Come uno stecco di gelato in una vaschetta di merda

Scritto da , il 2011-06-01, genere feticismo

Il tavolo è pieno di uomini brutti, vestiti male, fuori moda e traboccanti stronzate da vecchi. Uomini con acconciature imbarazzanti. Capelli fluttuanti da shampoo anni ’80. Chi ha ancora i capelli, s’intende. Uomini che trascinano vite vecchie che puzzano di cantina.
Uomini che si vestono di brillantezza per nascondere anni di buio e muffa.
Eccoli qui, tutti attorno a me. Il locale è del cugino di uno di loro. Quello simpatico. Tutti contenti perché stasera si va a risparmio. Ridono tutti, come degli stronzi giganti in camicia a quadretti.
A me, giovane ventenne pieno di sborra, non frega un bel cazzo di risparmiare. Sono qui per ubriacarmi presto, perdere conoscenza e adombrare la compagnia con la mia sfolgorante, invidiabile, spensierata giovinezza. Unico giovane del folto gruppo, infatti, guardo ogni omuncolo dall’alto in basso, mentre fingo di accettare la mia condizione di inferiore.
Il locale è un pub messicano. Nachos, fagioli neri e salse piccanti. L’ideale per inzuppare i vestiti. Tutti questi padri di famiglia, tutti questi mariti, compagni vestiti bene, posati e sicuri di sé. Abituati a cene del genere. È un tipo di svago che conoscono fin troppo bene. Si trovano nel loro ambiente, a loro perfetto agio. Sono io, che sono completamente fuori luogo.
Ho un posto centrale, il che peggiora le cose. Mi sento incastrato come uno stecco di gelato in una vaschetta di merda.
La roscia è di fronte a me. So cosa combinerà fra non molto, ci siamo già messi d’accordo nei giorni precedenti.
È mia abitudine programmare certe cose, purtroppo. Preferisco essere certo del risultato positivo, perdendo così l’effetto sorpresa e il fascino dell’imprevedibilità. In futuro ne riporterò alcuni strascichi.
Con me, un amico. Quasi coetaneo. È questa una delle poche cose che ci accomuna. Saremo nella stessa barca finché lavoreremo insieme. Le nostre vite prenderanno strade ben diverse.
È l’unico che mi sta dietro con il bere. Gli uomini, i grandi, si contengono. Le loro parole si snodano tra mutui, battute sulle loro disastrose vite coniugali e il difficile status di genitore.
Raramente vengo interrogato, a parte i momenti di puro svago. Momenti in cui menti superiori come le loro hanno bisogno di pensieri leggeri, poco impegnativi, rilassanti. È il momento dello spasso, facciamoci due risate con questo giovane pagliaccio, pensano. E si rivolgono a me.
Indosso pantaloni a quadri con varie tonalità di marrone, scarponi neri e una maglietta attillata nera. Al collo porto un collare con un lucchetto. Mi concio come una specie di personalissimo punk, essendo inserito a forza nel sistema che tanto vorrei criticare, ma che, date le mie armi e le mie conoscenze inesistenti, non faccio altro che subire.
La roscia, in questo periodo, sta toccando uno dei picchi più alti della sua patologica infedeltà coniugale. Ha azzardato. Ha scommesso. Stavolta un ragazzino. Un insignificante ventenne fissato con i piedi delle donne che comincia a manifestare fantasie di sottomissione. Un precoce, tenero, innocuo maniaco sessuale alle prime armi. Io.
Una donna di più di dieci anni più grande di me. Due figlie. Una donna adulta. Lei.
Gli uomini al tavolo hanno provato per anni ad ottenere le sue attenzioni. Hanno cercato di conquistarla in tutti i modi. La galanteria, le gentilezze, le formalità, il rispetto, i complimenti, l’adulazione. Valanghe di merda.
Tutti rifiutati. E nessuno che si sia arreso. Tutti che sperano in un ripensamento, disperati a sembrare più astuti, più intelligenti, più interessanti, più originali di altri. Guerre fra poveri.
La roscia ha scelto me. Il ragazzetto maniaco dei piedi. Di questo lungo tavolo, non lo sa nessuno.
Che grand’uomini. L’intera gamma della loro adulta gestualità seppellita da un mio schiocco di dita. Ho le labbra di questa donna attorno alla mia cappella ad un mio minimo cenno. Grandi, grand’uomini esperti di vita.
Arrivano i maledetti nachos. Ho attirato più di uno sguardo e qualche commento riguardo il bere. Ma non era una cena? Non dovremmo divertirci? Penso io. Vecchi. Vecchi di merda. Bevo ancora. Un po’ per placare la mia insicurezza. e un po’ perché gli altri mi guardano male.
La roscia decide subito di farmi stare buono. Sento il suo piede caldo tra i miei polpacci. Indossa calze nere, la troia.
Mi guardo intorno un po’ stupito. Nessuno fa caso a niente, ovviamente.
È la prima volta che mi fa piedino in pubblico. Sa che è una mia eterna fantasia. Le piace mettermi in difficoltà davanti agli altri. La guardo. Divide il suo sguardo tra me e gli altri, cercando di essere più disinvolta possibile, il che è ancora più eccitante. Risponde addirittura alle domande che le fanno. Fa battute. Ride.
È nel mezzo di un sorriso che fa salire il piede tra le mie gambe, che si aprono naturalmente.
Fa centro nelle palle in un secondo. Piazza il suo bel 39 caldo sul mio pisello. Una volta arrivata lì, stringo le gambe per tenerlo bene in caldo. Inizia a muovere le dita a destra e sinistra, lentamente. Godo, ma sono troppo piccolo e inesperto per apprezzare il momento: il cazzo resta un mollusco.
Ogni tanto dà qualche affondo, come su un acceleratore. Senza farmi notare, infilo un dito della mano tra le dita calde dei suoi piedi, tra il nylon nero e umidiccio. Quando tiro fuori il dito le faccio notare che lo annuso ben bene. Questo sembra eccitarla.
Mangiamo.
Inizio a sudare quasi subito, nonostante la caduta dei freni inibitori dovuta all’alcol. I nachos e la crema di formaggio o di fagioli è bollente.
Mi asciugo senza farmi notare. Il grande piede della roscia resta immoto, ma sempre di guardia al mio pisello. Spero che a nessuno cada niente per terra.
Cibo messicano e ancora alcol. Gli altri bevono, io esagero. La roscia me lo fa notare intensificando l’attività del suo piedino. Vorrei farle sentire che apprezzo, dimostrarle che ho il cazzo di marmo, lo stesso che succhia quotidianamente al lavoro, ma non sono così tranquillo. È più buon materiale per una bella pippa futura. Non riesco appieno ad apprezzare l’attimo.
Le chiacchiere degli altri, dopo un po’ non mi arrivano più. Ostento un atteggiamento vago, rispondo a monosillabi a qualsiasi domanda. La roscia mi fa un piedino memorabile per quasi tutta la serata. Si riposa un po’, ripone il piede nella scarpa, poi ricomincia. Struscia palle e cazzo con una maestria unica e rara. Quando è inattiva, lascia il piede tra le mie gambe, quasi incurante di essere scoperta.
Sento le mutande inzuppate, anche se il cazzo è rimasto moscio. Spero che la roscia capisca. Sono sicuro che capirà. Siamo complici, mi perdona quasi tutto.
Avverto la roscia che devo andare in bagno. Devo andare a darmi una rinfrescata, prima che la situazione diventi insopportabile.
Toglie il bel piede e lo infila di nuovo nella scarpa.
Vado al bagno con il mio amico, mi rinfresco e gli chiedo di farmi la guardia alla porta. Maledetto messicano. Esplodo in una cagata puzzolente che mi infiamma il culo. Resto in bagno per buoni venti minuti. L’alcol nel frattempo fa il suo dovere. Sono meno inibito, pronto per il resto della serata.
Ma quando salgo, tutta la compagnia ha pagato ed è uscita. Il tavolo è vuoto. I grandi sono presi dai loro discorsi da grandi al di fuori del locale. Esco, li vedo riuniti lì, chi fuma, chi ride e chi guarda le belle cosce della roscia. Dono sguardi carichi di odio e vendetta ad ognuno di loro. La roscia riposa il piede nella scarpa. Nessuno si è accorto di niente. Ridono, gli stupidi. Ognuno di loro pensa che stasera concluderà qualcosa con la roscia. Che ridano pure.
A loro regala illusioni, a me succhia il cazzo.
Tutti nelle macchine, ora. Siamo diretti al lago!

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