Il mio Demone

di
genere
confessioni

All’inizio, non ti accorgi di lui. Non del suo peso, non della sua ombra. La sua presenza è impercettibile, come la pressione dell'aria che ti circonda. La sua voce è un suono quasi inudibile, un bisbiglio così flebile e delicato da perdersi nel più leggero alito di vento.

Tu credi di essere ancora padrone della tua mente, convinto di essere solo. Ma non lo sei.

Lui è già dentro di te. Ed è paziente. Sta aspettando. Aspetta che tu ti abitui gradualmente, impercettibilmente, alla sua presenza, fino a quando il suo sussurro non ti sembrerà la tua stessa voce. E allora, si prenderà tutto.

Sono andato a trovare i miei, un rituale tranquillo che oggi si è trasformato in un'immer­sione in un passato che credevo sigillato. Entro nella mia vecchia cameretta, apro un cassetto dell'armadio; un luogo dove gli oggetti non muoiono, semplicemente attendono.

Tra vecchi portafogli vuoti e la bigiotteria rotta di un tempo dimenticato, un oggetto ha catturato la mia mano e, istantaneamente, la mia mente: un album di fotografie.

L'ho riconosciuto subito. L'ho afferrato. Già il tocco di quel piccolo libro incelofanato è stato strano. Siamo abituati alla luce fredda e fugace dei cellulari; riprendere in mano queste vecchie stampe, figlie della pellicola, ha riscoperto in me un sapore denso, un peso reale che la memoria digitale non può replicare.

In quel vecchio raccoglitore di foto c'era Maura, la mia compagna di allora.
Non erano foto qualsiasi; erano il trofeo di una battaglia che avevo iniziato con la mia gelosia. Maura, quell'estate, voleva andare a Latina dai suoi zii, e io, incapace di sopportare l'idea della sua libertà lontano dal mio sguardo, mi opposi con un ricatto viscerale. Lei promise un souvenir, ma io le impiantai l'ossessione: «Niente souvenir! Voglio delle foto di te in costume da bagno!»

Inizio a sfogliare, e la cronologia della mia malattia si svela. In una foto è vestita – quei fuseaux (Dio, esistono ancora i fuseaux?), aderenti, a strisce verdi e bianche, con una maglietta attillata coordinata. Mamma mia. Già in quel ritratto, vedo la stoffa in lotta, la carne che preme per evadere.

Giro la pagina del cagnolino, un attimo di pausa inutile.

E poi, l'esplosione. ODDIO!

La foto è lì, indimenticabile, brutale. Maura in bikini. È un primo piano, ma l'occhio non può fare altro che fissare il suo mezzo busto, quel mezzo busto che era il mio universo. Il suo reggiseno a coppa rigida fucsia, con ricami dorati in rilievo, era un oggetto condannato. Era in piena, ovvia, totale disfatta, incapace di contenere le sue gigantesche tettone. E le bretelline abbassate non facevano che rendere la sconfitta dell'indumento ancora più esplicita.

Che tettone! Non era solo ammirazione; ero ossessionato, in modo morboso, viscerale. La taglia era un mistero e una croce. Ricordo il mio goffo tentativo di regalarle un push-up nero, una quinta misura, che non riuscì nemmeno a indossare tanto era piccolo.

Tornai in merceria per la sesta. La commessa, con un tono che suonava a metà tra l'incredulità e la profezia, mi disse: «Questa è una sesta, con la coppa più grande che ho, più grande di così non ce l’ho. Se non le sta, le devi prendere per forza qualcos’altro!» Alla fine, Maura riuscì a indossarlo, ma la verità è che le sue gigantesche tette debordavano per metà. Il reggiseno, evidentemente, restava troppo piccolo, incapace di arginare la piena.

Trovare un reggiseno capace di contenerla era già un'impresa. Ma trovare un costume da bagno? Quella era una tragedia annunciata.

Ed ecco il ricordo più doloroso, il capitolo zero della mia follia. Mi ricordo la prima, e unica, volta che andammo un giorno al mare con i suoi amici: Daniele, Sergio e altri quattro nomi che la mia mente ha giustamente cancellato.

Già prima di partire ero in preda a una paranoia ossessiva, divorato all'idea che i suoi amici la vedessero in bikini. E Maura, con una leggerezza che a me parve sfacciataggine, indossò proprio quel maledetto costume fucsia che ora vedo in foto.

Fu un tormento fisico. Potevo sentirli. Non avevo bisogno di guardarli in faccia per sapere che tutti gli occhi di quel gruppo erano puntati su di lei. Erano puntati lì, sulla carne che io sentivo di possedere ma che loro stavano rubando con la vista. Soprattutto, c'era lo sguardo morboso di Daniele, un'avidità che mi arrivava dritta alle tempie.

Quello che provavo è un paradosso difficile da esprimere. Con uno sforzo titanico, avrei anche potuto sopportare quegli sguardi indesiderati che si posavano sulle tettone giganti di Maura, a patto che il reggiseno le contenesse. A patto che ci fosse un confine.

Ma non c'era. Ogni qualvolta Maura si muoveva, si spostava o si sdraiava al sole, la legge di gravità e la sua esuberanza annientavano il tessuto. Inevitabilmente, una porzione delle sue colossali areole rosa, larghe quattordici centimetri, scappava fuori dal bordo della coppa.

Maura, per un po', combatté. Era continuamente intenta ad aggiustarsi il reggiseno, a tirare su le coppe, cercando disperatamente di ricacciare indietro quel volume in eccesso. La sua era una lotta contro il suo stesso corpo e contro l'indumento, una lotta che mi teneva in una tensione nervosa costante.

Poi, si arrese. Si stancò. E con una sorprendente assenza di imbarazzo, lasciò che tre o quattro centimetri delle sue gigantesche areole rimanessero in bella vista, fuori dalle coppe. Erano lì, in piena esposizione, alla mercé degli sguardi di tutti i suoi amici che si godevano lo spettacolo rubato.

Il mio disagio era tangibile. Mi sentivo il viso rosso di rabbia e di vergogna. Non volevo che gli altri la guardassero, non volevo che ne fossero testimoni, ma ero paralizzato. Non potevo fare nulla.

Mi sentivo morire dentro. Intrappolato in una situazione insostenibile. Da un lato, il mio istinto di possesso urlava di coprirla con un telo, di impedire questa sfacciata esposizione. Ma dall'altro, la visione proibita della sua carne, ora condivisa e profanata, innescava l'altra reazione: all'interno del boxer, avevo il cazzo duro come la pietra, che scalpitava e pulsava.

Fu in quell'istante, in quel culmine di gelosia e brama, che sentii per la prima volta quella cosa dentro di me. Era potente, era irresistibile ed era terribile: Il mio Demone.

E quel coglione di Daniele, in quel momento, divenne l'agente del Demone. Cercava di fare il simpatico e, approfittando del fatto che Maura fosse sdraiata, le lanciava dei sassolini nel solco che divideva le sue tettone. Lo faceva per costringerla ad armeggiare proprio lì, tra la sua carne, proprio davanti ai miei occhi, aumentando la mia rabbia e la mia insopportabile eccitazione. Era nato.

Quella fu la prima volta che sentii distintamente la sua voce. Non era più il bisbiglio insidioso, ma un ruggito, un urlo che risuonò senza lasciare spazio al dubbio. Sapevo che Lui era in me, lo avevo avvertito, ma la familiarità lo aveva reso quasi accettabile, un inquilino fastidioso. Credevo, nella mia assoluta ignoranza, di avere ancora le chiavi di casa, di poterlo sfrattare a piacimento. Non capivo che Lui non era un ospite; era il mio carceriere.

La prova di quanto mi fossi sbagliato arrivò appena un anno dopo, durante la nostra prima vacanza insieme. Avevo scelto una piccola cittadina costiera, non troppo turistica. Inconsciamente, credo, cercavo un luogo dove il Demone fosse facilmente controllabile, dove il mio occhio potesse sorvegliare ogni potenziale minaccia. Non potevo sbagliarmi di più.

La nostra vita in quella stanza d’albergo divenne una costante agonia auto-inflitta. Dopo il sole, dopo il mare, appena varcavamo la soglia della camera, Maura si spogliava. Via il copricostume, e poi, con la naturalezza di un gesto quotidiano, via il reggiseno. Restava lì, nuda dal busto in su, la sua latteria gigantesca esposta mentre sistemava la roba da spiaggia. Lo stesso rituale dopo la doccia: solo le mutande, concentrata ad asciugarsi i capelli o a toccare il telefono, con il suo seno immenso completamente libero, fino al momento di uscire per cena.

E io? Io ero costantemente a cazzo duro. Dalla mattina in spiaggia, fino al letto la sera, ero in uno stato di perenne, dolorosa erezione. La mia mente non conosceva più tregua, intrappolata tra la visione proibita e il desiderio di chiuderla al mondo.
Un pomeriggio, rientrati in camera, Maura si tolse il reggiseno. Le dissi, quasi senza pensare: "Topless!" Lei abbozzò un sorriso, conscia del suo effetto, mentre restava in piedi con solo lo slip del costume indosso.

In quell'istante, la mia immaginazione, già allo spasimo, proiettò la sua figura sulla spiaggia, a tette di fuori, in mezzo a tutti. La vista mentale mi fece impazzire. Ero paonazzo, il cuore mi batteva come un tamburo di guerra, e avevo il cazzo teso che sembrava volesse sfondare il tessuto dei boxer. Il desiderio sessuale era salito a un livello tale che il mio cervello non riusciva più a filtrare il pericolo.

"Ti ci metteresti in topless in spiaggia?" le chiesi, la voce roca e tesa.

Lei si voltò, la domanda l'aveva evidentemente colta impreparata: "A te non darebbe fastidio?"

Tentai di spiegare l'inspiegabile, cercando disperatamente parole che non contenessero la parola "Demone" o "gelosia malata". "Sì, mi darebbe fastidio, molto fastidio, un fastidio atroce," dissi, ma la verità mi esplose dalla bocca, "ma allo stesso tempo il solo pensiero mi eccita da morire." E per provare la mia sincerità, o forse per supplicare la sua comprensione, tirai giù i boxer ai lati, mostrandole il mio cazzo teso allo spasimo che pulsava.

Lei ci pensò su. Si toccò i capelli, chiaramente a disagio per la richiesta. Poi mi diede una risposta che mi spiazzò.

"Mi vergogno troppo a farlo qui, in mezzo a tutta questa gente che non conosco," mi disse. Fece una pausa, e le sue parole seguenti squarciarono la mia logica. "Ma magari tra gente che conosco, con gli amici, mi darebbe meno fastidio e potrei farlo."

Come? Come? La mia mente si rifiutò di elaborare. Cioè, in che senso? "Non lo faresti qui, che non ti conosce nessuno, ma ti metteresti a tette all’aria in mezzo ai tuoi amici?" Le parole mi uscirono increduli, quasi urlate.

"Bè sì," mi rispose con una semplicità disarmante, "davanti a loro, potrei anche farlo, mi darebbe meno fastidio."

Quella risposta era per me un’aberrazione, assolutamente irrazionale, illogica. Come poteva sentirsi più a suo agio nell'esibirsi di fronte a un gruppo di amici che avrebbero potuto fantasticare su di lei, piuttosto che in mezzo a perfetti sconosciuti che non l'avrebbero più rivista?

E poi è successo. Mentre la ragione cercava un appiglio, l'immagine è esplosa nella mia testa, più reale di qualsiasi ricordo, più brutale di qualsiasi incubo.

Nella mia mente, apparve lei. Non un sogno, ma una visione incisa a fuoco vivo. Maura in spiaggia. Le sue tettone di fuori. Non per me, non per l'amore, ma esposte, offerte, in mezzo ai suoi amici. Vedevo le sue enormi mammelle con le gigantesche areole rosa nude e i suoi capezzoli turgidi dati in pasto agli occhi di tutti.

Quegli amici che la conoscevano, che la rispettavano di facciata, ma che ora avevano il permesso di guardare.

Li vedevo: i loro sguardi bramosi, famelici, non dissimulati. Immaginavo i loro pensieri sudici, i loro commenti: "L'hai vista? Le ha tirate fuori! Che latteria! Le leccherei tutte. Ci farei una bella spagnola. Che troia. Lui ha sicuro le corna."

Ogni loro sguardo era una lama gelida nel mio petto, un'onta intollerabile. L'angoscia mi ha stretto la gola, la gelosia mi ha bruciato le viscere, ma il corpo non ha risposto alla logica: il Demone ha ruggito.

Il sangue ha pulsato nel mio cazzo con una violenza inaudita. Il disprezzo e l'orrore per quella scena si sono trasformati in una eccitazione feroce, insopportabile. Non volevo vederla disonorata, ma l'idea che fosse preda di tutti, esposta e desiderata, ha nutrito la mia ossessione fino al parossismo. Il mio Demone era in piedi, teso e prepotente. E non c'era modo di farlo tacere.

Questa frustrazione alimentò il mio desiderio sessuale in modo esponenziale, e quel desiderio a sua volta fece crescere la gelosia in una spirale vorticosa, che si autoalimentava in una reazione a catena pronta a esplodere come una bomba nucleare.

Il mio Demone non era più un inquilino. Era il padrone di casa, libero e urlante. E io ero chiuso in una piccola stanza, costretto a guardare. Maura, con la sua innocente risposta, non lo sapeva, ma aveva appena liberato il mio Demone e mi aveva condannato alla sua prigione.

Descrivere ciò che Maura e le sue tette giganti mi provocavano non è facile, davvero. È una confessione che arriva con venticinque anni di ritardo, e finora non mi ero mai aperto in questo modo.

Quello che provavo per lei non era amore passionale; era un’ossessione morbosa, continua, malata, pericolosa. Questa, e solo questa, era la vera natura del mio Demone.

La realtà è che io ero in uno stato di perenne erezione. Ogni pensiero su di lei, ogni telefonata, ogni minuto passato insieme, innescava una reazione fisica immediata e violenta. Tutto il mio essere, la testa, il corpo, ogni singola fibra della mia esistenza, desiderava solo una cosa: Scopare.

Qualcuno, con superficialità, potrebbe dire: «Che c’è di male? Siete giovani!»

C’è di male, altro che c’è. C’era la necessità fisica di scopare continuamente. I miei tempi di riposo, di recupero, erano inesistenti. Il mio corpo esigeva un'orgia incessante, continua. Quando dico continuamente, intendo un'attività che poteva durare quattro, sei, otto ore di fila. Non importava. Dovevo farlo. Il Demone chiedeva la sua carne, e io non potevo sottrarmi. Cinque, sei, otto eiaculazioni, senza mai perdere l’erezione, che fossimo in auto, nella mia cameretta o in un luogo pubblico isolato.

A Maura, i primi tempi, piaceva. Era una ragazza sessualmente libera, capace di orgasmi multipli. Ma col passare del tempo, si ritrovò sempre più oppressa da questo desiderio insaziabile e morboso.

I giorni diventarono mesi, i mesi anni, e la mia necessità di scopare con Maura tutti i giorni, possibilmente tutto il giorno, non faceva che crescere. Le nostre vite sociali furono azzerate. Non si andava più al cinema, a cena, non si frequentavano gli amici, non si andava in vacanza. Ogni minuto che potevo trascorrere con lei veniva speso scopando.

Il mio Demone insaziabile pretendeva la sua carne, e la sua negazione, per qualsiasi motivo, era la scintilla per una gelosia che mi provocava un desiderio irrefrenabile, alimentando il circolo vizioso.

Come era prevedibile, Maura cominciò a negarsi sempre più spesso. Si sentiva soffocata, privata dell’ossigeno. E la sua negazione privava me del sesso continuo che il Demone esigeva come un usuraio. Dopo appena tre giorni di astinenza, ero in preda a dolori lancinanti ai reni, alla prostata, alle palle. E a poco serviva ammazzarmi di seghe per ore. L'autoerotismo era un misero palliativo, un analgesico che durava pochissimi minuti.

Non era quello che il Demone voleva: Lui voleva la carne.

Con il passare del tempo, i rapporti sessuali si diradarono, e io piombai in uno stato di paranoia crescente che sfociava nell’isteria.

Maura, ormai chiusa nella bolla claustrofobica che le avevo costruito intorno, non poteva più vivere. Lei voleva i suoi amici, voleva la sua vita. Mi chiese di tornare a uscire, almeno una volta a settimana, il martedì, da sola, per riappropriarsi di un pezzo della sua esistenza.

Fui costretto ad accettare, terrorizzato dall'idea di perderla. Ma in quel martedì, fuori dal mio controllo, restavo da solo con il Demone. Non sussurrava più nel mio orecchio, Lui urlava.

Erano mesi che non andavamo più a letto insieme, e lei era fuori, da sola, con altri uomini. Stavo impazzendo. E la situazione, ovviamente, peggiorò.

Gli amici di Maura si ridussero a uno solo: Sergio, quello che avevo già individuato sulla spiaggia anni prima. I due cominciarono a trascorrere insieme tutti i martedì, a volte uscendo, a volte restando a casa di lui, guardando film – a detta sua – con il mio tacito, agonizzante consenso. Il Demone, in quel martedì sera, non si limitava più a urlare. Stava programmando l'esplosione.

Poi, una sera, Maura mi fece quella domanda. Una domanda che, nella sua apparente ingenuità, era per me uno schiaffo in pieno volto, la prova che la mia prigione mentale si stava sgretolando.

"Pensi che ci sia qualcuno che ce l’abbia più grosso del tuo pipone?"

"Pipone," diceva, come mi chiamava in un tempo ormai irrimediabilmente lontano. Rimasi basito, incapace di elaborare l'assurdità e l'orrore della domanda. "Bé, certo che ci sarà," tentai di liquidare la questione, nascondendomi dietro un'ovvietà forzata.

Ma lei non era soddisfatta. La sua curiosità era autentica, e divorante. "Ma quanto sarà, venti centimetri?"

"Ma non so, forse, non l'ho mai misurato," risposi, e mentre lo dicevo, sentivo la menzogna amara sulla lingua. Sapevo benissimo che il mio sesso era lontano anni luce da quelle dimensioni mitologiche. Il terrore mi attanagliò.

Quella curiosità di Maura, quel dubbio, non poteva nascere dal nulla. Non poteva essere causato dalla mia virilità, che conosceva a menadito e che aveva ormai rifiutato da un anno. Quello era un confronto. Qualcuno, nel chiacchiericcio o magari vantandosi sfrontatamente, aveva insinuato in lei una curiosità sessuale, costringendola a un paragone.

Sapevo, con una certezza fredda e paralizzante, che quel "qualcuno" non poteva essere altro che Sergio.

Sergio era un ragazzone di oltre un metro e novanta, con una stazza imponente. E, francamente, la mia logica malata mi costringeva a pensare che avesse un cazzo perfettamente proporzionato al suo fisico monumentale.

Quella domanda fu l’ultima spinta. Il mio Demone, che fino a quel momento aveva solo urlato e pianificato, trovò la giustificazione definitiva per agire.

Le immagini si scatenarono nella mia testa, suggerite dal Demone, vivide, così reali da farmi credere di essere un fantasma intrappolato tra loro: Vedevo il suo enorme cazzo. Vedevo le vene che percorrevano il fusto pompare sangue fino alla sommità. Vedevo il gigantesco glande viola premere contro le labbra, costringendole a dilatarsi come mai prima d'ora per accogliere la sua dimensione imponente.

Lo vedevo penetrare lentamente nella figa che non riuscivo più ad avere. E poi vedevo Maura. Vedevo le sue tettone sobbalzare ad ogni affondo e la potevo sentire gemere come una puttana.

​Ed infine, vedevo l'enorme cazzo vomitare litri del suo schifoso sperma all'interno della figa che doveva essere solo mia. Riuscivo a sentirne persino la puzza nauseabonda.

Il mio controllo, da quell'istante, era finito. Il Demone aveva spezzato le catene. Ora Lui guidava le mie azioni completamente, e io ero ridotto a un osservatore, chiuso in una stanza buia della mia stessa mente, costretto a guardare.

Nonostante la scena fosse l'incarnazione del mio orrore e del mio desiderio di annientare, non potei farci nulla: il mio cazzo era teso e dolorante, il sangue pulsava nelle mie vene con una forza insopportabile. Era un bisogno così viscerale, così assoluto, che sapevo già che nessuna masturbazione o auto-erotismo al mondo sarebbe stato sufficiente. Quella visione, brutale e insopportabile, aveva innescato l'eccitazione più perversa e potente che avessi mai provato. Era il Demone, che si nutriva del veleno del tradimento e del rifiuto, che trasformava l'agonia in un piacere insano, una bugonia alla quale non potevo resistere.

In quei giorni, ho fatto cose che ora ricordo con orrore. Appostamenti furtivi, pedinamenti ossessivi, un campionario di azioni disperate. Fino a quando, un giorno, non sono riuscito a resistere: li aspettai fuori casa di Sergio. La spirale aveva toccato il fondo, e ora iniziava la caduta libera.

Eravamo lì, fuori dalla casa di Sergio, e la mia apparizione fu un lampo di realtà violenta. Loro due, Maura e Sergio, rimasero pietrificati. Maura, stranamente, aveva in volto quasi un senso di normalità, di rassegnazione al disastro imminente. Ma Sergio... Sergio è l’immagine che non dimenticherò mai.

Nonostante fosse un ragazzone di oltre un metro e novanta, forse trenta chili più pesante di me, la sua stazza imponente non valeva nulla. Tremava come una foglia al vento. Non tremava per me. Sergio non stava vedendo me. Lui vedeva distintamente il Demone, ne avvertiva la pericolosità imminente, l'istinto animale pronto a sbranarlo.

Il puro, assoluto terrore nei suoi occhi mi diede la forza che non credevo di avere. Fu come se il suo spavento, così palpabile, mi avesse risvegliato. Riemersi da quel limbo in cui il Demone mi aveva confinato. Riuscii a strappare il controllo dal volante della mia coscienza e a ricacciare Lui giù, in profondità, con una violenza che speravo fosse sufficiente a contenerlo.

Mi bastarono sei parole, pronunciate con una calma che non sentivo, per sbarazzarmi di lui: "Vai via, devo parlare con lei."

Sergio se ne andò. Non proferì parola, scivolò via in un modo così goffo, così vigliacco, che capii che l'umiliazione lo avrebbe consumato a lungo. Ma non era per lui che ero venuto.

Era arrivato il momento della verità con Maura. Le diedi l'ultimatum, freddo, definitivo: non poteva desiderare la vita che voleva – la libertà, gli amici, l'assenza di controllo – e avere me allo stesso tempo. Doveva decidere.

E, come era logico, successe ciò che il Demone temeva, lei scelse di riprendersi la sua vita, buttando via sette anni trascorsi insieme.
Il Demone scalpitava, urlava come una belva ferita per la carne che gli veniva negata. Ma io, con una lucidità amara e momentanea, le diedi le spalle. Me ne andai.
"Te ne pentirai," dissi, lanciando quella frase fatta che suonava profetica, ma alla quale, in cuor mio, non credevo affatto. Sapevo che l'attesa del suo ritorno sarebbe stata la mia tortura.

Quello che successe poi fu l'inferno. Il Demone, privato della sua fonte di nutrimento, non era scomparso. Urlava e sbatteva nelle profondità della mia mente. E non potendo più ottenere la sua carne, aveva iniziato a divorare me dall’interno. Non dormivo più. Non mangiavo più. Mi stava consumando.

Proprio quando avrei avuto disperatamente bisogno di amici e compagnia per aiutarmi a combatterlo, anche loro sparirono. Restai solo. Solo io e Lui. Eravamo intrappolati insieme, con l'unica differenza che ora io ero la sua preda.

Passai due anni in un inferno di solitudine e malattia. Il Demone, rinchiuso, non faceva che nutrirsi di me, consumando la mia carne, il mio sonno, la mia lucidità. Ero un guscio vuoto, circondato dal silenzio degli amici che mi avevano abbandonato.

Poi, all'improvviso, un insperata fessura nella mia oscurità. Un'amicizia inattesa, leggera, che mi ha lentamente, quasi impercettibilmente, tirato fuori dalla solitudine. E, subito dopo, una bellissima ragazza con cui stavo costruendo le fondamenta di un futuro rapporto.

E fu proprio in quel momento di rinascita, di equilibrio appena ritrovato, che Maura mi chiamò.

Dopo due anni di silenzio, mi invitò a passare una serata con lei. Il mio cuore si riempì di aspettative, miste a terrore e speranza. Due anni di purgatorio si aprivano ora su un mondo nuovo, ma l'invito di Maura rappresentava un ponte con la mia vecchia ossessione. Accettai.

Quando la rividi, ebbi un tuffo al cuore, ma non per la nostalgia. Aveva indossato quel vestito di ciniglia scollato che adoravo e, sotto, quel reggiseno: la sesta misura che le avevo regalato anni fa, quell'indumento troppo piccolo, condannato a soccombere al suo seno gigantesco.

L'impatto fu violento: la mia erezione fu immediata e potente. Il corpo, per un attimo, rispose alla vecchia catena, all'antico richiamo.

Passammo del tempo a parlare mentre cenavamo, riempiendo il vuoto di due anni. Poi ci appartammo. Era finalmente di nuovo lì, vicino a me. La sua presenza, il suo profumo, il ricordo della sua carne, facevano pulsare la mia eccitazione distintamente, inconfondibilmente.

Ma proprio in quell'attimo, in quel punto di massima tensione, capii.
Lui non c’era più. Il Demone se ne era andato.

L'eccitazione che provavo era normale, naturale, l'attrazione sana di un uomo per una donna. Non c'era più la gelosia corrosiva. Non c’era il bisogno ossessivo e insaziabile di scopare continuamente per placare una fame malata. Non c’era la volontà di possesso assoluto. Se ne era andato. La crisi, la solitudine, il tormento, avevano costretto il parassita a morire di fame.

Dopo quell’incontro, Maura tentò più volte di contattarmi, di uscire. Ma io inventavo scuse, non rispondevo ai messaggi. La mia non era una vendetta, non era l'adempimento della profezia che le avevo lanciato quando mi lasciò. Era qualcosa di molto più semplice e definitivo: non provavo più nulla per lei. L'ossessione era morta, e l'amore vero, se mai c'era stato, era svanito con essa.

La mia vita era arrivata a un bivio, e io avevo scelto l’altra strada: quella che mi portava lontano dalle ombre, verso la luce e la normalità.

Chiudo quel vecchio album di fotografie. Il click del cartone che si richiude è un suono definitivo, un sigillo sul mio passato. Lo ripongo con cura nel cassetto dell’armadio, lo lascio nella mia vecchia cameretta, e me ne vado. La porta dei miei genitori si chiude alle mie spalle, ma sento di aver lasciato indietro molto più di una casa d'infanzia. Ho lasciato un fantasma.

Torno alla mia vita, alla mia casa, e lei è lì. Mi aspetta sulla porta. Il suo viso è bellissimo, sereno, un porto sicuro. Le do un bacio, un gesto semplice e vero. Quella ragazza con cui scelsi di stare più di vent’anni fa è oggi la mia compagna di vita. Il nostro rapporto è fatto di quiete, di normalità, di una serenità che ho dovuto combattere per conquistare. Lei non sa nulla del mio Demone. Non c’è motivo che lo sappia; lui non esiste più, se n’è andato per sempre, sconfitto dalla fame e dalla solitudine che gli ho imposto.

Accendo la televisione. L’ennesima tragedia al telegiornale irrompe nel silenzio del nostro salotto.

È l’ennesimo schifo umano, un’altra famiglia distrutta. Un’altra persona che non ha saputo sconfiggere la forza oscura che l'ha abitata, un'ossessione che ha divorato la sua umanità e l’ha trasformato in un mostro.

Per questo "mostro schifoso" che ha ceduto, so che non ci può essere redenzione pubblica o compassione. Lui non è più un essere umano, è la manifestazione del suo fallimento, e merita solo il massimo della pena. Ma nel profondo, nel luogo dove ancora ricordo il bruciore, io so cosa il Demone ti sussurra all'orecchio e so quanto sia disperatamente difficile resistere alla sua violenza.

Voglio chiudere questo racconto con un appello. Se, tra le migliaia di persone che leggeranno queste parole, c’è anche solo una persona che si riconosce nell'inferno che ho descritto, mi rivolgo direttamente a te:

Non sarai mai abbastanza pronto per affrontarlo, non sarai mai abbastanza forte per combatterlo da solo.

La tua battaglia non è una vergogna da nascondere. Non c'è vergogna nel chiedere aiuto. Cerca qualcuno. Un professionista, un confidente, chiunque possa gettarti un salvagente. Non aspettare. Non permettere che il Demone divori la tua umanità, riducendoti a un guscio guidato solo dalla sua tirannia. Non aspettare che ti trasformi in un mostro. Chiedi aiuto, prima che sia troppo tardi.



Un uomo che ha sconfitto il suo Demone.
scritto il
2025-10-21
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