Lisa

di
genere
pissing

Sono cresciuta piano, quasi senza accorgermene, ma negli ultimi mesi qualcosa è cambiato davvero. I miei seni si sono ingrossati, improvvisamente troppo evidenti sotto le magliette che prima mi cadevano dritte, e mi sentivo diversa, come se il mio corpo stesse parlando una lingua che non capivo ancora. Anto, il mio fratellastro, era sempre stato lì—più grande di me di 3 anni, con quel suo modo di fare tranquillo ma sicuro, il viso che si era fatto più bello col tempo, i lineamenti decisi e quel sorriso che mi faceva arrossire senza motivo. Non era più solo il "fratellone" con cui giocavo da piccola; era diventato qualcosa di più, qualcosa che mi confondeva.
All’inizio era tutto normale, come sempre. Gli abbracci quando tornava a casa dopo una giornata a sballarsi con gli amici, le sue mani che mi scompigliavano i capelli, i giochi sul divano dove finivamo per spingerci e ridere fino a non respirare più. Ma poi ho iniziato a notare che i suoi abbracci duravano un secondo di troppo, che le sue dita si fermavano un po’ più a lungo sulla mia spalla, che quando mi sfiorava per caso—magari prendendo il telecomando o passandomi la frutta a tavola—il mio stomaco si stringeva. E io? Io non ero da
meno. Mi ritrovavo a cercarlo con gli occhi, a ridere più forte alle sue battute, a sistemarmi i capelli quando sapevo che mi stava guardando. Era strano, sbagliato forse, ma anche così vero, così vivo. Amore incondizionato.
Le parole tra noi hanno iniziato a cambiare piega. “Sei pericolosa, eh, Lisa,” mi diceva a volte, con un tono che non capivo se fosse scherzoso o serio, e io rispondevo con un “Ma smettila!” mentre il cuore mi batteva forte. Mi chiamava “piccola” come sempre, ma c’era qualcosa di diverso nel modo in cui lo diceva, un calore che mi faceva sentire grande e piccola allo stesso tempo. Non sapevo
cosa fosse, questo nodo che mi si formava dentro, questo desiderio di stargli vicino che non riuscivo a spiegare. Ero una femmina ormai, non più una ragazzina, ma i miei pensieri erano un casino—un misto di curiosità, vergogna e una voglia che non osavo nominare.
La chat è diventata il nostro spazio. È successo per caso: una sera dove ci facevamo i cazzi nostri in camera , mi ha mandato un messaggio per chiedermi se volevo guardare un film con lui, appallottolati sul divano senza parlare. E poi ci saremmo raccontati via chat e da lì non ci siamo più fermati. Era un posto
sicuro, solo nostro, dove potevamo parlarci senza guardarci in faccia, senza il peso dei suoi occhi scuri o del mio rossore che non sapevo nascondere. “Cosa fai, ?” mi scriveva a volte, e io rispondevo “ Niente, e tu?”, ma piano piano le domande sono diventate più personali, le battute più audaci. “Come fai la figa con quella maglietta aderente ,” mi ha scritto una volta, e io ho riso forte nella mia stanza, digitando un “Grazie, fratellone ” con le mani che tremavano. Non
ci dicevamo tutto, non ancora, ma ogni messaggio era un passo, un filo che si tendeva tra noi.
Non so quando ho capito che anche lui sentiva qualcosa cambiare. Forse è stato il modo in cui mi guardava quando passavo davanti a lui in corridoio, o il silenzio che cadeva tra noi quando ci sfioravamo per sbaglio. Era come se ci stessimo studiando, incerti su cosa fare di questa cosa che cresceva, normale eppure così pericolosa. La chat ci dava coraggio: lì potevamo essere noi stessi, lontani dagli occhi di sua mamma e di papà, lontani dal mondo che ci vedeva
solo come fratellastro e sorellina. E io, con i miei dubbi da ragazza appena più che adolescente, mi chiedevo ogni giorno se fosse giusto, se fosse normale sentirmi così—ma non riuscivo a smettere di volerlo sapere.
Era estate, in un qualunque giorno caldo che ti appiccica addosso, e io ero fuori con Anto a lavare la macchina del babbo, ridevamo, l’acqua che schizzava dappertutto, un gioco scemo, che facevamo da piccoli, ma non lo era più, lo sentivo. Mi ha colpita con la canna, un getto freddo che mi ha preso in pieno, la maglietta bianca zuppa in un secondo, quella vecchia , quella sottile con qualche buchetto che non metto quasi mai, e l’acqua mi si è incollata alla pelle,
i capezzoli che spuntavano fuori, duri, troppo evidenti. Ho messo le braccia davanti, il viso che bruciava, ma l’ho visto, i suoi occhi fermi lì, un attimo che sembrava eterno, e mi sono sentita nuda, più nuda di quanto fossi. “Sembri un pulcino bagnato, Lisa,” ha detto, ridendo, ma la voce gli tremava un po’, e io—dio—ho sentito qualcosa, un calore che mi saliva dentro, un piacere che non capivo, che mi faceva venir voglia di restare così, bagnata, sotto quello sguardo.
Volevo scappare, ma no, non è vero, volevo che mi guardasse ancora, che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, e mi odiavo per questo, per come mi piaceva.
“Smettila, scemo,” ho borbottato, girandomi, ma dentro speravo che non smettesse, che mi vedesse davvero, e dopo, in casa, con la maglietta ancora appiccicata, mi chiedevo se ci stesse pensando anche lui, se quel momento gli fosse rimasto in testa come a me. Avrei voluto dirglielo, sai, buttargli lì che mi era piaciuto, che volevo sapere cosa gli passava per la testa, ma niente, le parole mi si bloccavano, e restavo lì, a immaginarmelo, a perdermi nei pensieri.
Poi un giorno è successo, ve lo confesso, perché mi scoppia dentro e non ce la faccio più. Ho lasciato la porta del bagno socchiusa, non so, forse lo volevo, sì, lo volevo eccome, volevo vedere se mi guardava, cosa faceva.
Mi sono seduta sul water, i pantaloncini giù, il cuore che mi batteva nelle orecchie, e ho lasciato andare il getto, quel suono che riempiva tutto, e lo sentivo, Anto era lì, il parquet che scricchiolava piano, i suoi passi che sifermavano vicino. Non l’ho guardato, ma me lo vedevo, fermo, gli occhispalancati, e mi tremavano le gambe, paura, voglia, tutto insieme.
Dopo, il telefono ha vibrato, e la chat è diventata reale, viva, un posto dove ci siamo detti quello che non osavamo mai. Ecco com’è andata:
Anto: “Ti ho guardata. Non riuscivo a smettere.”
Lisa: “E cosa hai visto, esattamente?”
Anto: ehmmm
Lisa: Dai fratellone
Anto: “Te. Così… naturale diciamo. È stato come sbirciare qualcosa di proibito.”
Lisa: “Ti è piaciuto?”
Anto: la verità?
Lisa: se non ci confidiamo fra di noi …
Anto: “Sì. Troppo. Non so se dovrei dirtelo, ma non riesco a pensare ad altro.”
Fissai lo schermo, il respiro corto. Quelle parole erano un gancio che mi si conficcava nella carne, tirandomi verso un confine che non avevo mai osato attraversare. Mi morsicai il labbro, combattuta tra il disgusto per me stessa e undesiderio che cominciava a bruciarmi dentro.
La mattina dopo, scesi in cucina con un piano vago nella testa. Indossavo una maglietta aderente, senza reggiseno, i capezzoli che si intravvedevano appena sotto il cotone sottile, e pantaloncini corti che mi lasciavano le gambe scoperte.
Anto era già lì, appoggiato al bancone con una tazza di caffè in mano, ma i suoi occhi mi seguirono dal momento in cui entrai. Lo ignorai—o almeno finssi di farlo—e mi chinai lentamente per prendere una bottiglia d’acqua dall’armadietto basso. Sapevo che il movimento mi sollevava i pantaloncini, esponendo la curva delle natiche, e sentii il suo sguardo come un peso caldo sulla pelle.
“Fa caldo oggi,” mormorai, più a me stessa che a lui, ma abbastanza forte perché mi sentisse. Mi raddrizzai, versandomi l’acqua con una calma esasperante, e bevvi un sorso, lasciando che una goccia mi scivolasse lungo il mento e sul collo. Anto non disse nulla, ma il suo silenzio era assordante, carico di qualcosa che mi faceva tremare le mani.
Tornata in camera, il telefono vibrò.
Chat:
Anto: “Lo fai apposta allora . … mi stai distruggendo.”
Lisa: “Ero solo assetata. Non è colpa mia se guardi.”
Anto: “Bugiarda. Ti piace sapere che non riesco a staccarti gli occhi di dosso.”
Lisa: “Forse. Ma dimmi, cosa ti passa per la testa quando mi guardi così?”
Anto: “Penso a come sarebbe toccart... Mi fai impazzire.”
Lisa : porcellone
Chiusi gli occhi, il cuore che mi rimbombava nelle orecchie. Ogni parola di Anto era un passo più vicino a un precipizio, e io non sapevo se volevo fermarmi o buttarmi.
Quella sera, decisi di spingermi un pochino oltre. Entrai in bagno, lasciando la porta socchiusa quel tanto che bastava per far filtrare la luce nel corridoio. Mi sedetti sul water, i pantaloncini abbassati, e lasciai che il getto scorresse, più a lungo del necessario. Il suono era intimo, quasi osceno nel silenzio della casa, e mi chiesi se Anto lo stesse ascoltando. Lo immaginai nel corridoio, fermo, il
fiato sottile, le mani che stringevano il vuoto per resistere alla tentazione di avvicinarsi. Finii, ma non mi alzai subito—rimasi lì, le cosce nude contro la ceramica fredda, il respiro che accelerava al pensiero di essere osservata.
Quando mi tirai su i pantaloncini, lo feci con una lentezza esasperata, quasi teatrale, e uscii senza guardare verso il corridoio.
Tornata in camera, il telefono vibrò quasi immediatamente.
Chat:
Anto: “Ti ho sentita. Quel suono… è ancora nella mia testa.”
Lisa: “Ti piace spiare, eh? Sei proprio un pervertito.”
Anto: “E tu? Tu che lasci la porta aperta, che mi fai ascoltare… lo vuoi quanto
me.”
Lisa: “Forse. Ma dimmi la verità: che effetto ti fatto sentirmi pisciare ?”
Anto: “Mi ha fatto venire voglia di entrare. Di guardarti da molto vicino. Di
sentire TUTTO .”
Lisa si lasciò cadere sul letto, il telefono stretto tra le mani. Quelle parole erano un fuoco che le lambiva la pelle, e lei si odiava per quanto le piaceva.
Il giorno dopo, la casa sembrava carica di elettricità. Passai davanti a Anto in salotto, sfiorandolo con la mano mentre mi dirigevo verso la cucina. Il contatto fu breve, un tocco leggero della mia pelle contro la sua, ma bastò a farmi venire la pelle d’oca. Lui non disse nulla, ma i suoi occhi mi seguirono, scuri e affamati, e io sentii il suo sguardo come una carezza ruvida.
Quella sera, la chat divenne un campo minato.
Chat:
Anto: “Oggi, quando mi hai toccato… non ce la faccio più, Lisa.”
Lisa: “È stato un caso. Non fare il drammatico.”
Anto: “Non era un caso e lo sai. Mi stai provocando da giorni. Dimmi cosa vuoi.”
Lisa: te lo posso dire davvero ?
Anto:
Lisa: “E se ti dicessi che voglio che mi guardi ancora? Nel bagno. Ma più da vicino.”
Anto: “Quanto vicino ?”
Lisa: “Abbastanza da sentire il mio respiro. Ma non ti permetto di toccarmi. Non ancora.”
Anto: “Mi stai uccidendo. Ma ci sto. Dimmi quando.”
Lisa: “Forse domani sera. Porta socchiusa. Non fare rumore.”
Spensi il telefono, il buio della stanza che mi avvolgeva come una coperta pesante. Il mio corpo era teso, un groviglio di nervi e desiderio, e la mia mente urlava che stavo giocando con qualcosa di pericoloso. Ma non riuscivo a fermarmi - non volevo fermarmi.
La giornata passò lenta, ogni ora un’agonia di attesa. Mi preparai con cura, scegliendo una camicia da notte leggera che mi sfiorava appena le cosce, il cotone morbido che aderiva alla pelle sudata. Entrai in bagno poco dopo mezzanotte, lasciando la porta socchiusa quel tanto che bastava per far passare un’ombra. Mi sedetti sul water, abbassando gli slip con un movimento lento, cerimonioso, e chiusi gli occhi. Il getto iniziò, un suono basso e continuo che riempì lo spazio, e io mi concentrai su ogni sensazione: il freddo della tazza
sotto di me, il calore che mi saliva alle guance, il battito accelerato del cuore.
Poi lo sentii—il parquet scricchiolò, un passo cauto ma inconfondibile. Anto era lì, appena oltre la soglia, e io lo immaginai: fermo, gli occhi spalancati, il respiro trattenuto mentre mi guardava. Non mi voltai, ma aprii leggermente le gambe, un gesto impercettibile ma carico di intenzione. Finii, ma non mi mossi subito—rimasi lì, esposta, lasciandogli tutto il tempo di assorbire ogni dettaglio.
Quando finalmente mi alzai, tirando su gli slip con una calma studiata, il telefono vibrò nella tasca della camicia da notte.
Chat:
Anto: “Sei bellissima. Non riesco a respirare.”
Lisa: “Ti piace?”
Anto: “Sì. Ma non mi basta più guardarti da lontano.”
Lisa: “Forse Domani ti farò vedere di più. Ma devi aspettare.”
Anto: “Quanto ancora mi farai aspettare?”
Lisa: “Finché non implorerai.”
Sorrisi, il potere di quel gioco che mi scorreva nelle vene come adrenalina.
Sapevo che stavamo correndo verso qualcosa di inevitabile, e ogni passo ci portava più vicini al bordo del precipizio.
Quella sera decisi di alzare la posta, di spingere il nostro gioco oltre il confine che avevo tracciato nella mia mente. Entrai in bagno, lasciando la porta socchiusa—un invito silenzioso, ormai un rituale tra noi, un filo invisibile che ci legava. Mi sedetti sul water, i pantaloncini abbassati fino alle caviglie, il cotone che scivolava sulla pelle accaldata e sudata. Chiusi gli occhi e lasciai che il getto scorresse, un suono basso, intimo, quasi ipnotico, che si insinuava tra le pareti della stanza. Ma non era abbastanza, non più. Il cuore mi martellava nel petto, un battito sordo che rimbombava nelle orecchie, e sapevo che Anto era lì, appena oltre la soglia. Lo percepivo: l’ombra che si muoveva appena nel corridoio, un tremolio leggero sul parquet, la sua presenza che mi accendeva i nervi come una fiamma.
Non mi fermai al getto. Con un respiro trattenuto, feci scivolare una mano tra le cosce, le dita che sfioravano la pelle umida, ancora calda del flusso appena finito. Era una vergogna che mi bruciava dentro, un nodo stretto nello stomaco, ma non potevo resistere. Lentamente, iniziai a toccarmi, le dita che esploravano con una delicatezza esasperante, quasi timorosa, come se stessi violando un
segreto che non avrei dovuto conoscere. Il silenzio era assoluto, rotto solo dal mio respiro corto, trattenuto a forza per non fare rumore. Il bagno era nostro, sì, collegato alle nostre camere, ma la casa era viva—la porta che ci separava dal resto della famiglia era chiusa, eppure così fragile. E se qualcuno l’avesse aperta? Se mamma o papà avessero sentito anche solo un sussurro? Quel pensiero mi terrorizzava, ma mi eccitava ancora di più.
Immaginai Anto lì fuori, fermo nel corridoio buio. Lo vedevo nella mia mente: il suo corpo teso, i muscoli contratti sotto la maglietta, gli occhi spalancati che cercavano di rubare ogni dettaglio attraverso lo spiraglio. Sapevo che mi stava guardando, che non poteva distogliere lo sguardo. E poi lo immaginai cedere— la sua mano che scivolava nei pantaloni, le dita che stringevano il suo cazzo duro, muovendosi piano, con la stessa vergogna silenziosa che provavo io. Me
lo figuravo respirare piano, il fiato spezzato, trattenuto per non tradirsi, la testa appoggiata al muro mentre si masturbava pensando a me, al suono che avevo fatto, al modo in cui mi stavo toccando ora. Quel pensiero mi fece tremare, un brivido che mi risalì lungo la schiena e mi spinse a spingere le dita più a fondo.
Portai la mano alla bocca, assaporandomi—un gusto acre, caldo, proibito che mi fece arrossire fino alla punta delle orecchie. Era disgustoso, osceno, eppure mi piaceva, mi faceva sentire viva. Leccai piano, la lingua che esplorava il sapore della mia figa, e nella mia testa vedevo Anto fare lo stesso: immaginavo il suo gemito soffocato mentre si toccava, la sua mano che tremava per il desiderio di
spingersi oltre, di entrare, di prendermi. Ma non poteva. Non ancora. Il silenzio tra noi era un patto, una barriera che ci teneva sospesi sul bordo.
Poi lo sentii—un rumore leggero, quasi impercettibile, un fruscio dal corridoio.
Era lui. Lo sapevo. La sua mano si muoveva più veloce ora, lo capivo dal ritmo irregolare del suo respiro, un sibilo appena accennato che attraversava lo spiraglio della porta. Mi morsi il labbro così forte da farmi male, le dita che scivolavano dentro di me con una disperazione muta, il pollice che sfregava il clitoride in cerchi frenetici ma silenziosi. Lo immaginavo venire, il suo corpo che si tendeva, il fiato che gli moriva in gola mentre cercava di non urlare, di non tradirsi. E quel pensiero mi spezzò. L’orgasmo mi travolse come un’onda, silenzioso ma devastante—le gambe che tremavano, la bocca spalancata in un grido che non osavo lasciar uscire, il corpo che si contraeva contro la ceramica fredda del water. Venni, e sapevo che anche lui stava venendo, lì fuori, a pochi metri da me, nello stesso istante.
Finii con un respiro spezzato, le mani che tremavano mentre mi tiravo su i pantaloncini con una lentezza calcolata, il tessuto che aderiva alla pelle bagnata. Non lo guardai—non potevo—ma sentivo ancora il suo sguardo che mi bruciava la schiena mentre uscivo dal bagno e tornavo in camera, le gambe molli, il cuore che galoppava. Il telefono vibrò quasi immediatamente sul comodino, un ronzio che tagliò il silenzio come un coltello.
Chat:
Anto: “Ti ho sentita… non riesco a togliermelo dalla testa.”
Lisa: “Ti piace spiare, eh?”
Anto: “Sì. E tu lo vuoi. Dimmi che non è vero.”
Lisa: “Forse. Ma tu cosa vuoi davvero?”
Anto: “Voglio tutto. Voglio sentirti, assaggiarti. Anche quello...”
Trattenni il fiato. Quelle parole erano un confine che stavamo per attraversare, un brivido che mi correva lungo la schiena, eccitante e spaventoso allo stesso tempo.
Il giorno dopo, la tensione era palpabile, un filo teso che vibrava a ogni nostro movimento, ancora carico di quello che era successo la sera prima. Mi sedetti al fianco di Anto in salotto, mentre guardava Nowness su Netflix, le immagini che scorrevano sullo schermo senza che nessuno dei due le guardasse davvero. Eravamo vicini, così vicini che potevo sentire il calore del suo corpo sfiorarmi, una sensazione che mi faceva quasi tremare. Con un gesto semplice,
senza pensarci troppo, appoggiai i piedini nudi sul divano, lasciandoli scivolare piano fino a toccare la sua coscia—un contatto leggero, dolce, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
“Daiii, mi scaldi i piedini?” dissi, con una vocina morbida e un po’ scherzosa, come quando gli chiedevo qualcosa da piccola. Ma i suoi occhi si fermarono sulle mie cosce, lì dove la maglietta larga lasciava tutto scoperto, le mie ditina dei piedi cercavano di farsi strada sotto i suoi muscoli tesi, come una piccola talpa che cercava di intrufolarsi nei sui pensieri, uno scavare innocente che bruciava di qualcosa in più. Lo vidi trattenere il fiato, le mani aggrappate al divano come per non muoversi, e io mi morsi il labbro per non ridere, incantata
da quel gioco tenero—i miei piedi freddi contro il suo calore, il modo in cui cercava di non guardarmi troppo.
Era dolce, quasi buffo, e per un attimo mi persi in quella sensazione,
immaginando di accoccolarmi ancora più vicino, solo per sentire il suo respiro cambiare. Ma poi la porta si aprì, SBAM! Mamma entrò con passo svelto e le buste della spesa, l’atmosfera si fece ghiaccio. Anto balzò in piedi, borbottando un “Vado a prendere dell’acqua” che suonava goffo, e mi lasciò lì, sola sul divano. La maglietta larga mi cadeva addosso, troppo grande, e presi la copertina per coprirmi dalla vergogna, come se potessi nascondere quel battito
veloce che mi danzava nel petto. Dalla cucina arrivavano i rumori di mamma— pentole che sbattevano, e lei che borbottava qualcosa, sentii Anto salire su per le scale—e io rimasi ferma, un sorrisetto sulle labbra, pensando a quanto fosse stato bello solleticarlo, anche solo per un momento, prima che tutto si fermasse.
Quella sera, la chat prese fuoco.
Chat
Anto: “Non ce la faccio più. Oggi, quando mi hai toccato… volevo prenderti lì.”
Io: “E perché non l’hai fatto?”
Anto: “ma sei pazza ?”
Anto: “Hai visto mamma… può entrare da un momento all’altro.”
Io: “Dai scherzo!”
Io: “allora?”
Anto: ”allora cosa ?”
Io: “Quando?”
Anto: “voglio che sia tu a chiedermelo, Lisa…”
Io: “Voglio che mi guardi ancora. Nel bagno. Ma questa volta voglio che entri.”
Anto: “E poi?”
Io: “Vedrai.”
Spensi il telefono, il buio della stanza che mi avvolgeva come un mantello. Il dado era tratto.
Il bagno era un mondo a parte: l’aria densa di vapore, la luce fioca che danzava sulle piastrelle umide, l’odore pungente dell’umidità che si mescolava al nostro respiro. Anto era già lì, appoggiato al lavandino, il petto che si alzava e abbassava rapido, gli occhi lucidi di un desiderio che non cercava più di nascondere. Entrai con quella maglietta bianca—quella vecchia, sottile, la stessa del giorno in cortile—e chiusi la porta dietro di me con un clic deciso. Mi fermai un attimo, il cuore che mi scoppiava, poi feci scivolare le mutande giù, lente, lasciandole cadere a terra come un segreto. Mi sedetti sul bordo della
vasca, le gambe aperte, e lo fissai, un invito muto che non serviva parole.
“Guardami,” sussurrai. Chiusi gli occhi e lasciai andare, il getto caldo che scivolava lungo le mie cosce, un rivolo dorato che colpiva la vasca e si perdeva nell’acqua con un suono ritmico, ipnotico. Anto emise un gemito basso, crollando in ginocchio davanti a me, gli occhi spalancati, incantati. Allungò una mano, sfiorando l’interno della mia gamba con dita tremanti, poi si chinò, la lingua che raccoglieva una goccia dalla mia pelle. Tremavo, il piacere che mi attraversava come una scossa, acuto e improvviso.
“Di più,” disse lui, la voce spezzata, quasi una supplica. Scesi nella vasca, inginocchiandomi davanti a lui, e presi il suo cazzo in bocca, succhiandolo con una lentezza deliberata, assaporando il suo gusto intenso, salato. I suoi gemiti mi guidavano, un ritmo che mi perdeva in un vortice di sensazioni. Poi Anto mi fermò, il respiro corto. “Leccami,” implorò, e io non capii subito cosa volesse, cosa intendesse davvero, ma quelle parole mi colpirono come un fulmine—una voglia pazza di fare qualcosa di sporco, di proibito, che mi eccitava da morire
mi prese, e con un gesto rapido, quasi feroce, lo afferrai e lo feci girare, spingendolo contro il bordo della vasca. Mi chinai, le mani che gli afferravano le natiche, spalancandole con delicatezza. L’odore era buono, forte, muschiato, un misto di sudore e intimità che mi travolse. Passai la lingua lungo il contorno, lenta, esplorando, assaporando la pelle tesa sotto di me. Con un respiro profondo, feci sprofondare la lingua nel suo buco, spingendola dentro con decisione. Era caldo, stretto, e lo leccai con dedizione, la lingua che scivolava e
si ritraeva, seguendo i suoi rantoli. Ogni gemito era un fuoco che mi bruciava dentro.
Mi tirai indietro, il viso arrossato, e mi alzai. “Tocca a me,” dissi, la voce tremante. Mi sedetti sopra di lui, le gambe divaricate, lasciando intravedere tutto sotto. Lasciai andare di nuovo, il getto caldo che colpì il suo petto, scendendo lungo il suo stomaco, e lui aprì la bocca, avido, gli occhi chiusi in un’estasi totale. Mi toccai mentre lo facevo, le dita che scivolavano tra le mie labbra vorticosamente, il piacere che montava rapido e feroce. Venni con un grido, il corpo che si contraeva, l’orgasmo che mi squarciava mentre Anto mi
guardava, perso nel suo abbandono.
Poi lui mi afferrò, tirandomi sopra di sé. Entrò in me con forza, riempiendomi, e mi scopò senza sosta, i nostri corpi che sbattevano nell’acqua ormai tiepida.
Urlavo, il piacere che si mescolava al dolore, un’intensità che mi consumava.
Quando Anto venne, il suo calore mi inondò dentro e fuori, bagnandomi tutta, quella maglietta bianca ora zuppa di lui, aderente e maledettamente sexy, un tessuto trasparente che mi segnava come una seconda pelle.
Rimanemmo lì, abbracciati nella vasca, l’acqua fredda che ci avvolgeva come un sudario. Il bagno, con il suo odore acre e la sua umidità soffocante, era stato testimone della nostra caduta, un altare profano dove avevamo confessato ogni desiderio. Sapevamo che non saremmo tornati indietro, e in quel momento, esausti e appagati, non volevamo farlo.

Fine.

Racconto breve liberamente tratto dalla chat con Anto.
Alexx Cart3er Aprile 2025

Graditi i commenti 🙏♥️
scritto il
2025-10-16
4 . 5 K
visite
5 0
voti
valutazione
6.9
il tuo voto
Segnala abuso in questo racconto erotico

Continua a leggere racconti dello stesso autore

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.