Le mani dietro la cintura

di
genere
dominazione

Le Mani Dietro la Cintura – Parte 1: La Resistenza si Spezza da Sola

Il marciapiede sembrava più lungo del solito, come se la strada sapesse quanto ti costava camminare
Ogni passo era un fastidio alle ginocchia, alla schiena, ai piedi.
Ma continuavi, lento, silenzioso, lo sguardo basso.
I vestiti larghi. Il fiato corto. La notte addosso come una coperta bagnata.

Poi, il rumore. Una sirena, breve. Luci blu.
Un’auto della polizia ti tagliò la strada, si fermò di traverso. Il finestrino scese lentamente.

L’uomo dentro era massiccio, spalle larghe, pancetta solida.
Barba curata. Occhi castani, stretti, che sembravano studiare tutto e dire niente.
Parlava con la calma di chi non ha mai avuto bisogno di alzare la voce.

«Documenti.»

Tu rovistasti. Mano tremante, cercasti nel giaccone.
«Ce li… ce li ho, aspetta…» mormorasti.

Lui scese dalla macchina. Alto, compatto, presenza fisica imponente.
Si piazzò davanti a te. Il suo sguardo non era minaccioso. Era inevitabile.
Tu lo sentisti. Quella cosa strana. Come se ti stesse già leggendo.

«Da dove vieni? Dove stai andando?»

«A casa… cammino un po’, non posso dormire.»

Ti scrutò.

«Sali.»

Lo guardasti. Una frazione di secondo. Esitasti. Una microscopica resistenza.
Non ribellione. Istinto. Paura. Quella scintilla di “no” che a volte scatta nei corpi deboli.
Fecero il resto le tue labbra: «Non ho fatto niente…»

Fu allora che lui cambiò.

La calma non sparì. Ma si fece più netta.
Ti afferrò per il giaccone. Non con violenza, ma con precisione.
Ti girò. Ti spinse contro l’auto. In silenzio. Le manette scattarono dietro la schiena.
Lo sentivi vicino, il suo petto sulla tua schiena, il fiato caldo sull’orecchio.

«Hai detto qualcosa?»

La tua voce si ruppe: «Ho solo… solo detto—»

«Hai parlato troppo.»

Il tono era basso. Di ghiaccio. Ma autoritario come una lama.

Ti spinse nel sedile posteriore. L’auto partì. Non verso la caserma.
Nessuna spiegazione.
Solo silenzio. Dominio.

Ogni secondo nel retro sembrava durare un’ora.
Ti stringevi nei tuoi pensieri. In quella piccola ribellione — quasi ridicola — che adesso bruciava sulla pelle come una colpa.

L’auto si fermò.
Un cancello si aprì. Un garage buio. Serranda che si richiude alle spalle. Nessun testimone.

Ti tirò fuori per un braccio. Non disse niente.
Ti guidò come un pacco. Dentro uno stanzone vuoto. Luci al neon. Muro di cemento.
Una sedia di metallo. Un tavolo. Guanti. Manganello. Bottiglia. Corda. Nastro.

Ti mise al muro. Una mano sulla nuca.
«Sei stato lento a ubbidire. E io detesto i deboli che fingono forza.»

«Io… non volevo—»
Errore.

Ti colpì. Uno schiaffo pieno, forte.
La testa girò. Il muro ti sostenne.
Il cuore ti esplose nel petto. Non tanto per il dolore…
Quanto perché sapevi che aveva ragione.

«Parli ancora. Ancora quella voce. Quella voce da fallito che cerca di non affogare.»

Ti sputò in faccia.

«E adesso apri quella bocca per lo scopo che ti compete.»

Provasti a tirare la testa indietro. Una scossa minima. Di nuovo, timida ribellione.
E di nuovo, la sua mano si chiuse sulla tua nuca.
Ti costrinse in ginocchio.

Si aprì i pantaloni. Te lo mise in faccia.

«Questa è la tua verità. Questo è ciò che ti zittisce. Il cazzo di un uomo vero.»

E te lo infilò in gola.

Violento. Diretto. Profondo.

Ti mancava il respiro. Tossivi. Ma lui ti teneva. Ti guidava.
La sua voce era calma. Sempre calma.
E ora... quasi dolce.

«Hai provato a dire no. Ma il tuo corpo ha già deciso.
Io sono il tuo “sì”. Il tuo limite. Il tuo confine.»

Ti teneva fermo, mentre ti scopava la gola.
Poi si ritirò.

Ti tirò in piedi. Ti pisciò addosso.
Ti legò i polsi al gancio, alto, finché restasti appeso, mezzo piegato.
Nudo. Bagnato. Tremante.

Ti sputò in bocca.
Ti accarezzò la guancia.
E sorrise.

«Ora non serve più che ti ribelli. Tanto io ti ho già preso. E tu lo sai. Non c’è via d’uscita.
Solo obbedienza. E godere mentre crolli.»

E tu…
…stava già iniziando a piacerti
scritto il
2025-07-24
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