Debora III

di
genere
tradimenti

Potevano essere le cinque, mi dissi che mi dovevo calmare, che avevo molto tempo e che dovevo aspettare se e quando si sarebbe presentata l’occasione giusta.
Dopo un po' lei mi chiese di prendere le redini del lavoro e assumere la posizione davanti alla scrivania, per andare a incidere su una parte della relazione che conosceva meglio.
Così ci scambiammo le posizioni. Io mi spostai a sinistra nella sua sedia, quasi senza alzarmi dalla mia, producendomi in uno spostamento repentino.
Lei, rimasta mezza “incastrata” tra me seduto e la scrivania, dandomi le spalle, delicatamente e lentamente si spostò lateralmente verso l’altra sedia, piegando le gambe quanto bastava e andando un po' indietro col bacino, sporgendosi in avanti col busto per esigenze di spazio, e così assumendo una posizione incredibilmente ed involontariamente (?) sexy, e producendosi al contempo in un ghigno dolce, appena accennato. Io ammirai il suo spostamento da dietro di lei e non so come riuscii a trattenermi dal metterle una mano sotto la maglietta.
I suoi movimenti avevano “tirato” un po' la maglietta lunga che portava, scolpendo statuariamente il suo culo e mostrando in modo inequivocabile i contorni del perizoma azzurro.
Infine lei si sedette, mi guardò rinfrancata e mi disse con un sorriso sicuro: “Eccoci qua”.
Nel movimento fatto per sedersi, la sua maglietta era rimasta piuttosto alta e adesso che era seduta vedevo da vicinissimo le sue cosce che avevo prima ammirato a distanza.
Alzò leggermente il suo culo dalla sedia e con un movimento rapido tirò un po' giù la maglietta per coprirsi, ma subito dopo accavallò le gambe ed il risultato fu più o meno quello di scoprire ancora più di quanto si vedeva prima. Continuò ogni tanto ad “aggiustarsi” senza grandissimi guadagni.
Si mise a scrivere al pc, io presi qualche foglio in mano per darmi un tono, ma avevo gli occhi sul suo seno, che riuscivo più che a intravedere entrando con lo sguardo lateralmente dalla manica della maglietta molto larga, aiutato dalla sua postura.
Pensai quindi che potesse essere una buona idea usare la sua “strategia” di contatto apparentemente casuale, e così quando lei, senza smettere di scrivere, mi disse “che ne pensi?”, riferendosi ad alcuni passaggi di quanto aveva appena scritto, io poggiai la mia mano destra sul suo braccio sinistro, e le dissi “aspetta un attimo…” fingendo di leggere lo schermo.
Dopo un po' modificai strategicamente la mia posizione, discostandomi leggermente da lei, così da poter dire alla prossima occasione “aspetta un attimo”, appoggiando una mano verso il ginocchio piuttosto che verso il braccio. Cosa che feci di lì a pochi minuti. Appostai prima delicatamente poi fermamente la mia mano sopra il suo ginocchio, allungandomi col busto in avanti verso lo schermo e cercando al contempo di controllare il suo sguardo, la sua reazione.
Lei si girò di scatto verso di me; istintivamente ritrassi la mia mano facendo finta di niente e pensando a come giustificare il mio comportamento in caso di sua richiesta di “spiegazioni”, che però non arrivo.
“Non sono affatto sicura di quello che stiamo facendo”, mi disse con tono riflessivo, lasciandomi basito in quanto io riferivo le sue parole al nostro contatto fisico, ancora non intimo (o forse già lo era) ma non più inquadrabile come del tutto casuale. Chissà, mi chiesi, forse si riferisce al lavoro.
“Alla fine vedrai che faremo un buon lavoro”, risposi seraficamente. Lei rimase in silenzio, quindi riprese a scrivere riflettendo ad alta voce, poi arrivò ancora una volta la mia mano, stavolta un po' più in alto del ginocchio, le toccai quasi sfacciatamente la coscia sinistra, anche se da sopra la maglietta. Mi venne fuori una bella frase: “stiamo facendo progressi” le dissi, a bassa voce guardando il monitor.
Lei scavallò le gambe, io rimasi con la mia mano appoggiata alla sua coscia.
“Allora?” mi disse lei di grazia, “come la vedi?” aggiunse quindi, facendo cenno con la testa verso il monitor.
Qualcosa però in quell’istante cambiò. Per la prima volta percepii una declinazione diversa della sua voce, meno sicura, meno spontanea, leggermente incerta, non tremolante ma non più spavalda.
La guardai.
“Ti sei bloccato”, sussurrò con una voce calma ma asciutta, accennando a un leggero sorriso di riflessione e chinando poi il capo leggermente avanti.
Con una frase che non poteva essere più ambigua le dissi emozionato:
“Nemmeno io mi sento molto sicuro, come avrai notato”.
Era trascorsa quasi un’ora da quando eravamo seduti al pc.
Meno ambiguo però fu il mio comportamento.
Approfittando del suo silenzio, staccai un attimo la mano per rimetterla poi subito al proprio posto, ma non più sulla maglietta, che ora copriva in parte la mia mano, ma direttamente sulla sua coscia.
Lei mi guardò leggermente di traverso, poi si girò verso di me, fece un sorriso timido e disse semplicemente:
“Dai…”.
Era un “dai” come a dire “dai, smettila”, o forse come dire “dai… non me l’aspettavo, ma veramente dici?”.
“Dai….”
Non si poteva più tornare indietro.
Non sapevo se approcciarla come una maiala o come una verginella liceale, d’altronde fare l’innamorato non mi sembrava il caso, volevo semplicemente fare qualunque cosa che lei volesse per progredire nell’insinuarmi nella sua intimità.
Aveva uno sguardo dolce e preoccupato e quindi pensai istintivamente di prenderle la mano. Fu un gesto decisivo. Aveva la mano sudata, quindi secondo le mie elucubrazioni anche lei era emotivamente “coinvolta” in quel pomeriggio di apparente quiete lavorativa ma in realtà già estremamente bollente (sebbene nulla si fosse ancora consumato).
Ora o mai più.
Col cuore a mille la cinsi mettendole il mio braccio attorno ai fianchi. La tirai verso di me, aveva una sedia da ufficio con le rotelline. La maglietta lasciava scoperta gran parte delle sue cosce. Avvicinai la sua testa alla mia e le nostre labbra si incontrarono, finalmente.
Molto diverso da come lo avevo immaginato, ma indimenticabile.
Iniziamo a baciarci in maniera compulsiva, sulla bocca, le nostre dita si intrecciavano su entrambe le mani danno un qualche connotato “sentimentale” al nostro bacio. Senza toglierle la magliettona salii poi fino ai suoi seni con le mani, con una certa delicatezza, con gesti studiati e graduati. Lei partecipava al bacio quanto me. Eravamo sempre sulle nostre sedie.
Nelle mie fantasie, a quel punto era l’ora di spaccarla a pecora davanti al pc, ma nella realtà, il contesto era diverso. C’era qualcosa di particolare, qualcosa che ci legava in qualche modo complice e che ci impediva di lasciarci andare, subito, alle più inconfessabili sconcerie.
La presi in braccio, le sue gambe di traverso sopra le mie, e senza smettere di baciarla cominciai a palparle il suo fondoschiena, che non deluse le mie aspettative. Iniziai a toccarglielo da sopra la maglietta pregustandomi il dopo, per poi passare sotto, a contatto diretto col suo perizoma.
Lei si lasciava fare tutto e le piaceva molto a giudicare da come reagiva, ma non prendeva iniziative su di me. Noncurante di questa “mancanza di attenzioni” da parte sua, le alzai del tutto la maglietta e cominciai a baciarle follemente il seno. Vedevo che lei chiudeva gli occhi, alzava la testa, praticamente sembrava godere. Feci per abbassare il perizoma, da dietro, lei mi fermò con una mano ma io mi aiutai con l’altra e stavolta mi lasciò fare. Così le tirai giù dal davanti il perizoma, ancora però senza vedere la sua farfallina, coperta adesso dalla maglietta tornata giù per l’occasione.
Per evitare di cadere dalla sedia ci sedemmo sul pavimento, presi a toccarla in mezzo alle cosce e divampò un autentico incendio. La sentivo mia ormai. Non c’era più tensione ma solo godimento. Lei si sdraiò ed io mi sdraiai in modo da avere la mia faccia di fronte alla sua fica e cominciai a leccargliela. Finalmente ottenni un comportamento attivo da parte sua: entrò con la sua mano dentro le mie mutande e cominciò a menarmelo con la giusta dose di energia, ma dopo un po', visto che in quel modo faceva fatica, slaccio i miei jeans e fece uscire fuori il mio attrezzo arzillo. Pensai che ora lo avrebbe messo in bocca ma continuò a massaggiarlo lavorando di mano. Io, sdraiato o per meglio dire accartocciato di fianco sul suo pavimento scuro, con le mani incollate alle sue chiappe, le sue cosce attorcigliate tra le mie braccia, leccavo come un pazzo, azzardavo qualche dito dentro che generava spasmi inequivocabili, ogni tanto salivo con una mano verso le sue tette. Lei menava, decisa e costante. Mi alzai da terrà sulla schiena per guardarla negli occhi, lei mi guardo con un sorriso tenue e rassicurante e poi mi indicò di continuare lì sotto. Venimmo entrambi nel giro di una decina di minuti. Prima lei allagò le mie dita e la mia lingua, poi io: Deborah aveva manifestato di voler continuare a toccarmi dopo esser venuta, così mi girai sopra di lei e venni all’altezza del suo petto, per una sborrata che mi apparse come l’apocalisse e la fine del mondo insieme. Seguì un giusto tempo di silenzio.
“Ti è piaciuto?” mi disse, con tono neutro.
“Si, tanto, troppo”.
“Eri venuto qui per questo?”, il suo tono era quasi severo.
“Non credo”, mentii, aggiungendo banalmente: “e a te è piaciuto?”
“Si. Ora vado in bagno”.
Tornò dopo qualche minuto, bevemmo una birra guardandoci in silenzio. Poi guardò il telefonino e si allarmò:
“Oddio!”, esordì, “Sta per tornare mia mamma con il bambino, perché le è sopravvenuto un impegno. Sbrigati ti prego, devi andare via prima che arrivino loro”.
Adesso mi sembrava un’altra donna, capace di fare calcoli e ragionamenti. Mi chiesi se fosse vero o se era una scusa.
“E il lavoro?” feci io senza speranze.
“Potresti completarlo tu, e considerare ciò che è successo come una ricompensa”, disse. Ma non era una battuta per generare una risata complice, bensì una formulazione tendente al cinico, almeno così la percepii.
Capii che non c’era modo di fare diversamente, che la scopata andava rinviata, anche se ormai era cosa fatta.
Andai a mia volta in bagno e quando tornai trovai il mio zainetto già pronto per sloggiare.
“Ti ho messo tutto dentro”, disse con tono compassato, quasi rinunciatario e poi aggiunse, senza declinazioni sentimentali, più che altro con toni di cortesia:
“Mi spiace mandarti via così. Mi prometti di finire il lavoro entro stasera?”
“Perché, ho delle alternative?”, chiesi mentre le carezzavo una guancia.
Sorrise con fatalismo, un po' di senso di colpa e poca complicità.
“Mi spiace ma devi andare via subito, perdonami”
Le diedi un ultimo bacio piuttosto intenso; quando uscii dal suo appartamento lei chiuse subito la porta.
Giunto a casa, provai (senza successo) a rimettermi a lavoro, rinfrancato da quell’incredibile pomeriggio, e un po' deluso da come era finito, non solo perché non avevamo scopato ma anche per il suo atteggiamento quanto meno distaccato che aveva assunto negli ultimi minuti del nostro incontro. Ma confidavo ovviamente nel futuro immediato.
Accessi il PC, provai a fare ordine tra i foglietti che lei aveva messo dentro lo zaino. Erano tutte cose stampate, fogli scritti al computer, tranne un pezzo di carta, un foglio piegato a metà, che a penna riportava il messaggio scritto da Deborah mentre io ero in bagno:
“Scusami, è stata una follia, anche se è stato bello. Promettiamoci che non si ripeterà mai più nulla del genere. Se saremo capaci di rispettare questo patto, potremo continuare a lavorare insieme.”
Patto? Ma io quale patto avevo fatto?
Pensai che si trattasse dei classici sensi di colpi di una donna per bene che mandava un messaggio a me per mandarlo a sé stessa, e che in realtà l’intensità di quell’incontro non poteva che essere preludio di nuovi pomeriggi infuocati.
Ma non fu così. Ebbero la meglio le sue peculiarità caratteriali, la sua algida educazione, il suo sorriso, a volte vero e forse a volte finto, il suo essere “borghese”.
Io non fui mai insistente e non ebbi alcuna rivendicazione, ma cercai nei giorni seguenti al nostro incontro, di ricreare le condizioni per alimentare il nostro flirt. Lei me lo impedì con ogni fermezza possibile.
A distanza di 3 settimane, non trovandola nel suo Ufficio per diversi giorni, con la scusa di un lavoro che avevamo da tempo in sospeso chiesi a chi di dovere ed ebbi questa risposta:
“E’ stata trasferita al reparto fornitori, che come sai bene non si trova qui ma nell’altra sede, vuoi il numero?”.
“Ma avevamo dei lavori da completare”
“Cosa vuoi che ti dica, il trasferimento è avvenuto su richiesta dell’interessata, ma ha lasciato delle carte al capo, magari sarà tutto lì”.
Trovai la decisione sproporzionata visto che non avevo tenuto nei suoi confronti, dopo “il pomeriggio”, nessun comportamento inopportuno, nessuna proposta particolare, nessun atteggiamento diverso da quelli che tenevo in precedenza. Pensai che era un modo per punire sé stessa e me ne feci una ragione.
Non la vidi più per parecchi mesi, né osai cercarla in qualche modo. Quando ci incontrammo capii (capii?) definitivamente che non tirava aria di riallacciare alcunché, che la nostra storia di passione era stata la storia di un pomeriggio.
Deborah…. il pomeriggio più eccitante della mia vita.
Auguro a tutti una esperienza così, anche se ha il sapore amaro dell’incompiuta e ti lascia addosso un desiderio inappagabile e insopprimibile.
di
scritto il
2022-08-28
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