Uccia

Scritto da , il 2021-05-25, genere voyeur

Uccia, diminutivo dell’accrescitivo Antonuccia. Aveva sposato Donato, il primo che era passato sotto casa a fischiarle perché non vedeva l’ora di andarsene da casa. Aveva quarant’anni, leggermente burrosa, pelle chiara, mora, due figli che nella vita sarebbero stati due mascalzoni, Donato, manovale, preferiva le sere passate nelle osterie di vino prima che le chiudessero tutte.
Avevano il giardino di casa attaccato a quello di mia nonna, quella campagnola.
Dopo la morte improvvisa di Nonno Tore, mia nonna era rimasta sola. Cinquant’anni in quella casa piena di figli e di colpo si trovava sola. La botta fu dura. I figli presero la decisione di metterle in compagnia a turno uno dei tanti nipoti. Ne scelsero sei dell’età più adatta e dei sei io ero il più grande, sui diciassette anni. La domenica si era convinta a passare la giornata a casa di un figlio e almeno la festa era salva.
A casa, per la verità, ci stavo poco. Un accordo non detto con la nonna mi faceva andare via molto spesso. Io ero libero di andarmene in giro col motorino quando volevo e in cambio le riferivo dello stato delle sue campagne, quelle ormai passate ai figli. Ero lo spione che gli permetteva di non farsi infinocchiare sulle arature, le semine o la semplice pulizia dei campi.
L’esperimento durò solo un’estate poi la nonna si riprese e ricominciò a uscire di casa.
I pochi chilometri dalla costa si sentivano tutti, dopo pranzo la pennichella era inevitabile, anzi obbligatoria. Pure i campanili smettevano di suonare. Io riposavo in una stanzetta sul terrazzo senza porta, quasi sfinestrata, una sorta di stenditoio molto ventilato. C’era pure una specie d doccia.
Alle cinque del pomeriggio l’orologio del municipio svegliava le tremila anime che si alzavano insieme per andare pisciare. Mia nonna pisciava sempre in anticipo e per le cinque era già al rosario alla chiesa della Confraternita.
Perché questa è una storia di pisciate. In casa della nonna il bagno c’era, ma l’abitudine era andare a farla fuori nel cesso del giardino, una latrina a secco che in Puglia l’acqua è stata sempre un peccato sprecarla.
Io evitavo pure quello per non subire le sgridate della nonna sui bordi lasciati bagnati. Me ne entravo nel pollaio affianco e pisciavo a irrigazione. Il pollaio era sul confine col giardino di Uccia, separato da un altissimo muro di conci di tufo che le galline a furia di beccate avevano in più punti traforato. Salendo su un ancora più alto melograno che stracampava alla grande sotto il letame delle galline, potevo curiosare i giardini dei vicini. Donato e Uccia si erano fatto pure loro il bagno in casa con l’acqua corrente ma le vecchie abitudini erano dure a morire. Per fare il nuovo bagno avevano fatto fuori il cesso esterno e per Uccia questo era un problema. I maschi di casa pisciavano dove si trovano lei aveva proso l’abitudine di arrangiarsi accucciandosi dietro il casottino della legna.
Dallo stanzino sul terrazzo la vedevo rientrare in casa da quella direzione sempre sistemandosi i vestiti.
A diciassette anni noi maschi si piscia una volta sola al giorno, per una mezz’ora buona, e superando sempre i tre metri di gittata.
Ingannavo il tempo cercando di colpire le galline o mirando ai fori del muro di confine. Dove la Uccia liberasse la vescica esattamente non lo sapevo, sapevo solo che era dietro quel muro. Credevo nella legnaia, in realtà accanto a cielo aperto.
Nell’usanza contadina solo ai maschi non era concesso farsi vedere mentre pisciavano. Bisognava farlo con la figura completamente nascosta. Alle donne, coperte da lunghe gonne, accovacciarsi era un attimo.
Mia nonna, poi, classe 1901, portava poco pure le mutande, e nei campi quando ne aveva bisogno apriva le gambe e pisciava in piedi. Una caratteristica fisica delle labbra che aveva trasmesso pure a mia madre che gli permetteva di rilasciare un flusso a catinella senza sbavature o spruzzi laterali. Le vedevi ferme nei filari a riflettere e invece quando ci passavi vedevi il buco nella terra.
Quando quel pomeriggio a Uccia gli arrivavano gli schizzi da dietro un foro saltò più impaurita che sorpresa. Girava qualche topo e qualche lucertola e non si piscia con la fica spalancata a pochi centimetri da terra senza pensare a qualche pericolo.
Subito non collegai i fatti, qualche ora dopo me la trovai sul suo terrazzo a una ventina di metri che mi sgridava a gesti con una faccia tra il serio e la risata. Continuavo a non capire, mi misi quasi sotto il suo terrazzo e mimai un “che ti ho fatto”.
“Mi hai quasi bagnata tutta, cerca di stare più attento”. Avevo intuito, ma prima di scusarmi la volevo far stare sull’argomento. Le dissi che non ero io il cugino che innaffiava il giardino, e che continuavo a non capire. Lei cominciò un discorso di sottintesi, col massimo della malizia consentita a una donna sposata, circa altri tipi di innaffiature e con cosa si innaffiasse. A quel punto non avevo modo di tirarla avanti e le proposi scherzosamente di metterci d’accordo sui tempi. Lei mi rispose che non se ne parlava proprio, quando le scappava le scappava.
Se Uccia era rimasta bagnata dietro quel muro voleva dire che pisciava dietro qualcuno di quei fori. A un diciassettenne non puoi far sapere che dietro un foro c’è una fica che poi quello si mette di impegno.
Sul tardi salii sul melograno e in tante curiosate non mi ero accordo che dietro quei buchi Uccia pisciava regolarmente tre volte al giorno, ogni volta che usciva in giardino col fazzolettino di carta in mano. Dopo la bagnatura aveva tappato il foro nel tratto in cui si accucciava alla buona con un bel sasso a misura. Dall’alto si sarebbe visto poco e pure in una posizione a rischio sputtanamento.
Uccia le prime settimane non aveva capito ancora i turni di noi cugini, ma poi spiando il mio motorino parcheggiato sul marciapiede aveva capito la logica. Solo il sabato sarebbe dovuta stare attenta.
Avevo pure girato il letto in modo che coricato da almeno un lato avrei spiato i terrazzi dietro il giardino, e fu il sabato dopo che la vidi salire sul terrazzo e guardare sotto nel nostro giardino. Aveva in mano il fazzolettino di carta delle cinque e invece di usarlo subito se ne era salita sulle scale del terrazzo come a controllare se ci fosse una sorta di via libera. Fece finta di spostare qualche panno steso ai fili e poi scese a pisciare.
Due cose non mi quadravano: se hai pudore a pisciare nel solito modo al punto da salire sulle scale a controllare perché rientrando a casa ti aggiusti il vestito in modo così plateale? Lei sapeva dove riposavo e quel gesto di sistemarsi i vestiti l’avrei potuto notare. Era reciproco vederci dai terrazzi e dai terrazzi vedere almeno il mezzo giardino altrui.
In ogni caso era entrata in relazione con me. La terza settimana, al battere delle cinque, lei era salita velocemente sulle scale e si era acquattata dietro i vasi dei fiori poggiati sui parapetti. Come ad aspettare. Io spiavo dai minuscoli fori usati per stendere le matasse dei filati del telaio e tardavo ad uscire. Ma lei comunque aspettava. I ruoli sembravano invertiti, pensavo di spiarla ma pure lei lo faceva. Curiosità? Noia o porcellina?

Il sabato dopo, ai rintocchi, lei si era riseduta sui gradini, quasi nascosta. Si era portata delle arachidi come a passare il tempo. Sapevo già cosa fare. Mi tolsi i calzoncini e le mutande, mi misi gli slip da bagno e uscì sul terrazzo con la maglietta sulla spalla. Agli ultimi gradini della scala mi abbassai abbastanza gli slip e mi misi a pisciare verso la terra del giardino, quasi davanti a lei. Lo sventolavo da destra a sinistra da sopra a sotto, e, quando con la testa bassa ma gli occhi su di lei mi resi conto che guardava con interesse, me lo scappellai che cominciò a venirmi duro con il getto che divenne pure impedito e doloroso. Lo tenni duro a lungo a sgocciolare per bene anche perché non volevo macchiare gli slip da mare. Non andò via finché non fui rientrato in casa, anzi in cantina, che con la nonna al rosario da lì uscivo sulla strada senza aprire e chiudere troppe porte.
Spandeva il bucato in giardino o sul terrazzo. In giardino le sue sottane e l’intimo più di festa, sul terrazzo il resto. Non la facevo così culona o forse erano mutande con troppa stoffa. Me la immaginavo calarsele fino al ginocchio per pisciare piuttosto che scostarle di lato con la mano.
Mi interessai pure al resto del panorama per fare dei confronti fra il suo intimo di quarantenne e gli altri intimi stesi delle famiglie vicine. Erano anni di mutandine igieniche, aderenti ma sempre bianche e di cotone. C’era pure appesa qualche mutanda a foglia larga ante-litteram, tagliata e cucita a mano con stoffa normale, come quelle usate ogni tanto da mia nonna. Era un isolato con gente sposata negli anni venti con gente molto anziana, ma pure nipoti giovani, il contrasto tra mutandoni e i primi bikini da bagno messi ad asciugare era notevole.
Uccia non spandeva costumi da bagno da donna e quasi sicuramente andava poco o nulla al mare. Fuori casa metteva sempre qualcosa di nero per un lutto in famiglia, in casa vestiva i primi tessuti stampati a colori: un vestito intero aderente coi bottoni sul davanti o un vestito intero con l’orlo al ginocchio e le bretelline a nastro sulle spalle.
Donato nei mesi estivi faceva orario continuato, usciva prestissimo per lavorare nelle ore più fresche e ritornava verso l’una. Caricava i figli sulla motocicletta e partiva per il mare. Uccia li preparava da bere e da mangiare e ritornavano quasi all’imbrunire. Immaginare Uccia sola nel letto matrimoniale mezza nuda a riposare, magari col culo bianchissimo scoperto, mi partiva la sega.
Il sabato successivo feci spettacolo sotto la doccia quasi nudo e lei era ancora nascosta dietro i soliti vasi. La domenica dopo la nonna veniva a mangiare da noi. Era una giornata importante, mio padre mi concedeva di guidare la seicento per accompagnare la nonna da paese a paese. Non avevo ancora la patente ma viaggiavamo per stradine di campagna che alla nonna piaceva. Arrivammo davanti casa che la nonna tornava con le amiche dalla messa domenicale, pure Uccia era per strada coi parenti. Ogni sei domeniche toccava a noi portare a casa la nonna e Uccia lo sapeva. Sapeva pure che sarei ritornato dopo poco perché la nonna aveva le sue abitudini. Mio padre sistemava in cucina le cose preparate da mia madre per la cena e io quasi per abitudine uscì in giardino a pisciare. Andai quasi verso la fine del vialetto quasi sotto il muro di confine. Uccia uscì di casa di colpo, salì le scale di corsa e non vedendo nulla di interessante si sporse anche verso il basso e lì ci incrociammo finalmente gli sguardi. Io col cazzo in mano e lei che non aveva più scuse.
Uccia era una sveglia e lo capii subito. La trovai fuori dalla porta di casa con un pallone in mano che mi si avvicinò chiedendo ad alta voce se era uno dei nostri. Succedeva che i palloni dei ragazzi finissero da un giardino all’altro, ma la scusa era buona. Ci voleva poco perché una mamma di famiglia venisse sputtanata da un ragazzino con la voce che le piacesse guardare i cazzi. Era preoccupata. Mi ero seduto alla guida aspettando mio padre, e lei tardava a farmi la domanda con la promessa che voleva. Mi chiese invece perché la spiassi, quasi fosse solo mia la colpa. Le risposi sfacciatamente perché mi piaceva. Sembrò arrabbiarsi e lì mi venne la migliore cosa che mi potesse venire da dire. Ci vediamo sabato al solito posto.
Un mese e mezzo di piani e contropiani e le cose erano andate a posto da sole. Mi sentivo quello col pesce all’amo. Uccia aveva bisogno di avere delle rassicurazioni ma l’attacco iniziale fu inaspettato. Mi minacciò di dire tutto al marito che mi avrebbe conciato per le feste. Le risposi che se fosse stata tanto scema da dirlo al marito la prima a vedere le feste sarebbe stata lei. Donato glielo buttava dentro per abitudine e la cosa più erotica che le era successa nella vita erano state le mani di Donato sotto le mutande e la prima volta che la scopò.
Ci trovammo lei sulle scale io sotto. Le dissi di andare al posto in cui si sistemava a pisciare. Prevedevo una discussione lunga, almeno due ore prima del ritorno del marito e dei figli da mare. Io nel pollaio lei alle spalle. I buchi fatti dalle galline erano troppo bassi ma pure parlando sottovoce in piedi ci si capiva. Le chiesi se avesse già pisciato e lì mi minacciò di dirlo al marito. Seguì una discussione col tono della voce sempre meno alterata, poi quando mi sembrò il momento tirai io il vero argomento di quell’incontro. Le dissi che avevo più esperienza di quello che lei pensava, che ero stato anche con donne più grandi di me e che sapevo benissimo che una donna sposata va sempre protetta col silenzio. Piuttosto lei sarebbe stata capace di non farsi venire gli scrupoli e dire tutto al marito? o visto che si comunicava ogni domenica, glielo aveva già confessato al prete? Mi disse che erano fatti suoi, e io replicai che erano pure i miei. Avevo cominciato una storia con la nipote di un prete e non mi andava di passare in certi ambienti per uno sciupafemmine. Ci credeva e non ci credeva, ma poi voleva sapere.
Uccia aveva fame di erotismo, una gioventù passata isolata dalle coetanee, finita la scuola media era finita nei campi di famiglia. Aveva visto solo il cazzo duro del marito e questa era la vera ragione della curiosità che l’aveva tradita. Voleva parlare, sapere e raccontarsi. In mezz’ora ero diventato l’amica del cuore che non aveva mai avuto. Non usava ancora la parola cazzo, o fica, o scopare ma lo faceva capire. Aveva fame di pettegolezzi, quelli boccacceschi del paese ma io del suo ne sapevo pochi. Le raccontai invece delle signore villeggianti del mio paese che lasciavano i mariti a giocare alla zecchinetta per farsi scopare neppure tanto di nascosto anche da noi ragazzini. L’elenco era lungo, e lei tornava sempre a chiedere delle corna del paese, di nomi e cognomi. Era curiosità ma pure la prova per capire se fossi uno che sputtanava senza pensarci. Uccia era una donna semplice nella vita ma molto sveglia.
Avrei voluto chiederle tante cose, se fosse mai stata sul punto di tradire il marito, se si fosse toccata quando mi vedeva il cazzo, come le piacesse scopare, ma poi puntai tutto a un nuovo incontro il sabato dopo.
Ci vieni a pisciare qui sabato prossimo? Non te lo prometto, chissà! Se vieni ti racconto i particolari di una tua paesana sposata che non soddisfatta si è seduta sul cambio delle marce …
Il fatto era vero. Franco, un po bonaccione e forse per questo, era diventato il toy boy di Angela. Una che si era lasciata andare con questo ragazzo completamente plagiato. Nessuno ci avrebbe creduto, ma Franco non diceva bugie. Le prime volte che Angela si era fatta caricare in macchina e finita nel buio dei campi, Franco si era sborrato addosso e Angela, scoperchiata la cappotta della cinquecento, si era scopato il cambio fino a venire. Coi ragazzi del paese della nonna legavamo da piccoli al mare e le confidenze circolavano. Luigi quando vedeva la cinquecento di Franco lo fermava, apriva la portiera e si masturbava la faccia sul pomello. Ci pensate ragazzi? Questo è stato nella fica della signora Angela! Se la vendi me la compro!
Erano queste le storielle che piacevano a Uccia. Eravamo agli inizi di agosto e le scuole all’epoca cominciavano a ottobre.
Coi primi freschi delle cinque mi prendevo la sedia, un paio di libri o di fumetti e me ne andavo nel pollaio. Lei era sempre puntuale. Fu lei a chiedermi per prima se mi ero mai segato per lei e cosa pensavo quando lo facevo. Di seghe per lei avevo già superato la decina e non so perché lei era sempre sola in quel letto, con la sottana sopra le chiappe, le mutande un po spostate, il culo bianchissimo. Le diedi molto da riflettere, non pensava di essere così sensuale. Le chiesi se mi aiutava a farmi una sega lì sul posto. Non sapeva come fare, ma non disse di no. Le chiesi di aiutarmi in qualche altro modo, per esempio se il sabato dopo fosse uscita in guardino con la sottoveste più trasparente che aveva. Lo fece e me la guardai purtroppo da lontano dal terrazzo.
Aveva voglia di confrontarsi con le altre donne, sapere se anche alle altre donne era stato riservata la banalità della sua vita sessuale. Mi confidava se aveva scopato il marito e con questo intendeva dire che si era messa sopra, mi confidò pure la cosa più porca che avesse mai fatto. Quando le raccontavo delle signore villeggianti che si facevano scopare anche da due maschi alla volta quasi non ci credeva.
Mi venne l’idea di passargli qualche giornalino porno dai buchi del muro. Quelli fatti bene, con le storie inventate accanto ai servizi fotografici, di donne che la mollavano quando e come volevano, con gli annunci di mariti e moglie che cercano coppia per scambiarsi i cazzi e le fiche. I porno li procurava per tutti Gino, nullafacente nello studio dell’avvocato Nocita, marito di una vera scorfana. Il legale ne comprava due a settimana quando andava in città per le cause, sempre quelli, e poi li passava a Gino per farli sparire. Qualcuno la butto lì, che l’avvocato avesse messo qualche annuncio su quei giornali per trovare qualcuno che gli scopasse lo scorfano e la storia prese piede fino a diventare legenda. Li chiamavamo i caballero.
Ne scelsi uno con le foto più belle e con tanti racconti. Dentro le pagine le lasciai un bigliettino: segnami la foto e la storia che ti è piaciuta di più
Tornata col giornale il sabato dopo le avrei chiesto di farmi vedere la fica o almeno in qualche modo le tette. Ci vollero almeno altri due giornalini per le tette. E la sega. Lei leggeva a voce alta il racconto della settimana che le era piaciuto e ogni tanto mi chiedeva se avessi sborrato.
Ricordo ancora oggi quel culo bianchissimo, mai visto dal sole, e pure bianchissimo anche se in controluce, un ciuffone di peli nerissimi che pisciando si ammorbidivano e si allungano verso il basso, e un buco del culo rimasto ancora nascosto dalle chiappe da cui spuntavano certe setole da cinghiale. Per anni ho consultato libri di anatomia per capire l’esatta posizione della fica nelle donne. Era con le spalle al muro e la fica non l’avrei dovuta vedere, eppure quel ciuffone che bagnato perdeva i riccioli era chiaramente quello intorno al buco della fica.
C’erano donne che riuscivo a penetrare standogli sopra perfettamente parallelo ed altre che dovevi tirargli su le gambe. Donne che per prenderle in piedi da dietro era facilissimo ed altre che se non si fossero piegate a pecorina era impossibile. Pure il buco del culo era instabile, c’erano quelle che a pecorina te lo trovavi alla punta del cazzo e quelle con la stessa statura e lo stesso stacco di cosce troppo sopra o troppo sotto che bisognava aggiustare sempre qualcosa.
Uccia aveva la fica decisamente bassa. Pure quando pisciò con la faccia al muro riuscì a vedere il solito ciuffone allungarsi verso il basso. Però in quella posizione quando se la asciugava e allora apriva bene le gambe qualcosa di roseo si vedeva benissimo. Cominciavano sempre così i sabati fino all’inizio delle scuole. Aveva rimosso il sasso dal buco più grosso e quello che si poteva fare nire passando la mia e la sua mano da quel foro purtroppo troppo profondo e troppo basso si faceva. Si faceva accarezzare la fica quando si accucciava, ma solo dopo essersi liberata e ancora bagnata. Poi toccava a lei, ma la mia posizione era quasi impossibile.
Dietro quel muro lei si sentiva protetta, avrebbe fatto di tutto ma solo fino al punto di starsene nel suo giardino dietro a un muro dove lei poteva sempre smettere. Potevo andare a casa sua che era dietro l’angolo, farla venire da me, magari in cantina, oppure potevo appoggiare una scala a quel muro ed entrarle in casa senza che nessuno lo sapesse.
Poi finì l’estate, la nonna smise il lutto stretto e Uccia la rivitti in un anno solo un paio di volte la domenica pomeriggio quando accompagnavo in macchina mia madre a fare visita alla nonna. Era una tortura. Passeggiavano la domenica pomeriggio per le strade capolavori di ficaggine, minigonnate, con le calze a rete e i tacchi a spillo, spallinate, sciampate e truccatissime. Vere stoccafissi con un cazzo in mano.
Uccia, con la sua licenza di scuola media, i suoi due vestiti sempre quelli, mai fatta una permanente o una depilazione era l’erotismo in persona. Era un’auto familiare col motore truccato, e dopo quell’estate sviluppò tutto il suo potenziale nei limiti della sua vita di irreprensibile casalinga. La passione di scrivere la devo a lei e anche un buon contributo alla conoscenza delle donne. Nella sua ingenuità spesso non capiva i testi che accompagnavano i servizi fotografici di quei giornaletti porno, per la verità non aveva ancora capito che erano messi lì solo per riempire le pagine.
“Senti! Qui c’è scritto che a questa pittrice le hanno fatto un partouze !?!”. Imparò presto termini come cunnilingus o fellatio e poi passò alle trame di quei racconti. Una domenica uscì di casa di proposito appena vista la seicento, aspettò che scendesse mia madre e poi appena ripartito per fare il solito giro degli amici al paese della nonna mi fermò e mi passò alcuni fogli di carta. Me li correggi ?
Era un suo racconto ispirato da un servizio fotografico di una scopata in macchina. Alcuni giornaletti se li era tenuti. C’era pure un po’ di fantasia ma per buona parte era la storia della sua deflorazione nell’auto di Donato presa in prestito. Lessi subito i primi fogli, capii l’argomento e tornato dalla nonna la trovai ancora in casa. Te li lascio domenica nel solito buco. Lasciavo e prendevo.
Fu un atto di fiducia estremo per lei. Un conto quello che era successo con me fino ad allora, parola mia contro la sua, un conto avere in mano la sua scrittura e quello che c’era dentro.
Sistemata la grammatica e valorizzato il punto di vista estremamente femminile i racconti non erano male. Scriveva ormai scopare al posto di rascare, sperma al posto di sborra, pompino al posto di bocchino. Storie molto vicine alle sue possibili evasioni: scopate nei campi, l’operaio in casa e poi la sua fantasia con un ragazzo più giovane vicino di casa.
Nei dieci anni successivi Uccia si era raffinata moltissimo. Libera dalla crescita giornaliera dei figli si era dedicata di più a se stessa. Aveva smesso di legarsi i capelli a cipolla, provati vari tagli, imparato la depilazione e come godere di più a letto.
Donato e Uccia scopavano di fantasia la domenica sera, nei giorni feriali lei lo teneva contento con una sega o un pompino. Lei poi si sditalinava. Nei ditalini c’era tutto l’eros di Uccia, chiudeva gli occhi e tutto era patinato, possibile, reale.
Ma pure la semplice sega era fatta con stile. Tornava dal bagno con la mano piena di crema Nivea per la sega, oppure se la spalmava sul culo per i pompini, perché Donato la voleva col culo in posizione da infilarle dentro almeno un dito.
Quando il profumo della crema si spandeva per la stanza il cazzo a Donato si attivava all’istante. Le sue fantasie finivano nel suo letto e da lì nei suoi racconti. Le correggevo la grammatica ma poi affianco le annotavo un “lo fai davvero ?” e nel racconto dopo mi rispondeva.
Era avida di pettegolezzi, ma molte volte insisteva solo per provare se ero tanto stronzo da fare nomi e cognomi. Gli unici nomi che le feci furono quelli dell’avvocato Nocita e della moglie e non ne potei fare a meno. Gino il cazzone nullafacente pagato solo per smaltire i pornazzi, invece li timbrava sulla controcopertina coi timbri dello studio dell’avvocato prima di prestarli.
Poi in casa di Donato era arrivato il videoregistratore e tra mariti giravano videocassette di ogni genere. Poi coperte da qualche pretore consenziente dopo la mezzanotte erano arrivati il soft e l’hard su molte televisioni locali. Uccia sperimentò l’intimo erotico, le autoreggenti e i baby doll e riprese pure a farsi inculare.
Le famiglie in cui si guardavano i porno la notte si riconoscevano subito: avevano messo la prolunga al palo dell’antenna. Se c’era un televisore in camera da letto alla moglie dopo i piatti conveniva farsi il riposino prima possibile. E se Ilona Staller lo prendeva ogni volta nel culo alle mogli al mattino conveniva fare scorta di crema Nivea. I ragazzi che lavoravano alle casse dei negozi tenevano pure una particolare contabilità e gli acquisti massivi o ripetuti erano tutti oggetto di pettegolezzo.
Conobbi Uccia dieci anni dopo quell’estate. Alla veglia di mia nonna c’erano tutti, parenti, conoscenti, vicini di casa e gente che veniva a fare le condoglianze per osservanza religiosa. Alla sera erano rimasti solo i parenti stretti e i vicini di casa più intimi. I maschi fuori in giardino a parlare e fumare e le donne dentro sedute lungo le pareti delle stanze a recitare rosari.
Dopo mezzanotte si chiuse la porta sulla strada e si spensero le luci principali. Chi volesse uscire usciva dalla cantina passando dal giardino. Io provvedevo a chiudere la porta da dietro. Avevo steso un saccone vuoto su alcune balle di paglia e me ne stavo lì caso mai mia madre voleva farsi accompagnare per una scappata veloce a casa. Succedeva pure che qualche donna venisse nel pieno della notte a dare un cambio a un parente. Anche in cantina tenevo la luce spenta, ne trafilava un po dalla porta del giardino che era stata sempre senza serramento. Era nata stalla, in parte scavata nel tufo, con uno stanzone più grande per un paio di mucche e una stalletta per qualche ovino in fondo alla quale c’era una pagliera dove si versava dalla strada la paglia sfusa e la si prendeva da un piccolo varco all’interno posto in basso. Da anni non c’erano più animali, ne paglia, giusto le due balle su cui mi ero steso usate per asciugare il fondo del pollaio l’inverno.
Uccia che abitava a due passi dietro l’angolo della strada fu l’ultima di quelle che non si fermarono tutta la notte ad andare via. Un po ci speravo e pure lei. Aveva chiuso lei gli scuri della porta e la mia vera prima auto era ancora lì davanti la porta. Per lei o ero buttato sulla branda dello stenditoio del terrazzo, o da qualche parte in giardino o in cantina.
La riconobbi solo quando fu a due passi, vestita di nero col fazzoletto legato sotto il collo e la testa piegata a indovinare i gradini della scala poteva essere chiunque. Lei ancora non si era abituata al buio, la salutai e lei mi chiese se ero solo. Si era già eccitata al pensiero di potermi trovare sulla via dell’uscita. Si avvicinò quasi a contatto come ad offrirsi, cosa che stava facendo. Ci baciammo come due quindicenni, la accarezzai dappertutto fino a che le carezze divennero palpate. Al culo, alle tette, si strofinava la faccia contro la mia per prendere respiro e poi ancora a baciarmi a perdifiato. Mi spostai leggermente di lato e lei capì subito che era per darle modo di accarezzarmi più liberamente il cazzo. Quello che si era potuto fare in un minuto di rischio calcolato era stato fatto. Solo il cazzo non ero riuscito a tirare fuori e la sua fica era ancora asciutta. Le chiesi quanto poteva restare ancora fuori di casa e lei mi rispose che il problema era solo quel posto di passaggio.
Presi il saccone e poi lei per mano, mi infilai nella stalletta e poi piegandomi quasi a terra entrai nella pagliera. Poi tirai dentro lei. C’era come per tutta la cantina una puzza di chiuso, un po di luna entrava dal foro di carico in alto. La misi dove arrivava più luce, lei teneva sempre gli occhi chiusi, immaginando più che vedendo. Poi l’odore del profumo del suo golfino, l’odore della pelle del suo collo, l’odore della fica sulle mie dita coprirono ogni tanfo. Di quella pagliera si cominciavano a vedere i particolari. Si lasciò sfilare le mutande, le feci poggiare una gamba in alto su uno spuntone, lei capì e si sollevò la gonna per farsi sditalinare. Mi baciava, mi tastava il cazzo e le piaceva quello che faceva la mia mano. In quei momenti ti viene di sparare porcate o di fargliele dire a lei ma un bacio in bocca con le dita nella fica per una donna credo dicano tutto.
Venne subito ma non si riprese subito. Stesi per terra il saccone e la feci stendere. Le tirai il golfino in alto e le misi a nudo le tette. Profumavano di femmina, e mentre ci sbavavo sopra mi sfilavo i pantaloni e le mutande. La feci ruotare quel po’ di luce che schiarisse quella fica per cui mi ero tanto segato, poi le chiesi di girarsi per vederle il culo. Le alzai un po una gamba, le aggiustai l’oro della gonna appena sopra il buco del culo e quello era il quadro di Uccia che tante volte mi ero fatto immaginandola sola d’estate a riposare nel letto a culo nudo. Glielo dissi e lei mi rispose che ancora non aveva visto bene il mio cazzo da vicino. Cercava di prenderlo in mano stando a pancia in giù ma io non glielo favorivo. Prima volevo farglielo provare con quel culo bianco e burroso messo davanti. Prima di mettersi a pecorina si tolse la gonna. Quando le tirai sopra il golfino tutta quelle pelle chiara dai piedi fino alle spalle con la spaccazza della fica aperta era quanto un ventenne maturo potesse sperare da una donna sposata. I peli della fica bagnati erano diventati quel ciuffone che mi faceva toccare dieci anni prima dopo aver pisciato. Cominciai piano, volevo che parlasse, che mi facesse sentire la sua voce mentre si faceva scopare. Accelerai finché fu possibile ma poi non potevo venire dentro a una quarantenne ancora fertile. Si alzò sui ginocchi mi fece mettere davanti in piedi e si guardo per bene il mio cazzo. Lo prese in bocca che ci sapeva veramente fare. Muoveva la testa dal collo restando col busto fermissima. Leccava, mordicchiava, pompava. Vent’anni di pompini a Donato e tanto porno si vedevano tutti. Quando le dissi che stavo per venire tirò indietro il busto per non colare sul golfino che era rimasto arrotolato sopra le tette. La prese tutto in bocca, ingoiandola piano piano e alla fine premendo con un dito dalle palle fino alla cappella svuotò pure la canaletta leccando e ingoiando le ultime gocce. Poi lecco ancora tutta la cappella. Quelle cose che le mogli fanno di routine ai mariti nel letto per non sporcare lenzuola o fazzoletti.
Era passato solo un quarto d’ora. Uccia voleva ricomporsi per andare via. Le chiesi altri cinque minuti. Le tolsi anche il golfino e poi quello che restava del reggiseno. Era nudissima, per nulla imbarazzata anche se teneva sempre gli occhi chiusi quando era davanti a me. Le chiesi si accucciarsi e di cercare di pisciare, cosa possibilissima dopo le ore di veglia, l’orgasmo e la penetrazione.
Pisciava e io le tenevo la mano sotto, ci baciammo ancora e poi mentre si rivestiva le chiesi perché alla fine si era concessa così completamente. Mi rispose che voleva pure lei una storia tutta sua.

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