La stanza di Angela
di
Adriano Wilde
genere
prime esperienze
Sto scrivendo un libro di racconti erotici.
Esperienze personali condite da un po’ di fantasia.
Mi piacerebbe ricevere il vostro parere e sapere se sareste disposti ad acquistare il libro.
Qui sotto ne fornisco due versioni.
Una esplicitata e una soft.
Se vi va, ditemi cosa ne pensate e se ne preferite una, quale
Iniziamo con la versione hard
La casa della bisnonna, un grande apartment nel cuore di Roma, era un luogo sospeso nel tempo. Mobili scuri e massicci, di un legno che sembrava raccontare storie di decenni passati, riempivano il salone enorme, con le sue tende pesanti che filtravano la luce fredda di dicembre. Un lungo corridoio, come un’arteria pulsante, collegava le stanze da letto e i bagni, odoroso di cera per pavimenti e di quel profumo indefinibile di vecchiaia e famiglia. Era il Natale del 1983, avevo appena compiuto diciotto anni, e per la prima volta dormivo in quella casa da solo, senza i miei genitori o mia sorella, che erano ospiti dai nonni. Qui, tra le mura di questo mausoleo domestico, vivevano i bisnonni, la mia prozia con suo marito e Angela.
Angela. Il nome mi risuonava nella testa come un’eco proibita. Bionda, riccia, con i capelli che le cadevano sulle spalle in boccoli morbidi, un po’ rotondetta ma con una sensualità che mi aveva catturato fin da ragazzo. Era arrivata in quella casa nei primi anni ‘60, una ragazzina veneta di appena dodici anni, un misto di figlia adottiva e cameriera, ma col tempo era diventata parte della famiglia. La chiamavo “zia”, ma non c’era nulla di familiare nel modo in cui la guardavo. Da quando il sesso aveva iniziato a occuparmi la mente, Angela era diventata un’ossessione. La sua immagine mi accompagnava nei momenti più intimi, specialmente dopo quella volta, in estate, quando l’avevo sorpresa in bagno. La sottoveste trasparente, un seno scoperto, la mano che indugiava tra le cosce mentre si lavava al bidet. Quell’immagine si era incisa in me, un quadro che richiamavo ogni volta che la mia mano cercava sollievo.
Tornando in quella casa, la cercavo con gli occhi. La mattina, in cucina, quando ancora arruffata dal sonno preparava la colazione, la sottoveste lasciava intravedere la curva dei suoi fianchi, la spallina scivolava appena, e il coprispalle restava aperto un po’ troppo a lungo quando sapeva che ero lì. La sera, quando tutti dormivano, la porta del bagno socchiusa mi regalava frammenti di lei: il soffione della doccia che scorreva sul suo seno, tra le sue gambe, mentre si accarezzava con una lentezza che sembrava un invito. Non so se si accorgesse di me, ma il dubbio mi tormentava e mi eccitava.
Quell’anno, per Natale, il salone era stato trasformato in un tempio per le riunioni di famiglia, e io fui spostato nella stanza di Angela. Una camera piccola, due letti singoli separati da un comodino, le reti che cigolavano sotto i materassi sottili. La prima notte non dormii. La luce della portafinestra rischiarava il suo profilo: il viso rilassato, la bocca socchiusa, le braccia incrociate sopra la testa. Mi masturbai in silenzio, il cuore che martellava, il respiro trattenuto, finendo nelle mutande arrotolate sul mio cazzo. Mentre venivo, mi parve di sentire un mugolio, un sospiro rapido. Guardai verso di lei: era nella stessa posizione, ma il braccio destro era scivolato sotto le coperte. Il dubbio mi bruciò, ma non dissi nulla.
Il giorno dopo fu come tutti gli altri, ma non proprio. In cucina, mentre gli altri ancora dormivano, Angela mi posò una mano sulla spalla. La strinse, un gesto caldo, possessivo. Poi un bacio in fronte, lento, che mi fece tremare. Non parlammo. Non ce n’era bisogno.
Quella sera ero stanco, crollai nel sonno appena toccai il letto. Ma a un certo punto, nel cuore della notte, mi svegliai di soprassalto. Le coperte non c’erano più. Angela era seduta sul bordo del mio letto, la sottoveste che aderiva al suo corpo come una seconda pelle. La sua mano destra era posata sul mio cazzo, già duro, traditore del mio desiderio. Mi guardò, la sinistra sulle labbra per intimarmi il silenzio. Con un gesto lento, deciso, mi abbassò le mutande. La sua mano mi afferrò alla base, stringendo con una sicurezza che mi fece quasi svenire. “È ora che noi due affrontiamo questa cosa,” sussurrò, la voce bassa, rauca, come se stesse confessando un segreto a se stessa.
Non ebbi il tempo di rispondere. La sua mano iniziò a muoversi, lenta, deliberata, ogni movimento un’esplorazione che mi strappava il fiato. Le sue dita, calde, sicure, scorrevano lungo il mio sesso, stringendo appena, poi lasciando andare, in un ritmo che sembrava conoscere ogni mio pensiero. Mi guardava, gli occhi socchiusi, un sorriso che era insieme dolce e predatorio. Poi si chinò. La sua bocca, morbida, umida, mi avvolse. La lingua si mosse lenta, assaporando, mentre le sue labbra si chiudevano su di me. Gemevo piano, soffocando i suoni per non svegliare la casa. Ogni tanto si fermava, alzava lo sguardo, e il suo respiro caldo mi sfiorava, mandandomi in un’agonia di piacere.
Poi si alzò, la sottoveste scivolò a terra, lasciandola nuda nella penombra. Il suo corpo era pieno, morbido, con curve che sembravano fatte per essere toccate. Salì sopra di me, le sue cosce mi strinsero i fianchi. Con una mano guidò il mio cazzo dentro di sé, e scese piano, accogliendomi in un calore che non avevo mai conosciuto. Si mosse, dapprima lenta, poi sempre più decisa, i fianchi che ondeggiavano, il respiro che si spezzava in piccoli ansiti trattenuti. Le sue mani si appoggiarono sul mio petto, le unghie che graffiavano appena. Venni vicino a perdermi, ma lei rallentò, prolungando il tormento, il suo piacere che cresceva in silenzio, il viso contratto in un’espressione di abbandono. Quando venne, il suo corpo si irrigidì, un gemito soffocato le sfuggì dalle labbra, e io sentii il suo calore stringermi, pulsare attorno a me.
Non mi lasciò il tempo di riprendere fiato. Scese, si chinò di nuovo, e la sua bocca tornò su di me, avida, insistente. Mi prese tutto, succhiando con una fame che mi fece tremare. Venni, un’onda violenta, abbondante, e lei non si tirò indietro. Ingoiò tutto, il suo respiro che si mescolava al mio, fino a che non rimase nulla. Si rialzò, si ricompose, la sottoveste di nuovo al suo posto, come se nulla fosse accaduto. Mi guardò un’ultima volta, un sorriso appena accennato, poi uscì dalla stanza.
Rimasi sdraiato, il cuore che ancora correva, il corpo svuotato. Dal bagno, il suono dell’acqua che scorreva. Chiusi gli occhi e la immaginai, la mano che scivolava di nuovo tra le sue gambe, il soffione della doccia che seguiva i suoi movimenti. L’immagine mi bruciò dentro, ma non mi mossi. Era stato reale, eppure sembrava un sogno. Un sogno che avrebbe continuato a tormentarmi, ogni volta che fossi tornato in quella casa.
E ora la versione soft
La casa della bisnonna aveva quell’odore che riconoscevo a occhi chiusi: legno scuro, cera d’api e un filo sottile di lavanda. Il salone, immenso, era una cattedrale di mobili pesanti; il lungo corridoio portava alle stanze, tre camere da letto e due bagni che sembravano usciti da un’altra epoca.
Io avevo compiuto diciotto anni da pochi giorni e, per la prima volta, avrei dormito lì, ospite speciale per il Natale. I miei e mia sorella erano dai nonni; io invece ero stato sistemato nella camera di Angela.
Angela viveva lì da quando era ragazzina. Originaria del Veneto, bionda e riccia, con un corpo morbido ma deciso, faceva parte della casa tanto quanto i lampadari di cristallo o il tappeto persiano all’ingresso. Non era parente, ma negli anni era diventata una presenza costante, quasi silenziosa.
Da qualche tempo, però, per me non era più soltanto “Angela”: i miei occhi si soffermavano su di lei diversamente, trattenendo immagini e gesti. Una mattina d’estate, l’avevo vista in bagno, attraverso una porta socchiusa: la pelle chiara illuminata dalla luce, un gesto lento tra le gambe, il respiro concentrato. Quella visione mi era rimasta addosso come una febbre.
La camera era piccola: due letti singoli separati da un comodino. Quella prima notte non riuscii a dormire. La luce della strada filtrava dalla portafinestra e disegnava sul soffitto l’ombra del suo profilo. Angela dormiva supina, le braccia aperte, la bocca socchiusa. Ogni tanto il lenzuolo le scivolava, lasciando intravedere una curva, un chiaroscuro.
Quando finalmente mi addormentai, fu per poche ore. La mattina, in cucina, lei mi posò una mano sulla spalla e mi baciò sulla fronte. Un gesto semplice, ma con un peso diverso.
La notte seguente mi svegliai con la sensazione di un’ombra accanto al letto. Aprii gli occhi e la vidi: seduta sul bordo, in sottoveste chiara, i capelli sciolti. La luce della strada le accarezzava il viso e il profilo del seno. Portò un dito alle labbra, invitandomi al silenzio.
Non so chi si sia mosso per primo. Ricordo solo il calore delle sue mani, il fruscio della stoffa che cadeva, l’odore dolce e caldo della sua pelle. Il respiro di Angela diventava più rapido, trattenuto a metà, come se ogni suono fosse proibito.
Il tempo si fece viscoso, misurato solo dal ritmo dei nostri corpi. Sentivo il battito nelle tempie e nelle mani, sentivo la pressione crescente e la sua presa sulle mie spalle, forte, quasi dolorosa. Il mondo fuori dalla stanza si ridusse a un silenzio assoluto, interrotto soltanto da un sussurro strozzato.
Quando i nostri movimenti si fermarono, rimanemmo immobili per un istante, ancora intrecciati. Poi Angela si ricompose con calma, sfiorandomi appena, e uscì dalla stanza.
Dal letto, sentii l’acqua scorrere in bagno. Chiusi gli occhi e la immaginai lì, con lo stesso gesto lento e segreto che avevo visto anni prima, le sue mani a cercare quel confine dove si mescolano silenzio e piacere.
Esperienze personali condite da un po’ di fantasia.
Mi piacerebbe ricevere il vostro parere e sapere se sareste disposti ad acquistare il libro.
Qui sotto ne fornisco due versioni.
Una esplicitata e una soft.
Se vi va, ditemi cosa ne pensate e se ne preferite una, quale
Iniziamo con la versione hard
La casa della bisnonna, un grande apartment nel cuore di Roma, era un luogo sospeso nel tempo. Mobili scuri e massicci, di un legno che sembrava raccontare storie di decenni passati, riempivano il salone enorme, con le sue tende pesanti che filtravano la luce fredda di dicembre. Un lungo corridoio, come un’arteria pulsante, collegava le stanze da letto e i bagni, odoroso di cera per pavimenti e di quel profumo indefinibile di vecchiaia e famiglia. Era il Natale del 1983, avevo appena compiuto diciotto anni, e per la prima volta dormivo in quella casa da solo, senza i miei genitori o mia sorella, che erano ospiti dai nonni. Qui, tra le mura di questo mausoleo domestico, vivevano i bisnonni, la mia prozia con suo marito e Angela.
Angela. Il nome mi risuonava nella testa come un’eco proibita. Bionda, riccia, con i capelli che le cadevano sulle spalle in boccoli morbidi, un po’ rotondetta ma con una sensualità che mi aveva catturato fin da ragazzo. Era arrivata in quella casa nei primi anni ‘60, una ragazzina veneta di appena dodici anni, un misto di figlia adottiva e cameriera, ma col tempo era diventata parte della famiglia. La chiamavo “zia”, ma non c’era nulla di familiare nel modo in cui la guardavo. Da quando il sesso aveva iniziato a occuparmi la mente, Angela era diventata un’ossessione. La sua immagine mi accompagnava nei momenti più intimi, specialmente dopo quella volta, in estate, quando l’avevo sorpresa in bagno. La sottoveste trasparente, un seno scoperto, la mano che indugiava tra le cosce mentre si lavava al bidet. Quell’immagine si era incisa in me, un quadro che richiamavo ogni volta che la mia mano cercava sollievo.
Tornando in quella casa, la cercavo con gli occhi. La mattina, in cucina, quando ancora arruffata dal sonno preparava la colazione, la sottoveste lasciava intravedere la curva dei suoi fianchi, la spallina scivolava appena, e il coprispalle restava aperto un po’ troppo a lungo quando sapeva che ero lì. La sera, quando tutti dormivano, la porta del bagno socchiusa mi regalava frammenti di lei: il soffione della doccia che scorreva sul suo seno, tra le sue gambe, mentre si accarezzava con una lentezza che sembrava un invito. Non so se si accorgesse di me, ma il dubbio mi tormentava e mi eccitava.
Quell’anno, per Natale, il salone era stato trasformato in un tempio per le riunioni di famiglia, e io fui spostato nella stanza di Angela. Una camera piccola, due letti singoli separati da un comodino, le reti che cigolavano sotto i materassi sottili. La prima notte non dormii. La luce della portafinestra rischiarava il suo profilo: il viso rilassato, la bocca socchiusa, le braccia incrociate sopra la testa. Mi masturbai in silenzio, il cuore che martellava, il respiro trattenuto, finendo nelle mutande arrotolate sul mio cazzo. Mentre venivo, mi parve di sentire un mugolio, un sospiro rapido. Guardai verso di lei: era nella stessa posizione, ma il braccio destro era scivolato sotto le coperte. Il dubbio mi bruciò, ma non dissi nulla.
Il giorno dopo fu come tutti gli altri, ma non proprio. In cucina, mentre gli altri ancora dormivano, Angela mi posò una mano sulla spalla. La strinse, un gesto caldo, possessivo. Poi un bacio in fronte, lento, che mi fece tremare. Non parlammo. Non ce n’era bisogno.
Quella sera ero stanco, crollai nel sonno appena toccai il letto. Ma a un certo punto, nel cuore della notte, mi svegliai di soprassalto. Le coperte non c’erano più. Angela era seduta sul bordo del mio letto, la sottoveste che aderiva al suo corpo come una seconda pelle. La sua mano destra era posata sul mio cazzo, già duro, traditore del mio desiderio. Mi guardò, la sinistra sulle labbra per intimarmi il silenzio. Con un gesto lento, deciso, mi abbassò le mutande. La sua mano mi afferrò alla base, stringendo con una sicurezza che mi fece quasi svenire. “È ora che noi due affrontiamo questa cosa,” sussurrò, la voce bassa, rauca, come se stesse confessando un segreto a se stessa.
Non ebbi il tempo di rispondere. La sua mano iniziò a muoversi, lenta, deliberata, ogni movimento un’esplorazione che mi strappava il fiato. Le sue dita, calde, sicure, scorrevano lungo il mio sesso, stringendo appena, poi lasciando andare, in un ritmo che sembrava conoscere ogni mio pensiero. Mi guardava, gli occhi socchiusi, un sorriso che era insieme dolce e predatorio. Poi si chinò. La sua bocca, morbida, umida, mi avvolse. La lingua si mosse lenta, assaporando, mentre le sue labbra si chiudevano su di me. Gemevo piano, soffocando i suoni per non svegliare la casa. Ogni tanto si fermava, alzava lo sguardo, e il suo respiro caldo mi sfiorava, mandandomi in un’agonia di piacere.
Poi si alzò, la sottoveste scivolò a terra, lasciandola nuda nella penombra. Il suo corpo era pieno, morbido, con curve che sembravano fatte per essere toccate. Salì sopra di me, le sue cosce mi strinsero i fianchi. Con una mano guidò il mio cazzo dentro di sé, e scese piano, accogliendomi in un calore che non avevo mai conosciuto. Si mosse, dapprima lenta, poi sempre più decisa, i fianchi che ondeggiavano, il respiro che si spezzava in piccoli ansiti trattenuti. Le sue mani si appoggiarono sul mio petto, le unghie che graffiavano appena. Venni vicino a perdermi, ma lei rallentò, prolungando il tormento, il suo piacere che cresceva in silenzio, il viso contratto in un’espressione di abbandono. Quando venne, il suo corpo si irrigidì, un gemito soffocato le sfuggì dalle labbra, e io sentii il suo calore stringermi, pulsare attorno a me.
Non mi lasciò il tempo di riprendere fiato. Scese, si chinò di nuovo, e la sua bocca tornò su di me, avida, insistente. Mi prese tutto, succhiando con una fame che mi fece tremare. Venni, un’onda violenta, abbondante, e lei non si tirò indietro. Ingoiò tutto, il suo respiro che si mescolava al mio, fino a che non rimase nulla. Si rialzò, si ricompose, la sottoveste di nuovo al suo posto, come se nulla fosse accaduto. Mi guardò un’ultima volta, un sorriso appena accennato, poi uscì dalla stanza.
Rimasi sdraiato, il cuore che ancora correva, il corpo svuotato. Dal bagno, il suono dell’acqua che scorreva. Chiusi gli occhi e la immaginai, la mano che scivolava di nuovo tra le sue gambe, il soffione della doccia che seguiva i suoi movimenti. L’immagine mi bruciò dentro, ma non mi mossi. Era stato reale, eppure sembrava un sogno. Un sogno che avrebbe continuato a tormentarmi, ogni volta che fossi tornato in quella casa.
E ora la versione soft
La casa della bisnonna aveva quell’odore che riconoscevo a occhi chiusi: legno scuro, cera d’api e un filo sottile di lavanda. Il salone, immenso, era una cattedrale di mobili pesanti; il lungo corridoio portava alle stanze, tre camere da letto e due bagni che sembravano usciti da un’altra epoca.
Io avevo compiuto diciotto anni da pochi giorni e, per la prima volta, avrei dormito lì, ospite speciale per il Natale. I miei e mia sorella erano dai nonni; io invece ero stato sistemato nella camera di Angela.
Angela viveva lì da quando era ragazzina. Originaria del Veneto, bionda e riccia, con un corpo morbido ma deciso, faceva parte della casa tanto quanto i lampadari di cristallo o il tappeto persiano all’ingresso. Non era parente, ma negli anni era diventata una presenza costante, quasi silenziosa.
Da qualche tempo, però, per me non era più soltanto “Angela”: i miei occhi si soffermavano su di lei diversamente, trattenendo immagini e gesti. Una mattina d’estate, l’avevo vista in bagno, attraverso una porta socchiusa: la pelle chiara illuminata dalla luce, un gesto lento tra le gambe, il respiro concentrato. Quella visione mi era rimasta addosso come una febbre.
La camera era piccola: due letti singoli separati da un comodino. Quella prima notte non riuscii a dormire. La luce della strada filtrava dalla portafinestra e disegnava sul soffitto l’ombra del suo profilo. Angela dormiva supina, le braccia aperte, la bocca socchiusa. Ogni tanto il lenzuolo le scivolava, lasciando intravedere una curva, un chiaroscuro.
Quando finalmente mi addormentai, fu per poche ore. La mattina, in cucina, lei mi posò una mano sulla spalla e mi baciò sulla fronte. Un gesto semplice, ma con un peso diverso.
La notte seguente mi svegliai con la sensazione di un’ombra accanto al letto. Aprii gli occhi e la vidi: seduta sul bordo, in sottoveste chiara, i capelli sciolti. La luce della strada le accarezzava il viso e il profilo del seno. Portò un dito alle labbra, invitandomi al silenzio.
Non so chi si sia mosso per primo. Ricordo solo il calore delle sue mani, il fruscio della stoffa che cadeva, l’odore dolce e caldo della sua pelle. Il respiro di Angela diventava più rapido, trattenuto a metà, come se ogni suono fosse proibito.
Il tempo si fece viscoso, misurato solo dal ritmo dei nostri corpi. Sentivo il battito nelle tempie e nelle mani, sentivo la pressione crescente e la sua presa sulle mie spalle, forte, quasi dolorosa. Il mondo fuori dalla stanza si ridusse a un silenzio assoluto, interrotto soltanto da un sussurro strozzato.
Quando i nostri movimenti si fermarono, rimanemmo immobili per un istante, ancora intrecciati. Poi Angela si ricompose con calma, sfiorandomi appena, e uscì dalla stanza.
Dal letto, sentii l’acqua scorrere in bagno. Chiusi gli occhi e la immaginai lì, con lo stesso gesto lento e segreto che avevo visto anni prima, le sue mani a cercare quel confine dove si mescolano silenzio e piacere.
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