di queste, poche. Tienile accese, senza aspirarle. Ti danno un tono, nient'altro”.
Lo vide andar via e quando sparì dentro il bordello – e va bene che erano chiusi – tirò fuori il pacchetto che gli aveva rubato insieme all’accendino e ne accese un’altra. Aspirò fino in fondo ogni singola boccata.
Perché nessuno le avrebbe mai più detto cosa fare.
Guardando quella donna allontanarsi dietro una voluta di fumo, il barista che apre la mattina quando il lounge di fronte sta spegnendo le luci sospira. La gonna lascia scoperte le caviglie, si alza sui polpacci modellati dai tacchi. Ha il portamento di una signora. Probabilmente un giro mattiniero prima di imbarcarsi per qualche crociera. Sa il fatto suo, ragiona. Il primo cliente gli chiede un caffè. Non ce n'è – essere strappato alle proprie fantasie proprio non lo sopporta. Di sicuro una così non la trova là dentro. Peccato, perché per lei una pazzia la farebbe: pagare il doppio, il triplo. E magari salire nella suite.
Se soltanto quello spilorcio di Anton la facesse rimettere a posto…
Alla sua morte non aveva speso una lacrima. Anche far finta era stato difficile. Gli fu data in sposa appena compiuti i diciotto. Solo dopo aveva scoperto che era stata venduta. I suoi genitori avevano stabilito un prezzo e questo era stato accettato. Venduta, e basta. Ma le avevano concesso di finire gli studi, lasciata libera di iscriversi ad un corso di laurea così per distrarsi. Dentro la bara riposava a braccia conserte nel suo miglior tight, tremila euro di sartoria abbandonati a marcire con lui. Sembrava davvero solo addormentato. I lineamenti del volto possedevano la rilassatezza caratteristica di chi non ha mai fatto niente nella vita. Sarebbe stato così anche per lei? Inutilmente giovane per sempre?
I vecchi di lui l’avevano comprata per assicurare al figlio una parvenza di rispettabilità. Era omosessuale, lei una ragazza bellissima, cinematografica. Nell'ambiente di elezione in cui pascolava non era concesso il beneficio del coming out – doveva rimanere un segreto da nascondere. Come se fosse un crimine. Col suo splendore adolescenziale ambivano mascherare il sudiciume nella vita di lui. Lo aveva scoperto troppo tardi che era gay, quando risultava chiaro che tra loro non poteva che sussistere la mera facciata di un rapporto mai consumato. E nemmeno mai addolcito da una parvenza di affetto, di affabilità, di affabulazione. Non si era neppure prodigato di farle credere in qualcosa anche se non avrebbe potuto esserci niente di vero. E per questo aveva imparato ad odiarlo.
Ma temeva i vecchi più del proprio odio. Lo avevano avuto tardi, quel figlio che li imbarazzava. Il suocero la fissava di nascosto sotto le folte sopracciglia spruzzate di grigio. Non aveva mai smesso di considerarla un’estranea. Chissà se non nascondesse un pizzico di rimorso, di annacquata pietà dietro la patina gialla, da stampa antica, degli occhietti cattivi. Chiunque si fosse legato anche in modo platonico al ragazzo non meritava che la medesima moneta di indifferenza, e c’era da esserne grati perché più di una volta li aveva sospettati di azioni peggiori. Quarant’anni passavano tra loro e il figlio, dieci tra lei e il marito. E mentre il tempo passava la forbice degli interessi anziché restringersi si era così allargata da rompersi. La dissolutezza era diventata penale: pedofilia, tossicodipendenza, soldi buttati in equivoci giri di affari. A voler stare alla larga più facile rinchiudersi in un convento. Poi i vecchi erano morti, uno dietro l’altro come di crepacuore quasi che ci fosse del vero amore tra loro. Ma il suocero lo aveva sempre visto interessato a non altro che al mercato azionario – rendeva meglio quello che qualsiasi intrapresa, a sapersi destreggiare dentro la giungla. La suocera era una scopa vestita di pelle vizza, il naso sempre all’insù, come se sotto una certa altitudine il lezzo si facesse insopportabile.
In quel dominio perpetuo di finzione e inganni finse anche lei un lutto profondo, tramò un lungo inganno contro quelli che l’avevano asservita come una cosa usa e getta. Vestiva di nero e di viola. Rimuginava su quella prima notte di nozze in cui il suo cuoricino di cenerentola batteva all’impazzata aspettando il principe azzurro mentre le prime inutili zolle calavano sul feretro. E il suo principe bello lo era davvero, ma di una bellezza già sfiorita, decrepita e assente, come quella di un sarcofago egizio.
Vestita di nero e di viola, un cappello a tesa larga con un nastro di seta, aspettò la sera e il tramonto per insinuarsi nei vicoli dell’angiporto. Sembrava una perla inghiottita dai sargassi di una mostruosa isola equatoriale. I peggiori tipi umani, prima ancora che le etnie da cui provenivano, l’attrassero e la spaventarono. In un lounge sorseggiò un cocktail, spiando intorno con occhi spaventati. Vide mescolarsi gente del suo ceto a ceffi loschi come in un serial: forse altri mezzi uomini come il defunto marito che sfogavano le perversioni con maschi disposti a vendersi. E ce n'era di tutti i gusti: albini, neri, meticci, orientali, deformi... una Babele di lingue di volti di maschere di espressioni da dare il capogiro.
Sapeva che ai piani di sopra si trovavano le camere. Un albergo annesso secondo le intenzioni, un postribolo nella realtà. Fece cenno ad uno del locale che la fissava e questo sedendole accanto le chiese che cosa. “Cocaina? Ecstasy? Fentanyl?”. Ma lei che aveva memorizzato il gergo rispose “Tenda. Nera”. L’altro non obiettò. C’erano svaghi più dissoluti ma davano più rogne.
La fece condurre di sopra ed entrò in una stanza dove si trovavano un letto, una luce soffusa, oltre una porticina il bagno. Su un lato, la tenda dietro le cui cortine la nascose l’accompagnatore. Il tessuto permetteva di vedere in trasparenza ma non di essere visti. Gli avventori sapevano che qualcuno li avrebbe spiati, ma non chi: l'identità sarebbe rimasta segreta.
Rimase a lungo in attesa e più volte fu sul punto di andare. Udiva gente salire le scale di legno che scricchiolavano sotto il peso dei corpi in calore ma nessuno entrava mai. Le porte che si aprivano erano sempre altre. Finché quei passi non si fermarono, l’uscio si schiuse e la prostituta si accomodò col cliente.
Il terrore la pietrificò. Non era abituata a stare in mezzo agli altri. Questo privilegio le era stato concesso fino a che non l'avevano data via. Un clima di terrore regnava in quella casa dove aveva condotto i propri giorni come una prigioniera. Qualunque deviazione dalla via prestabilita era immediatamente e severamente sanzionata. Privata del suo passato, di ogni conoscenza, di ogni rapporto che esulasse dalla orribile cerchia del cognome che portava addosso come un marchio infamante, aveva finito progressivamente per smantellare il costrutto emotivo del contatto sociale. Uno sfinimento della costanza, la novità delle conoscenze, il bisogno di evadere, avrebbero potuto condurla a tradire. Anche solo concedersi i vizi più innocui della ricchezza potevano farle aprire il diario segreto e divulgare verità che si intendeva mantenere celate. Così, lei che si chiedeva come si potesse precipitare in mondi di proibizioni anacronistiche, nel contempo restava sospesa sul mistero sconosciuto della sessualità. E dopo aver esplorato sé stessa nei primi mesi di cordoglio spaesato dopo quel “sì” pronunciato a caro prezzo e aver scoperto la noia, si era come ritirata dalla sfera del piacere carnale. Ne aveva fatto per tutti quegli anni inconsapevolmente a meno. Ma ora sapeva che se voleva uscire dal bozzolo – ora che tutti erano morti e che la cella era aperta – per prima cosa aveva bisogno di sapere davvero cosa fosse un uomo.
La professionista era giovane e con accento straniero. Sotto l’abito da sera portava lingerie provocante. I due si buttarono sul materasso. Lei gingillò in bocca il membro dell’uomo e lo rese trionfante. Poi con sguardo allibito fu spettatrice di infiniti modi di legare la carne, di farla scalpitare e palpitare insieme. I due amanti godettero e prima di andare lanciarono un bacio all'ignoto spettatore.
Aveva pagato per tre rappresentazioni. La successiva avvenne tra uomini. Nel partner brutalmente sodomizzato rammentò le fattezze già sbiadite del morto. L’altro aveva in dote un glande mostruoso. Dopo l'esibizione della terza coppia scese tremebonda le scale. Qualcosa dentro di lei la forzava a fuggire senza neppure voltarsi. Ma riconosciuto nella baraonda crescente il piazzista ne rimase attratta e sedotta e si fece largo verso di lui. Bevve un cocktail disgustoso (era astemia), e disse soltanto “Tenda. Rossa”.
Fu portata in un alcova molto particolare. Era un labirinto di tessuti buttati su strutture metalliche. Lei sapeva cosa doveva fare, ma aveva paura di farlo. C’era un’altra che le sorrise dalla bocca rifatta. Era tutta rifatta, e sotto la chirurgia nascondeva un'età geriatrica. Sembrava divertirsi molto e non essere nuova all’esperienza.
Da un taglio praticato a metà spuntò un genitale maschile. Lei si inginocchiò e mise in opera ciò che aveva studiato. Alle prime carezze della masturbazione sbocciò turgido e duro tra le dita. Osservò incantata il meato: sembravano due minuscole labbra. Le baciò. Sopra di lei un suono gutturale manifestò apprezzamento per quel gesto inusuale. Stimolata dal consenso dello sconosciuto accompagnò il movimento delle dita con la bocca. La pelle era morbida e vellutata. La trovava piacevole dentro il palato. L’eiaculazione la sorprese e stordì, perché sebbene conservasse una vaga idea di quello che avrebbe dovuto fare, quel liquido in bocca la nauseò. Ma trattenne i conati e ingoiò.
Aveva prenotato altre due fellatio. Non dovette attendere. Dai fori cominciavano a spuntare impazienti e non c'erano abbastanza bocche. Lei esercitava senza compenso, come un'apprendista. Gli sconosciuti a cui assicurava il divertimento non pagavano lei. Sapeva che molte signore del bel mondo si dilettavano in simili giochi, e ora iniziava a capirne i motivi. Era tutto sordido e obbrobrioso, ma procurava un senso di eccitazione e di sregolatezza. Il secondo fiotto di seme lo sputò, il terzo lo lasciò colare in faccia come le aveva mostrato la compagna di piacere. Che le andò incontro per leccarglielo via, come se fosse stata la più dolce delle leccornie.
Giù alla reception sedette di nuovo insieme al gestore. “Maschera” disse sicura. Sentì la mano dell'uomo salire lungo la coscia. “Potrei farci un pensiero, madame” disse con un tono di voce da baritono, raschiando in gola. “Se ti piace, potremmo fare un pensierino a trasformarti in una delle nostre ragazze”. Arrossì.
Le diedero una maschera da carnevale veneziano. Era comoda e di tessuto tutto arabescato. Lasciava liberi soltanto gli occhi, e poiché era fumé il verde degli occhi avvampava come mare intravisto in mezzo alle ombre di una scogliera.
La fecero entrare in una stanza. Si accorse della tendina nera, e le parve smossa da un corpo che si accomodasse sulla sedia. Dovette attendere. Era già nuda perché non indossava nulla di sexy. Sexy erano il suo corpo e la sua voglia.
Entrò un uomo. Non aveva mentito. Voleva metterla alla prova. “Non dire che non ti avevo avvertita”.
La sperimentò in tutte le posizioni. Alcune le fecero male, altre le trovò sublimi. Le insegnò come cavalcare il cliente davanti e come farlo in modo da offrirgli le rotondità meravigliose e perfette del sedere, della schiena. La deflorò con dolore, e allora scoprì di essersi perduta. Ma ora era anche più libera di cercarsi, stanarsi dietro gli angoli, agguantarsi e indossare quella nuova lei come un vestito appena comprato. La costrinse anche ad un rapporto anale, e anche questo le piacque abbastanza da giungere all’apice. Ebbe multipli orgasmi. Finalmente era lei a riceverli e non soltanto a donarli. Scoprì che ogni parte del corpo esprime sofferenza e piacere. Era madida di sudore, esausta, quando lui la finì un’ultima volta, da dietro. Fissò il suo arnese gigante, ancora in tiro.
“Si comincia praticando il mestiere” le confessò, “poi si scalano i vertici”.
“Ti fai?” gli chiese. Era ancora abbandonata sotto di lui e temeva volesse iniziare un altro rodeo.
“Qualcosina. Serve a mantenere alta l'adrenalina. Ma non ho bisogno di altro. Mi basta che con me ci sia una bella femmina, che stuzzichi la fantasia. In certi weekend ho avuto rapporti con dozzine di donne”.
Una fitta di gelosia la trapassò per un dolorosissimo istante. Lo guardò dritto negli occhi, severa e orgogliosa. “Ed erano come me?”.
Lui meditò la risposta. Somigliava a quell'attore che aveva interpretato la parte del detective in Chi ha incastrato Roger Rabbit, con in più sul fondo della mascella una piccola cicatrice. Solo che lei non era Jessica. “Tu sei come nessun’altra. Sei una principessa. Ecco come ti chiamerai se vorrai tornare: Principessa. Ma petite Princesse. E verrai pagata, se ti interessa arrotondare. Sarai l’attrazione principale. Eserciterai nella suite. Te la rifaccio nuova per te. Chi ti vuole, dovrà pagare il doppio. Il triplo. E tu sarai libera di scegliere: se qualcuno non è di tuo gradimento lo accompagniamo da un’altra o lo sbattiamo fuori. Cosa ne dici, Principessa?”.
“Avrei dovuto iniziare molto prima. Ora è tardi” mormorò, e c’era davvero cordoglio in quella risposta. Aveva scoperto dentro di sé improvvisa e dirompente l’anima di una ninfomane, che era rimasta troppo a lungo chiusa nel cassetto segreto dei sensi.
“Quanti anni hai? E perdonami se non è una domanda da fare ad una madame”.
“Ventotto”.
“Allora non è mai troppo tardi. Cinque, dieci anni di professione ti renderanno benestante, se non ricca. Adesso ti cercano quelli che ne hanno quaranta, poi ti vorranno i ragazzi. La clientela cambia con l’età”.
Non rispose.
“Benissimo. Ma ora finiamo quanto pattuito. Sei in novena. Altri due clienti ti attendono”.
Lei fece una smorfia civettuola. “E non ti dispiace nemmeno un po'?”.
“Sono affari, ragazza. C’è pur sempre la tenda”.
Entrò il penultimo. Sapeva chi era. Lui non diede cenno di averla riconosciuta. Faceva parte dei dandy maniaci con cui si conciava il marito. Quel depravato era appena stato al suo funerale, vestiva ancora il lutto posticcio dell'amicizia venale. Non poteva darle un nome perché lei era sempre in disparte nelle grandi occasioni in cui si presentavano tutti ad augurarsi a vicenda ogni male e la morte dietro ampi sorrisi. Sembrava intimidito dallo charme della ragazza che lo attendeva, profumata come un fiore appena colto dopo le abluzioni a cui l'aveva sottoposta l'amante con grosse mani delicate e premurose. Avrebbe desiderato cacciarlo, ma il contratto di quella nottata non prevedeva rescissioni. “È la prima volta per te? Non ti ho mai vista”.
Lei annuì. Aveva l'obbligo di non parlare con nessuno. Le mostrò un dildo, la invitò ad indossarlo. Per tutto il tempo che durò quello stravagante rapporto fissò con insistenza la tenda. E anche dopo col terzo e suo ultimo cliente, in cui tornò a recitare il ruolo della femmina.
Era l’alba. Era distrutta come dopo un turno in fabbrica o di volontariato il primo giorno. Non aveva mai fatto né una cosa né l’altra, e mai l’avrebbe fatta. Le offrì la colazione. Mantennero a lungo il silenzio. Si sentiva bruciare in mezzo alle cosce. Ora sapeva cos’era il cazzo e cosa significava godere. Poi lui si accese una sigaretta, si fece un tiro e gliela porse. La studiò guardinga. Non aveva mai fumato. Tossì come una scolaretta.
“Per tutto c'è una prima volta” sentenziò il suo uomo infilandole la lingua in gola. Si baciarono per un minuto. Sentì la sua voglia. Anche a lei era tornata. In bocca macerava un impasto di caffè di fumo e di maschio. Poi con gesto gentile le strappò dalle labbra quel che restava e la scagliò in strada, lontano. “Ma di queste, poche. Tienile accese, senza aspirarle. Ti danno un tono, nient'altro”.
Lo vide andar via e quando sparì dentro il bordello – e va bene che erano chiusi – tirò fuori il pacchetto che gli aveva rubato insieme all’accendino e ne accese un’altra. Aspirò fino in fondo ogni singola boccata.
Perché nessuno le avrebbe mai più detto cosa fare.
Guardando quella donna allontanarsi dietro una voluta di fumo, il barista che apre la mattina quando il lounge di fronte sta spegnendo le luci sospira. La gonna lascia scoperte le caviglie, si alza sui polpacci modellati dai tacchi. Ha il portamento di una signora. Probabilmente un giro mattiniero prima di imbarcarsi per qualche crociera. Sa il fatto suo, ragiona. Il primo cliente gli chiede un caffè. Non ce n'è – essere strappato alle proprie fantasie proprio non lo sopporta. Di sicuro una così non la trova là dentro. Peccato, perché per lei una pazzia la farebbe: pagare il doppio, il triplo. E magari salire nella suite.
Se soltanto quello spilorcio di Anton la facesse rimettere a posto…
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