Il caso umano
di
Robertelle
genere
saffico
Ogni volta era la solita storia. Mi facevo convincere ad assumerle per la presenza e il curriculum. Erano volenterose, sapevano muoversi, imparavano abbastanza velocemente…Poi interveniva qualche evento che le rendeva poco affidabili. Iniziavano a chiedere il sabato libero, ad avere ritardi sull’orario, a sbagliare qualche pratica. Era arrivato LUI e loro, povere ragazze, gli sbavavano dietro.
Io gestisco una mia società che svolge soprattutto lavori per conto terzi, tenuta delle contabilità, fatturazioni, etc., eppure ero meno libera delle mie tre dipendenti.
Una volta ogni settimana ci troviamo noi amiche per una bella serata che prosegue anche nella notte. Il giorno dopo non ho certo voglia di filare in ufficio…Eppure più d’una volta m’era capitato di non potere fare affidamento sulle dipendenti. Arrivata a 43 anni, avevo diritto a farmi i comodi miei e questi non potevano essere solo le due ore giornaliere dedicate a una spa per un’ora di ginnastica intensiva.
Custodivo la mia natura lesbica-puttana ma riservata, come il segreto più prezioso.
Per che cosa dovevo curare il mio 1,74 così tonico, le mie belle cosce e i seni ancora appetitosi e sodi? Non certo per fare una vita solo di lavoro.
Così, quando una delle mie impiegate mi annunciò che era incinta e che aveva diritto a tutti i permessi, decisi che era ora di considerare il futuro mio e della ditta.
Proprio mentre riflettevo sulla situazione, mi arriva la telefonata dell’assessora regionale G. che mi raccomanda il ‘caso umano’ di una ragazza, con famiglia disastrata: “Giada R. ha finito il liceo e ha bisogno di lavorare subito, mi rivolgo a lei carissima Miranda perché so che capisce il problema…”. Altro che se lo capivo, era anche quell’assessorato che mi indirizzava i clienti migliori, così che potevo rispondere? “Me la mandi che vedo cosa posso fare”.
Mi telefona questa Giada e prende l’appuntamento per un tardo pomeriggio, dopo l’orario di chiusura. L’attesi con fastidio, quando aprii la porta e la vidi, restai di sasso. Era splendente, nella sua giovinezza, bionda due seni che forzavano la maglietta e quasi uscivano dalla giacca, più o meno 1,80, tirata come un’atleta con due chiappe da urlo, un brivido leggero ferì in profondità il mio cervello e la mia fica. Lei s’era vestita come meglio poteva, una specie di tailleur con gonna subito sotto le ginocchia, si sedette lasciando intravvedere un cosciame pronto da sondare. Viveva a 30 chilometri e aveva preso il treno per precipitarsi da me.
Mi espose il suo caso senza infingimenti, cosa che apprezzai. La famiglia restata improvvisamente senza il padre, dipendente comunale, morto in un incidente, la madre costretta al servizio ad ore, un fratellino alle elementari. Lei piena di buona volontà, disposta a qualsiasi orario. Le chiesi se aveva un ragazzo. Negò quasi scandalizzata e tornò sulla vicenda del padre “che tanto le mancava”, si commosse e cercava di trattenere la commozione. Mi alzai dalla poltrona, andai ad abbracciarla, Giada allora si sciolse e lascò scorrere le lacrime a rigarle il volto. La tirai su dalla sedia e la strinsi più forte, la sentivo bella calda, i seni quasi alla mia bocca. Le diedi un bacino sulla guancia, i suoi occhi azzurri mi guardarono grati e ancora lacrimosi, girò il volto, le sfiorai lievemente le labbra aumentando la stretta dell’abbraccio, non si ritrasse e premette le sue labbra contro le mie. Sciolsi l’abbraccio e tornai a sedermi dall’altra parte della scrivania.
Illustrai le possibilità di lavoro e calcai la mano, cerando d’illuderla il più possibile. La volevo, l’offerta di lavoro impiegatizio come quadro era un ricatto belle e buono, le dissi che doveva essere il mio braccio destro, condividere piano piano il futuro dell’aziendina.
La vidi ringalluzzirsi, gli occhi sembravano ora famelici, il cielo s’era messo al bello, il suo motore ronfava in attesa d’ingranare. Proseguimmo il colloquio, sondavo le sue capacità di lavoro e intanto srotolavo nella mente il mio piano. Mi alzai e le feci fare il giro dell’ufficio, tenendola per un braccio. Poi, accompagnandola con la mano sulla vita, nel salottino dei clienti e ci accomodammo sul divanetto, le offrii un caffè e un savoiardo, lei s’era aperta la giacchetta e aveva preso confidenza. Parlando le accarezzai il viso con la vaga scusa di sistemarle una ciocca di capelli, con l’altra mano l’attirai verso di me. Era titubante, ma l’amo del lavoro ben remunerato la stava attirando e mi lascò fare. Andai sul suo viso e la baciai ‘timidamente’, non si sottrasse più di tanto, così la forzai con la lingua ed entrai assaporando il gusto del caffè e lavorandomela bene bene. Apprendista puttanella…rispose quasi con impeto.
Ora le palpavo il seno, si tolse la giacca, io entrai con le mani sotto la camicetta. Per quasi mezz’ora me la lisciai pian piano in tutti i modi, poi fummo nude in mutandine. Ero al settimo cielo, mi sentivo tutta bagnata.
Era frastornata, non parlava, solo qualche monosillabo e un “cosa mi fa signora”, intontita non capiva più nulla, quasi le strappai le mutandine e mi misi ad occuparmi delle sue piccole labbra con la lingua, una mano a strizzarle un capezzolo, Giada mormorò un poco convinto “sono vergine”, ma colava la puttanella.
Fui molto delicata a lavorarmela, la penetrai a fondo con la lingua, poi presi in consegna il clito, e lo curai come solo la mia esperienza sapeva. Ora Giada gemeva forte e più nulla l’importava, se non godere. Gliela mangiai con dolce ferocia, era riversa di traverso sul divanetto, respirava come un mantice, si mise a lanciare grida rantolanti miste ad un rauco e strano “oh cara, cara, cara…”.
Io mi accontentavo di prendermi il mio con tre dita nella fica finché venni con un piacere inusitato. Era il risultato anche psicologico d’essermi presa un primo passaggio con la verginella.
Nel frattempo, tra una ‘cosa’ e l’altra, s’era fatto tardi. Le dissi di telefonare a casa e di restare che l’avrei ospitata. Tirò fuori il suo telefonino, chiamò la madre e me la passò. Spiegai la situazione, dicendo che consideravo sua figlia assunta e che l’ospitalità notturna sarebbe stata a carico della ditta. Accettò subito, non finiva più di ringraziarmi, si esprimeva con la devozione di una giapponese.
La notte già occhieggiava densa di promesse.
(Robertelle)
Io gestisco una mia società che svolge soprattutto lavori per conto terzi, tenuta delle contabilità, fatturazioni, etc., eppure ero meno libera delle mie tre dipendenti.
Una volta ogni settimana ci troviamo noi amiche per una bella serata che prosegue anche nella notte. Il giorno dopo non ho certo voglia di filare in ufficio…Eppure più d’una volta m’era capitato di non potere fare affidamento sulle dipendenti. Arrivata a 43 anni, avevo diritto a farmi i comodi miei e questi non potevano essere solo le due ore giornaliere dedicate a una spa per un’ora di ginnastica intensiva.
Custodivo la mia natura lesbica-puttana ma riservata, come il segreto più prezioso.
Per che cosa dovevo curare il mio 1,74 così tonico, le mie belle cosce e i seni ancora appetitosi e sodi? Non certo per fare una vita solo di lavoro.
Così, quando una delle mie impiegate mi annunciò che era incinta e che aveva diritto a tutti i permessi, decisi che era ora di considerare il futuro mio e della ditta.
Proprio mentre riflettevo sulla situazione, mi arriva la telefonata dell’assessora regionale G. che mi raccomanda il ‘caso umano’ di una ragazza, con famiglia disastrata: “Giada R. ha finito il liceo e ha bisogno di lavorare subito, mi rivolgo a lei carissima Miranda perché so che capisce il problema…”. Altro che se lo capivo, era anche quell’assessorato che mi indirizzava i clienti migliori, così che potevo rispondere? “Me la mandi che vedo cosa posso fare”.
Mi telefona questa Giada e prende l’appuntamento per un tardo pomeriggio, dopo l’orario di chiusura. L’attesi con fastidio, quando aprii la porta e la vidi, restai di sasso. Era splendente, nella sua giovinezza, bionda due seni che forzavano la maglietta e quasi uscivano dalla giacca, più o meno 1,80, tirata come un’atleta con due chiappe da urlo, un brivido leggero ferì in profondità il mio cervello e la mia fica. Lei s’era vestita come meglio poteva, una specie di tailleur con gonna subito sotto le ginocchia, si sedette lasciando intravvedere un cosciame pronto da sondare. Viveva a 30 chilometri e aveva preso il treno per precipitarsi da me.
Mi espose il suo caso senza infingimenti, cosa che apprezzai. La famiglia restata improvvisamente senza il padre, dipendente comunale, morto in un incidente, la madre costretta al servizio ad ore, un fratellino alle elementari. Lei piena di buona volontà, disposta a qualsiasi orario. Le chiesi se aveva un ragazzo. Negò quasi scandalizzata e tornò sulla vicenda del padre “che tanto le mancava”, si commosse e cercava di trattenere la commozione. Mi alzai dalla poltrona, andai ad abbracciarla, Giada allora si sciolse e lascò scorrere le lacrime a rigarle il volto. La tirai su dalla sedia e la strinsi più forte, la sentivo bella calda, i seni quasi alla mia bocca. Le diedi un bacino sulla guancia, i suoi occhi azzurri mi guardarono grati e ancora lacrimosi, girò il volto, le sfiorai lievemente le labbra aumentando la stretta dell’abbraccio, non si ritrasse e premette le sue labbra contro le mie. Sciolsi l’abbraccio e tornai a sedermi dall’altra parte della scrivania.
Illustrai le possibilità di lavoro e calcai la mano, cerando d’illuderla il più possibile. La volevo, l’offerta di lavoro impiegatizio come quadro era un ricatto belle e buono, le dissi che doveva essere il mio braccio destro, condividere piano piano il futuro dell’aziendina.
La vidi ringalluzzirsi, gli occhi sembravano ora famelici, il cielo s’era messo al bello, il suo motore ronfava in attesa d’ingranare. Proseguimmo il colloquio, sondavo le sue capacità di lavoro e intanto srotolavo nella mente il mio piano. Mi alzai e le feci fare il giro dell’ufficio, tenendola per un braccio. Poi, accompagnandola con la mano sulla vita, nel salottino dei clienti e ci accomodammo sul divanetto, le offrii un caffè e un savoiardo, lei s’era aperta la giacchetta e aveva preso confidenza. Parlando le accarezzai il viso con la vaga scusa di sistemarle una ciocca di capelli, con l’altra mano l’attirai verso di me. Era titubante, ma l’amo del lavoro ben remunerato la stava attirando e mi lascò fare. Andai sul suo viso e la baciai ‘timidamente’, non si sottrasse più di tanto, così la forzai con la lingua ed entrai assaporando il gusto del caffè e lavorandomela bene bene. Apprendista puttanella…rispose quasi con impeto.
Ora le palpavo il seno, si tolse la giacca, io entrai con le mani sotto la camicetta. Per quasi mezz’ora me la lisciai pian piano in tutti i modi, poi fummo nude in mutandine. Ero al settimo cielo, mi sentivo tutta bagnata.
Era frastornata, non parlava, solo qualche monosillabo e un “cosa mi fa signora”, intontita non capiva più nulla, quasi le strappai le mutandine e mi misi ad occuparmi delle sue piccole labbra con la lingua, una mano a strizzarle un capezzolo, Giada mormorò un poco convinto “sono vergine”, ma colava la puttanella.
Fui molto delicata a lavorarmela, la penetrai a fondo con la lingua, poi presi in consegna il clito, e lo curai come solo la mia esperienza sapeva. Ora Giada gemeva forte e più nulla l’importava, se non godere. Gliela mangiai con dolce ferocia, era riversa di traverso sul divanetto, respirava come un mantice, si mise a lanciare grida rantolanti miste ad un rauco e strano “oh cara, cara, cara…”.
Io mi accontentavo di prendermi il mio con tre dita nella fica finché venni con un piacere inusitato. Era il risultato anche psicologico d’essermi presa un primo passaggio con la verginella.
Nel frattempo, tra una ‘cosa’ e l’altra, s’era fatto tardi. Le dissi di telefonare a casa e di restare che l’avrei ospitata. Tirò fuori il suo telefonino, chiamò la madre e me la passò. Spiegai la situazione, dicendo che consideravo sua figlia assunta e che l’ospitalità notturna sarebbe stata a carico della ditta. Accettò subito, non finiva più di ringraziarmi, si esprimeva con la devozione di una giapponese.
La notte già occhieggiava densa di promesse.
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