La Figlia di Arnaldo

di
genere
etero

la Figlia di Arnaldo

Una volta passare i pomeriggi all'oratorio era la mia più grande aspirazione poi ho scoperto che potevo spendere il mio tempo in modi più piacevoli e remunerativi anche se, l’oratorio era rimasto la scusa migliore per lasciare la casa dei miei nonni e svignarsela per qualche oretta senza destare sospetti.
Avevo camminato per più di mezz'ora in mezzo alla nebbia per raggiungere la cascina lungo la provinciale dove avevo appuntamento, tenevo il passo spedito sia perchè ero in notevole ritardo, sia per far fronte al freddo che ghiacciava i rami degli alberi.
Avevo in testa un berretto di lana, al collo la sciarpa ,le mani inguantate tuffate nelle tasche del piumino ma, la minigonna di jeans, i calzini di spugna neri e le sneaker non offrivano un gran riparo e in pratica dall'ombelico in giù ero un unico pezzo di ghiaccio, un forestiero, un tizio mai visto, vedendomi camminare lungo la strada si accostò e mi offri un passaggio sul suo furgone. Mancava più di un chilometro, faceva troppo freddo per rifiutarlo salii senza pensarci due volte.
All'inizio fu gentile, aumento l’aria condizionata per rendere la temperatura dell’abitacolo più piacevole, mi chiese come mai una ragazza così bella andava in giro da sola, dissi che dovevo raggiungere un amico.
Credo che l’orlo della mini fosse salito troppo visto che lui guardava più le mie cosce che la strada.
Fece qualche battutina idiota a cui io risposi con un sorriso e quando mi mise una mano sul ginocchio fu chiaro cosa sperava accadesse, fui divertita dalla sua iniziativa e lasciai che ci provasse.
Dal ginocchio la sua mano scivolò sulla coscia e più giù fino a lambire il cavallo delle mie mutandine, mi chiese se mi piaceva quello che stava facendo io gli feci notare che ormai ero arrivata a destinazione, lui deluso ma onesto accostò per lasciarmi scendere, lo ringraziai feci per aprire la portiera, lui mi prese per un gomito e richiamò la mia attenzione, aveva tirato fuori l’uccello dalla patta dei pantaloni e me lo stava mostrando, era ben messo.
Lo ringrazia per l’offerta ma, ero sul serio in ritardo e lo lasciai da solo, avviandomi verso la casa del mio ospite.
L'ingegnere era ansioso come al solito, mi accolse indossando le ciabatte di cuoio, le calze di filo di scozia nere ai piedi, una corta vestaglia rossa da camera aperta sul davanti.
Sotto la pancia prominente tappezzata di peli riccioli , gli slip bianchi come quelli di un vecchio, si notava la forma affusolata del suo uccello in parte in erezione, credo prendesse qualche rimedio farmacologico, per i nostri incontri.
Dovetti baciarlo sulle labbra, faceva parte del nostro accordo salutarlo in quel modo, come lo era rivolgermi a lui chiamandolo papino era una sorta di preliminare, non era piacevole farlo ma, gli accordi si rispettano.
L'ingegnere ,anzi , papino, era un viscidone, un grosso maiale di un metro e novanta per centoventi chili ,pelato, quattrocchi senza collo, con una strana barba ispida, puzza di ascella e un alito rancido, se non fosse stato per i soldi mi sarei tenuta ben alla larga da casa sua e dalle sue manacce.
Appena finii di togliermi, sciarpa, piumino, guanti e cappello, mi trascinò impaziente nel suo studio, la casa era come al solito un casino, la casa di un uomo solo e trascurato.
Si sedette sulla sua poltrona al centro della stanza mi fece subito spogliare, tolsi le sneaker, la maglia e la gonna, mi lascio tenere i calzini, almeno non dovevo camminare a piedi nudi su quel pavimento lercio. Fu felice di constatare che indossavo la biancheria intima che mi aveva regalato, un paio di mutandine di cotone elasticizzato rosa con dei cagnolini stampati sopra e un fiocchetto in raso in vita e un reggiseno a bustier dalle spalline sottili dello stesso colore, decoro e fattura, roba che io avevo smesso di indossare a 12 anni ma, che a lui attizzava parecchio.
Mi fece sedere sulle sue ginocchia e lì cominciò il mio supplizio, di bacetti e smancerie.
In realtà non era così male, i suoi baci erano teneri e ci sapeva fare con le mani, quando le sue dita si intrufolano nelle mie mutandine fu facile dimenticarsi dovero e con chi, dopo dieci minuti ero completamente bagnata.
Adorava il fatto che mi depilassi poco tra le gambe e che la mia passerina avesse un aspetto più naturale, come adorava leccarmela, sapeva farlo davvero bene usando una tecnica che impegnava la lingua e le dita, lo fece per un ora lasciandomi seduta sulla sua poltrona e regalandomi due orgasmi l’ultimo dei quali da lasciarmi senza fiato.
Ero ben dilatata, calda e lubrificata era ora di fottermi, la sua pancia mi premeva sul pube, non potevo vederlo ma, sentivo il suo cazzo sbattermi dentro.
L'ingegnere era concentrato, il volto rosso e ricoperto di sudore, mi teneva le cosce spalancate sollevate fino a toccare le spalle con le ginocchia, si affannava nell’atto di scoparmi.
Io cercavo di essere partecipe con il mio campionario di sospiri ,gemiti e gridolini, pizzicandomi i capezzoli, mordendomi le labbra e incitandolo a fottermi ancora più forte.
Solo in parte era per recitare un copione, nonostante lo disprezzassi profondamente, mi piaceva farmi scopare da “papino” e non credo che fosse solo per il generoso regalino che ne sarebbe venuto dopo ma, perchè in quella situazione stavo esprimendo la vera me stessa.
Se da un lato ero la figlia di Arnaldo il carrozziere, la ragazza del coro parrocchiale, la scout sempre attiva con le iniziative dell'oratorio, la studentessa modello da 30 e lode, la vicina di casa acqua e sapone, dall’altro ero anche quella che andava a casa degli uomini soli vestita da lolita a scambiare denaro con il sesso e tutto quello mi piaceva, mi faceva sentire appagata.




di
scritto il
2020-12-19
6 . 2 K visite
Segnala abuso in questo racconto erotico

commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.