A che serve l'estate - Tutto così rallentato

Scritto da , il 2020-04-02, genere etero

Forse è solo foschia, o forse è proprio nebbia. Anche abbastanza fitta, direi. Ma si vede benissimo che si sta alzando, sconfitta dal sole. Canticchio quasi tra me e me il verso di una canzone che sembra fatto apposta per un momento come questo: “mentre la scighera se ne va…”. Sorrido quasi soddisfatta. Sono nuda e mi sto finendo di asciugare dopo la doccia leggera del mattino. Saranno le sei e mezza, tra un po’ dovrò mettermi in moto per andare al lavoro. Ma con calma, c’è tempo.

La voce di Serena mi raggiunge alle spalle, è quasi un miagolio, come lo sono sempre le prime parole della giornata.

– Ma cosa è la scighera?

Mi volto e le sorrido il buongiorno. Spero di non essere stata io a svegliarla.

– La nebbia – rispondo.

– Ah… – esclama perplessa, pensandoci un po’ su come se non capisse bene – e tu come cazzo fai a saperlo?

– Ho dei privilegi speciali – rispondo – ad esempio, io, Google non lo pago…

Mi fa “che stronza…” con un sorrisino amabile e si stiracchia. La osservo. E’ bella Serena. Cioè, forse avrà qualche difetto tipo la vita non proprio strettissima e il petto un po’ largo anche se con due belle tette sopra. Nulla di grave, eh? Sottigliezze. E comunque a me piace tanto. Ed è bello vederla la mattina nuda, così come dormiamo da quando siamo arrivate qui, per difenderci dall’afa e non solo. Stanotte per la verità aveva un po’ rinfrescato, ma è bastato alzarsi e chiudere la finestra.

La raggiungo, salgo in ginocchio sul letto mettendomi a cavalcioni sopra di lei. Ripeto, non so perché, un altro verso della canzone di prima, ma anche stavolta è perfetto per questo momento: “Tutto così ral-lennn-taaa-tooo…”. La guardo negli occhi e forse c’è qualcosa di dispettoso nella mia espressione, nel mio sorriso. Avanzo con una tranquillità esasperante, le porto la fica a meno di cinque centimetri dalle sue labbra.

– Lecca – sospiro – ho voglia di essere leccata.

Serena porta gli occhi sul mio sesso, inspira.

– Odori di bagnoschiuma… – sussurra prima di darmi due colpetti con la lingua – anzi no, sopra sai di bagnoschiuma, qui di Chilly…

– Ancora per poco, spero – le dico in un soffio – lecca…

Mi afferra per le chiappe e mi tira a sé, incolla le labbra alla fica. Sento il calore e la scossa, ho uno scatto. Ma subito le dico “no, piano… fa’ piano”. E lei capisce, rallenta, si fa dolce, quasi inconsistente. Come voglio io, come ne ho bisogno adesso io. E’ incredibile la sua capacità di modulare il modo che ha di leccarmi, di scoparmi. A volte è una furia, spesso è una furia. E Dio sa quanto mi piace quando è una furia. Altre volte è di una dolcezza struggente. Come ora, come quando vuole scoparmi la mente e il cuore.

– Non mi hai chiesto nulla dell’altra notte sulla barca… – sussurra dopo avermi soffiato sul grilletto.

Chiudo gli occhi mentre rabbrividisco, sorrido, porto le mani sui miei capezzoli. Miagolo qualcosa. Lo so perché me l’ha detto, è uno dei nostri giochi preferiti. Non è solo voglia di raccontare, la sua. E’ voglia di dirci porcate mentre scopiamo. Lo facciamo quasi sempre, ci eccita. Ci eccita sin dalla prima volta che l’abbiamo fatto.

E’ vero, non le ho chiesto nulla. E lei non mi ha detto nulla. Ma non ce ne è stato quasi il tempo. Ieri mattina, dopo essere tornata dal Pub crawl, ho dormito appena un’ora prima di andare a lavorare. Per quasi tutta la mattinata sono riuscita a stare sveglia, anzi a un certo punto mi sono anche ripresa. Poi, quando lei è arrivata a darmi il cambio, tutta la stanchezza mi è crollata addosso. Tanto che non sapevo proprio se sarei riuscita a farmi quei dieci minuti di camminata dal bar a casa. Quando l’ho vista arrivare, non proprio fresca come una rosa ma decisamente riposata, non ci potevo credere. L’avevo lasciata ubriaca come una cocuzza mentre si inabissava con Phil nella cabina di quel veliero, prima che Murdo mi riportasse a casa. Prima che gli succhiassi il cazzo accanto al molo. E me la ritrovavo davanti in gran forma, sorridente, che mi diceva “metti un lettino all’ombra e dormi, ora ci sono io”. Le avevo risposto “no, no, vado a dormire a casa”. Davanti ai miei occhi vedevo solo il lettone e la stanza in penombra. “Se vai a casa allora fa’ un favore – mi ha detto – passa al minimarket e compra qualcosa, che ho invitato a cena Julius e Monika”. Ok, l’avrei ammazzata. Ma solo qualche secondo dopo. Prima ho dovuto chiederle per forza “e chi cazzo sono Julius e Monika?”.

Sono i due ragazzi che abitano sopra di noi. Quello abbronzato e con i capelli rasta e la bionda slavata che non saluta, l’urlatrice notturna. “Ma non abbiamo manco le sedie per farli sedere”, le ho detto. In realtà cercavo di trovare un pretesto perché non venisse proprio nessuno, per evitare di andare al minimarket, per dormire quanto cazzo mi pareva. Intontita com’ero, ovviamente, ho trovato il pretesto più idiota e aggirabile. “Gli ho detto di portarsi un paio di sedie, non ti preoccupare – ha risposto Serena – tu fai solo un po’ di spesa che poi ci penso io”.

Ve l’ho detto, l’avrei ammazzata in quel momento, però alla fine la serata non è andata così male. Un po’ perché avevo dormito tutto il pomeriggio, un po’ perché i due sono carini. E Monika non è nemmeno stronza, in fondo, è solo molto timida. Fanno anche loro i camerieri, a Hvar, ma avevano il turno libero entrambi, beati. Sono tedeschi, anche se Julius ha la madre che è nata in Namibia. E non è abbronzato, è un po’ scuro di suo. Quando se ne sono andati ci siamo spogliate e ci siamo messe a letto. Serena mi ha abbracciata e mi ha chiesto “come stai?”. Le ho risposto “bene”, poi non ricordo più un cazzo.

E adesso sono qui, seduta sulla sua faccia a farmi lappare mentre lei ha voglia di dirmi come è andata con quell’inglese sulla barca. A me, sinceramente, non è che me ne freghi un cazzo. Cioè, sì. Sono curiosa. Ma se me lo racconta tra cinque minuti o tra cinque ore è lo stesso. Adesso vorrei altro. Vorrei, appunto. Perché invece lei ha deciso di raccontarmelo. E di raccontarmelo ora.

– Lo sai che Phil non mi ha nemmeno scopata? – sussurra prima di slinguazzarmi il grilletto.

– Ah no? – miagolo combattendo contro i miei spasmi.

– Ha voluto che gli facessi una sega. O meglio, avevo iniziato così, ma è venuto subito… poi si è addormentato ahahah… e anche io eh? Svenuta. Poi però è arrivato Murdo… avrei giurato che ci avessi pensato tu…

– Gli ho fatto un pompino… – sospiro, ma quasi non riesco a concludere la frase perché la sua linguetta ha preso a frullarmi lungo la mia apertura.

– Si vede che non gli è bastato… è un porco… mai visto uno così porco – dice interrompendosi un attimo.

Ma a me non me ne può fregare di meno, ora. Non voglio che si interrompa, ora, non voglio che smetta, ora. E glielo miagolo, glielo ansimo, glielo imploro.

– Sere… non è che me lo puoi dire dopo? Perché io adesso… io adesso… adesso… oddio, ODDIO!

Violento, inatteso, ma allo stesso tempo lento, prolungato. Mi porta via molto prima di quanto pensassi. Non mi fa esplodere ma non mi fa capire un cazzo lo stesso per tanto tempo. E’ come se avessi qualcosa dentro di me che mi scuote a lungo e mi fa tremare. Mi riempie di brividi, mi azzera.

Mi ritrovo ripiegata su di lei, con la sua mano che mi accarezza la pelle della schiena e i suoi bacetti sui capelli. Non posso fare altro che ripetere sussurrando “oddio-oddio-oddio”, qualche volta ci ficco dentro un “Sere-oddio”. Tremo leggermente, in compenso dura tantissimo. E quando la pianto di ripetere “oddio” mi rifugio tra la sua spalla e il suo collo senza smettere di ansimare, scossa dai brividi. Ho un bisogno assoluto di poggiare la testa in quell’incavo. Non potrei metterla altrove, in nessun altro posto al mondo. Cazzo che venuta, penso. In un modo così particolare non sono mai venuta. O se sì, non me lo ricordo.

– Pensavo che Murdo te lo saresti portato su in casa – mi bisbiglia Serena all’orecchio.

Non sono molto lucida, ma so perfettamente cosa vuole fare. Vuole eccitarmi, condurmi ad eccitarla. Insomma, vuole continuare. Magari spera che io ora possa dedicarmi a lei così come lei si è dedicata a me. Tuttavia, non prendetemi per egoista o irriconoscente, non è questo ciò che voglio ora. Ma proprio perché sono su un altro pianeta, che non è più quello delle nostre lesbicate.

Cerco di accucciarmi per quanto mi è possibile sopra di lei. Non è una cosa facile, forse non si può proprio fare. Io sono pure più alta. Ma ho davvero bisogno di avere almeno la sensazione che il suo corpo ospiti il mio. Così come l’altra notte mi sentivo avvolta da quello di Murdo.

– Non mi dire così… – sussurro.

– Perché? – domanda.

– Dimmi che mi vuoi bene – rispondo cercando di accucciarmi ancora un po’ su di lei.

– Uh?

– Ho detto dimmi che mi vuoi bene… – e stavolta alzo lo sguardo incontrando i suoi occhi.

– Annalisa, cos’hai?

– Niente…

– Amore, lo sai che ti voglio un monte di bene…

– Sì, lo so, ma dimmelo lo stesso – le faccio con una voce che è solo un gradino sotto la modalità “implorante”. Fatico io stessa a capire perché le stia chiedendo questo.

Serena non me lo dice, mi tira su e mi abbraccia. Forte. E’ un trasferimento di affetto in piena regola e io me lo godo tutto. Solo dopo un po’ inizio a stringerla anche io e ad accarezzare la sua pelle nuda. La desidero ancora, ma non è questo il punto. In questo istante il piacere di un abbraccio come questo mi sembra superiore a tutto il resto. Mi viene da piangere per quanto mi piace, ma ho una vaga sensazione che mi venga da piangere anche per qualcos’altro, non saprei dire cosa. Dovrei parlare, dovrei dire… boh, non so nemmeno io che dovrei dire. Ma non mi viene niente. Restiamo così, a stringerci forte forte, per diversi minuti.

All’improvviso è lei che parla. E forse è meglio così, forse aspettavo proprio quelle parole.

– Lo so che sono stata stronza e intrattabile, lo so – mi sussurra all’orecchio mentre riprende ad accarezzarmi i capelli – isterica… è da tanto che lo sono… con tutti, non solo con te, ma con te mi dispiace proprio, non volevo…

– Lo so tesoro, non ti preoccupare, lo sai che non posso avercela con te… anzi, non me ne frega un cazzo, tu con me puoi essere tutto quello che vuoi – le rispondo pensando alla sbroccata a letto di qualche sera fa, a quando era scoppiata a piangere dicendo che era tanto infelice perché Lapo… beh, ok, Lapo in questo momento è in vacanza con Kirsten o ci sta per andare.

Che poi, a essere oneste, non è proprio così vero che possa essere con me “tutto quello che vuole”. Non vi nascondo che in questi ultimi tempi è stato parecchio pesante sopportarla. Anzi, la mia paura a un certo punto è stata proprio di non farcela più a sopportarla. Quante volte ho dovuto tollerare i suoi lunghi silenzi, i suoi commenti sarcastici e cattivi su chiunque e su qualsiasi cosa, gli insulti riservati a Kirsten che invece proprio non se li merita, le lunghe, infinite, tirate su Lapo… Cioè, cazzo, lo capisco che quando si sta male per qualcuno tutto il resto del mondo sembra farti schifo. Ma porca troia, assorbire tutto come una spugna è difficile, sapete?

Serena mi afferra la testa con entrambe le mani e mi fissa negli occhi. Come se seguisse i suoi pensieri e io non avessi nemmeno parlato. Mi guarda e mi dice “se non ci fossi tu io non so proprio come farei, sai?”. E dal modo in cui mi guarda non posso dubitare nemmeno per un attimo che sia così.

E quindi, cazzo, che vi devo dire? La situazione si è completamente ribaltata. Adesso sono io che rassicuro lei. Senza parole, senza altro che bacini e carezze. Mi sembra incredibile. Mi sembra di non essere mai stata così languida e svenevole. Non solo con lei, ma proprio con nessun altro. Cosa cazzo mi sta succedendo? Torno con il pensiero alla notte del pub crawl e a quando mi sono domandata se per caso non mi sia innamorata di Serena, se il nostro volerci bene non sia qualcosa di più. Sapete quelle cose, no? Quelle che non si riesce a fare a meno di una persona e vi sembra che tutto tra voi e quella persona sia esclusivo, totalizzante, reciproco e tutto il resto se ne può tranquillamente andare affanculo. Quelle cose che la gente chiama amore. Io così mi sentivo con Tommy, quando stavamo insieme. E ad ammettere con me stessa che fosse amore ci ho messo anche un bel po’ di tempo. Quando tra l’altro era troppo tardi. Non era per caso a una cosa del genere che pensavo l’altra notte, al pub crawl?

Quasi magicamente, anche i pensieri di Serena vanno a quella notte. Mi dice “scusa per l’altra sera, lo so che non te la sei goduta perché eri preoccupata per me”. Mi rialzo sulle ginocchia e la guardo, faccio spallucce. Le dico “non importa”. Poi la sveglia del telefono infrange tutto. Caaazzooo mi sono dimenticata di silenziarlo.

– Resta – miagola Serena accarezzandomi il viso.

– Non posso, lo sai…

– Resta – ripete, restando con le labbra socchiuse per chiedere un bacio.

– Ho poco tempo, lo sai – le dico restituendole la carezza – giusto una sveltina…

Lo dico sapendo che non accetterà. Non è un momento da sveltine, questo. Però con Serena non si può mai dire. La bacio e le infilo la lingua in bocca.

– No… no, non importa. E’ come la canzone, è tutto così rallentato… vorrei fare l’amore con te tutto il giorno.

– O tutta la notte – le sorrido. Ed è un sorriso che è una promessa.

Restiamo a guardarci ancora, in silenzio, per una bella manciata di secondi. Ha il respiro un po’ affannato e, per me, le sue mammelle che si sollevano e si abbassano sono un richiamo irresistibile. Ma devo calmarmi. Le dico “faccio un’altra rapida doccia”, lei risponde “farai davvero tardi, allora”. “Sono una runner”, ribatto. Mi infilo sotto la doccia, dieci secondi, non di più. Torno in camera asciugandomi sommariamente e comincio a infilare gli shorts, i sandali e una maglietta nello zainetto del mare. Serena è sul letto, come l’avevo lasciata. La carnagione già abbronzata che risalta sul bianco del lenzuolo. I triangolini di pelle più bianca sui seni e sul pube. La desidero così tanto, ho una voglia che mi scoppia dentro.

Vede che riempio lo zainetto con le cose con cui mi dovrei, in teoria, vestire e mi domanda “che cazzo fai?”. Le rispondo “corro, Sere, stamattina ci corro al lavoro” mentre afferro le Adidas. “Corri nuda?”, chiede lei ironica. Le rispondo “scema”, ma poi penso che è meglio se mi infilo le mutandine del costume prima delle Adidas. Mentre lo faccio e mentre mi allaccio le scarpe mi sento i suoi occhi addosso, il suo sguardo pieno di voglia è come se mi bruciasse la pelle.

– Perché mi dicevi prima che Murdo è un porco? – le domando allacciandomi il pezzo di sopra del costume.

– Ahahahahah… pensavo di raccontartelo mentre mi scopavi…

Sorride e apre le gambe nell’invito forse più osceno che mi abbia mai rivolto. Le sorrido anche io. Mi piego di colpo tra le sue cosce e le do una leccata profonda che le provoca un gemito lunghissimo, di quelli che dicono “è bellissimo, adesso continua e poi fottimi”. Ma a essere sincera devo fare un bello sforzo anche io per fermarmi, perché il suo sapore mi attira come una calamita. A tradimento, le infilo un dito nella vagina e lo roteo un po’, lei squittisce. Mi succhio il dito guardandola, sono certa che i miei occhi le sorridano. E’ buonissima.

– Scappo! – le dico di colpo raccogliendo lo zainetto e avviandomi alla porta – sai che hai un po’ di ricrescita?

– Troia! – mi urla dietro lei. Un po’ scherza, un po’ è delusa, un po’ è disperata.

Mi fermo con la mano sulla maniglia ormai abbassata. Ho un crampo di voglia che si aggiunge a quello che ho appena avuto mentre la slinguazzavo. Mi volto verso di lei, quasi mi sento il sangue alla testa.

– Lo sai che ogni volta che mi dici troia mi fai bagnare? – le sussurro.

Poi apro la porta e corro giù per le scale.

Sì, sono una runner. Correre è la cosa che mi piace di più in assoluto. Più della palestra, più del tennis, dove ero anche piuttosto bravina. Quando corro mi sento leggera. E stamattina mi sento anche più leggera del solito. Dovrei avere le gambe un po’ molli e invece niente. Arrivo al nostro chioschetto senza nemmeno un minuto di ritardo. Anzi, a ritardare sono Carlos e Mario. Jagoda e la piccola Ivana sono già lì. La “piccola” per modo di dire. Perché sì, d’accordo, avrà tredici o quattordici anni, ma è lunga lunga, più di me. E sottile. Da quando sono qui non solo non mi ha mai rivolto la parola, ma non mi ha mai nemmeno guardata in faccia. E nemmeno a Serena. Non lo so se è timida, inizio a pensare che per qualche strano motivo ce l’abbia con noi, anche se non saprei dire perché.

La mattinata scorre veloce, anche se il lavoro è tanto, c’è davvero un sacco di gente e, cazzo, non avrei mai creduto che avessero tutti, ma proprio tutti, voglia di gelati, acqua, coca cola, caffè e quant’altro. E che cazzo, guardate che tutta sta roba vi fa pure male! Poco prima dell’ora in cui i tavoli per il pranzo cominciano ad affollarsi arriva Serena. Ha stampata sulla faccia un’espressione sorridente ma in modo indecifrabile. Le faccio un cenno da lontano come a chiederle “che c’è?” mentre stappo una birra per un cliente. Lei si allarga in un sorriso ma non dice nulla. Di colpo mi rendo conto che stamattina, a letto, le ho chiesto la stessa cosa che chiesi a Stefania dopo avere fatto sesso con lei per la prima volta: “Dimmi che mi vuoi bene”. Lo so che mi vuole bene, come so che Stefania mi vuole bene. Eppure ho sentito il bisogno di sentirmelo dire. Ho il rimorso di non avere ancora detto a Serena che con Stefania ci ho scopato. Adesso lo avverto chiaramente.

Poi arriva – come lo vogliamo chiamare, “incidente”? ok – il primo vero “incidente” da quando siamo qui. Lo sappiamo, no?, che io e Serena lavoriamo qui anche perché siamo due belle fighe. Un po’ provocanti, per attirare la parte maschile della clientela, ma senza esagerare né essere volgari, per non far incazzare le mogli e le donne in genere. Diciamo che facciamo parte della proposta commerciale di Mario. E diciamo pure che fino ad oggi non era successo proprio niente di niente. Giusto qualche occhiata un po’ prolungata da parte di qualcuno. Alla quale, almeno io, non ho mai risposto come adoro fare quando sono a Roma e un uomo in compagnia della sua donna mi guarda di nascosto. A Roma ammicco, sostengo lo sguardo, a volte provoco pure. Smignotteggio, mi diverto a metterli in difficoltà. Qui invece sono solare, sorridente e faccio un po’ la simpatica e un po’ l’ingenua. Sono una brava ragazza di buona famiglia e ho un ottimo rendimento universitario, sapete? Sono qui per lavorare e godermi un po’ di mare, non ho grilli per la testa. In genere, lascio intendere tutto questo indossando degli shorts di jeans che quasi mi entrano tra le chiappe e una canottierina rossa che, se non valorizza le tette che non ho, almeno mi lascia scoperte le spalle, obiettivamente sexy pure quelle. Faccio un po’ la scema ballicchiando e sculettando dietro il bancone al ritmo della musica, niente di più.

Ho appena finito di dare il resto e un sorriso a un bel figo che mi ha chiesto “an orange juice, please” e che ha appena cominciato a sorseggiarlo. Preferisco quando arrivano gli stranieri. Quando arriva qualche croato vado un po’ nel panico perché ho imparato appena a contare sino a cinque e conosco a malapena i nomi delle cose che serviamo (tipo “pivo” e “cevapcici”) e a dire hvala, dober dan e dobro jutro. L’uomo mi osserva e sorride anche lui. Ha una Lacoste celeste melange e gli occhiali da sole. Penso “davvero un bel tipo” mentre mi volto verso tre ragazzi che si sono presentati al bancone. Avranno, boh, qualche anno in più di me, non so. Con me usano l’inglese, ma sono italiani. Uno tiene in mano un gelato, un altro chiede una Coca cola, il terzo vuole un caffè.

Parlottano tra loro mentre glielo preparo, senza nemmeno la decenza di abbassare la voce. E’ evidente che hanno appena finito di fare qualche commento su Serena. E’ altrettanto evidente che adesso l’oggetto dei loro commenti sono io. “Anche questa… bella figa eh? Guarda che culo”. “A me anche la mora piace”. “Sì ma questa… guarda come lo muove”. “Glielo farei muovere io, pensa come si mette a piangere…”. “Ma dai, è una ragazzina”. “Ma che cazzo dici, a questa il negro glielo sfonda tutte le notti, altro che ragazzina”. “Pensa te se è italiana e capisce tutto quello che diciamo…”. “Naaa, l’altra potrebbe essere… questa è proprio la classica slava… bionda, gambe lunghe, culo alto…”. “Una classica troia slava”. “Immagina come sarebbe metterla sotto in tre… se la invitiamo una sera a cena ce lo chiede lei di portarla da qualche parte, è una che ‘sbattimi’ ce l’ha proprio scritto in faccia…”. “Ce l’ha scritto sul culo!”. “Ahahahah”. “Ma che cazzo dite, questa è grasso che cola se ti fa un pompino in pineta, meglio quell’altra… almeno glielo puoi mettere tra le tette”.

Che devo dire? In un altro momento magari mi ecciterei pure a sapere che dei ragazzi fanno questi pensieri su di me. Ma non qui e non così. Non mi piacciono. Cioè. Ce n’è anche uno che è oggettivamente carino, gli altri due molto meno, ma non è questo il punto. E’ la loro logica da branco che non mi piace, è quel sottofondo di vigliaccheria che avverto in loro che mi ripugna. Sono certa che nessuno dei tre, singolarmente preso, avrebbe il coraggio di dirmi in faccia certe cose. E che, se sapessero che capisco ciò che dicono, non avrebbero nemmeno il coraggio di dirmele in tre.

Mi volto per posare la tazzina sul piattino di quello che sta alla mia destra. Quello che ha chiesto il caffè. Quello che, se ho ben capito la provenienza delle voci quando mi stavano alle spalle, ha detto che il negro me lo sfonda tutte le notti. Ammetto che ho quasi un brivido a pensare a Carlos che mi sodomizza, mi fa schifo che possano pensare una cosa del genere su di me e su di lui. Il negro dal supercazzo che sfonda la ragazzina bionda, stereotipi da Youporn (oddio, qualche volta sono serviti anche a me, eh?). E poi, anche se non saprei spiegare bene perché, ve l’ho già detto come stanno le cose: nonostante Carlos sia chiaramente uno strafigo c’è qualcosa in lui che mi impedisce di classificarlo alla voce “sesso”. Poggio la tazzina e sorrido allo stronzo. Un paio di metri più in là il tipo al quale ho servito il succo di arancia ci osserva senza avere capito un cazzo.

– Senti, coglione, te lo zuccheri da solo o voi che te ce sputo dentro io? – gli dico guardandolo negli occhi e cercando di accentuare pesantemente la calata romana. Per tre secondi ho fatto l’imitazione della versione coatta di Stefania, e mi è riuscita bene.

Per qualche istante il tempo sembra fermarsi e non si sente nemmeno un rumore. La sensazione è che, se non fosse per Dance Monkey che esce dalle casse dell’amplificazione, il silenzio sarebbe totale.

– Ma dai, si scherzava… – fa uno che, a giudicare dalla voce, deve essere quello che diceva di volere infilare il cazzo tra le tette di Serena.

– Scherza con tua sorella – gli rispondo senza nemmeno guardarlo in faccia, tenendo gli occhi fissi sul suo amico, il bevitore di caffè – sono 45 kune…

Il tipo, quello del caffè, lancia cinquanta kune sul tavolo. Le prendo e me le infilo nel marsupio. Tiro fuori cinque kune di resto e le appallottolo, gliele lancio addosso.

– Guarda che sei te che fai vedere il culo a tutti… – mi dice sprezzante.

– E tu cos’hai da far vedere oltre a quella faccia da cazzo che ti ritrovi?

– Oè, troia, piano con le parole…

– Ma vedi d’annaffanculo de corsa, sennò chiamo er negro e vedi che ce fa con questa – gli sorrido sprezzante agitando la bottiglietta di Coca cola che poco prima ho versato nel bicchiere del suo amico.

– Che fai minacci?

– Tela, stronzo – gli faccio accompagnando le parole con le mani, il classico gesto che dice “vattene di corsa”.

Credo di non avere mai sostenuto una colluttazione verbale di questo livello in vita mia. Mai stata così volgare. Mai. Dovrei anche preoccuparmi, in genere sono molto più gelida in situazioni come queste. Stavolta invece sento proprio di avere sbroccato. Ma a dispetto di tutto mi sento leggera, felice, quando si allontanano. La tensione, forse la paura, mi assale qualche secondo dopo. L’uomo del succo d’arancia posa il bicchiere, mi lancia un’occhiata perplessa e se ne va pure lui.

Faccio un cenno a Serena, che è troppo lontana per avere ascoltato il diverbio ma che qualcosa non andava deve averlo capito, come a dirle “tutto a posto, lascia stare”. Quando viene a darmi il cambio dietro al bancone mi chiede proprio cosa sia successo. Le dico “tre stronzetti, non ti preoccupare” e poi aggiungo “vado a farmi pagare l’ombrellone da quello lì, poi stacco”.

“Quello lì” è il tipo dell’aranciata. Mi avvio e mi accorgo che, istintivamente, sto cercando di frenare il mio naturale sculettamento. La tensione per lo scontro con quelle tre teste di cazzo non è ancora svanita. “It’s one hundred kunas for the cot and the umbrella”, gli faccio con un’espressione, penso, neutra. L’uomo si è appena tolto i bermuda ed è rimasto con addosso la polo e i pantaloncini da mare. Mi guarda, per meglio dire mi scruta. Gli faccio un’espressione del tipo “oh, venti euro per lettino e ombrellone, direi che ci puoi stare, no?”.

– Sei di Roma? – domanda. E qui mi irrigidisco.

– Sì, perché?

– Li hai messi a posto per bene, quelli – dice cercando i soldi e porgendomeli.

Ha un accento del nord anche lui. E anche nel suo caso non saprei dire di dove. Ma è diverso da quello degli altri tre. Prendo i soldi, stacco la ricevuta e gliela do.

– Magari poteva anche intervenire. Sarebbe bello qualche volta non trovarsi da sola contro tre… – mi volto e me ne vado.

Entro nel retro del chioschetto, metto short e canottiera nello zaino ma prima tiro fuori il telo e la crema solare. Vado verso il lettino che io e Serena ci dividiamo, butto tutto lì sopra e vado a fare un tuffo. L’acqua è come al solito fredda e fantastica, ma il malumore non mi passa. Vaffanculo, e pensare che la giornata era cominciata così bene…

Faccio la doccia, gelata, mi asciugo e mi incremo con il solito quintale di protezione diecimila. Mi stendo e penso proprio che l’unica cosa da fare è cercare di dormire. Non mi va di fare un cazzo di niente. Né ascoltare musica, né leggere, né chattare con le amiche. Tra l’altro, penso tra me e me, mi è arrivato un messaggio di Ludovica e non l’ho ancora letto. Chiudo gli occhi cercando di cacciare via il nervoso.

Mi sveglia una voce, non so quanto tempo dopo. “Hai ragione, avrei dovuto fare qualcosa, ti chiedo scusa”. Apro gli occhi e porto la mano alla fronte per proteggermi dal sole, anche se naturalmente ho capito chi è che mi sta parlando. Ammetto che vederlo davanti a me grondante acqua e con il solo costume da bagno appiccicato addosso fa un bell’effetto. A parte il sorriso e la faccia, mi piacciono le spalle e i peli incollati sul petto ampio, la linea degli addominali. Proprio niente male, ma non sono nelle condizioni di apprezzare. “Acqua passata”, rispondo. Più per scrollarmelo di dosso che per accondiscendenza. Non mi va proprio di essere accondiscendente con nessuno. Per non parlare del fatto che mi ha svegliata.

– Purtroppo a volte vince la pigrizia, la voglia di non immischiarsi… o quella di vedere come va a finire… – mi dice.

– Volevi vedere come andava a finire? – chiedo senza rendermi conto di essere passata al “tu”.

– Beh… sì. Lo ammetto, ti chiedo di nuovo scusa. Davano fastidio anche a me e non vedevo l’ora che se ne andassero, maaa… quando gli hai detto quella cosa del caffè e ho capito che eri italiana mi sono detto “oh cavolo, vediamo che succede ora”…

– E se fosse scoppiato un casino? Saresti intervenuto?

– Boh, credo di sì, ma se fosse davvero scoppiato un casino sarebbe intervenuto prima il tuo collega, no? Comunque non è questo che ti volevo dire… ti volevo dire che hai ragione, avrei dovuto prendere le tue parti, far capire a quei tre cafoni che… che insomma tu eri nel giusto e che loro sono solo dei poveri stronzi.

– Vabbè, ormai è andata, dai… – gli dico.

Sinceramente, ho voglia di chiudere qui, di non pensarci più e di restare da sola. Adesso sì che mi va di prendere il telefono e smanettarci un po’. E poi c’è sempre quel WhatsApp di Ludovica cui rispondere, qualche Insta da fare per beccarsi i commenti di Trilli e Stefania, qualche messaggio da mandare a Martina per sapere se è già a Porquerolles con Massimo nella loro ritrovata storia d’amore… E poi ci sarebbe pure mamma da chiamare, prima che mi rompa il cazzo lei che lo fa sempre nei momenti meno opportuni. Invece, e in modo del tutto inconsapevole, mi distendo sul lettino portando le braccia indietro. Come a dire a questo tizio qui “guardami, guardami e fammi sapere che ne pensi”. Me ne accorgo un attimo dopo e mi ricompongo in modo un po’ più decente. Ma ormai lui mi ha squadrata dai capelli alle unghie dei piedi.

– Ti posso offrire qualcosa? – domanda

– No, no ti ringrazio, non ti preoccupare – gli faccio un po’ incerta.

– Dai, non ti imbarazzare, hai staccato, no?

Sì, ho staccato, ma no grazie lo stesso. “Nessun imbarazzo”, gli dico. E invece sì, un po’ di imbarazzo ce l’ho. Voglio dire, io e Serena siamo qui per sculettare e sorridere ai clienti, no? Mica è plausibile che ci abbiano ingaggiate perché siamo delle brave cameriere. Ma questo vale finché lavoriamo. Poi, francamente, non so quale sia la politica del locale. Non penso che preveda che le cameriere fuori servizio si facciano rimorchiare dai clienti, giusto? In ogni caso, meglio evitare. Me lo ripeto dopo che l’uomo si è allontanato. Me lo ripeto e come una cretina ridacchio tra me e me: mamma mia, Annalisa, si invecchia, eh? Ai bei tempi uno così mica te lo saresti lasciato scappare. Ma i bei tempi, mi dico, non c’entrano un cazzo. Sono stanca, l’incazzatura ancora non mi è passata del tutto e ho voglia di starmene qui a fare un beato cazzo.

Impossibile. Perché dopo un po’ di tempo ritorna alla carica.

– Scusa se ti rompo, ma capisco che farti offrire qualcosa qui potrebbe metterti in difficoltà… Perché non vieni a prendere un aperitivo in paese? Ti porto e ti riporto qui, o dove vuoi tu…

Ci metto un po’ a rispondergli. Anche perché mi ha presa alla sprovvista, stavo chattando con Ludovica chiedendole dove la portasse in vacanza il suo nuovo ganzo.

In realtà gli dico solo “non ho capito, scusa”, ma l’occhiata scettica che gli lancio dovrebbe fargli capire benissimo che non solo ho capito quello che ha detto, ma che ho capito molto ma molto di più.

Mi dice “guarda che non ci sto provando” e mi ricorda tantissimo Lele, quello stronzo che dopo avermi detto “non ci sto provando” non solo mi ha scopata, ma mi ha umiliata e insultata oltre ogni decenza. E’ chiaro che non posso raccontarglielo. Posso solo dirgli…

– Da cosa lo capisco che non ci stai provando?

– Perché se ci stessi provando… no, ok, la verità è che non sono nelle condizioni di provarci.

– Uh?

– Tra due o tre giorni arriva la mia fidanzata, eviterei di mettermi nei guai…

Beh, cazzo, questo si chiama parlar chiaro. E lo apprezzo. Come apprezzo anche un’altra cosa. In un altro momento, intendo dire, se uno come lui mi avesse detto “non intendo minimamente provarci”, lo ammetto, un po’ la cosa mi avrebbe infastidita. Che c’è, non ti piaccio? Troppo magra? Poche tette? Troppo piccola? Guarda che ho vent’anni tra qualche giorno, eh?, anche se ne dimostro sedici-diciassette. Invece, considerato il contesto, il fatto che me lo dica mi fa piacere. E poi in lui c’è qualcosa che mi attira. No, non fate i soliti pensieri del cazzo (appunto), non sto parlando di quello. Sì, d’accordo, è abbastanza figo, ma non è quello. O meglio, mi attrae il fatto che sia figo in un altro senso. Sto parlando, a istinto, di qualcosa che sta sotto i suoi capelli castani, non sotto i suoi pantaloncini da mare bagnati. E’ per questo che decido di alzare la mia ultima difesa, poi vada come deve andare.

– Ma perché ci tieni tanto? Mi hai già chiesto scusa…

– Perché sono quattro giorni che sto su quest’isola da solo, mi sarei anche rotto le palle… Mi hai colpito, prima, con quei tre. A me piacciono le ragazze con un caratteraccio, mi piace averci a che fare. E poi sei pure una bella ragazza… Scusa, ma come ti chiami? Io sono Goffredo.

– Annalisa. Un aperitivo e basta, eh?

– D’accordo.

– E poi mi riporti a casa.

– D’accordo.

No, ok, non mi va che ci vedano andare via insieme. Non è tanto per Serena, figuriamoci. E’ per gli altri. Carlos, Mario, Jagoda, la bambina… Vabbè, la bambina sta sempre rinchiusa lì dentro non si accorgerebbe di un cazzo. Vieni a Milna, ok? E’ il paese qui accanto. Io ci metto una ventina di minuti, c’è una piazzetta. No, non ho bisogno di andare a cambiarmi, ti ringrazio. Se è solo un aperitivo posso farcela a stare con i pantaloncini, la canottierina e il costume sotto. Ok, vado, ci vediamo lì.

Passo ad avvertire Serena. Le dico semplicemente “vado a prendere un aperitivo al porto, ci vediamo dopo”. Mi guarda e non appare nemmeno tanto sorpresa. Il tono di voce, invece, è un po’ ironico. “Pensavo avessimo un appuntamento per stasera”, mi fa con un sorrisino che nemmeno il mio “ma guarda che torno per cena” riesce a smontare. “Con quello con cui stavi parlando?”. Beh, sì, certo, che cazzo di domanda è? Mica mi è preso di farmi sei chilometri a piedi per andare a farmi un aperitivo by myself.

– Mi stai dando la sòla? – domanda con lo stesso sorriso di prima.

– Sere, ti ho detto che torno per cena.

– Seeee….

CONTINUA

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