A che serve l'estate - "Sì, sì..."

Scritto da , il 2020-03-02, genere etero

Incazzata, inutile, senza senso. A camminare mezza infreddolita per un lungomare deserto senza sapere che cazzo fare, dove cazzo andare. Quasi trascinando per terra la borsa, come una tossica. Sento addosso una stanchezza che mi si porta via. Supero tre stabilimenti chiusi e manco l’ombra di un cazzo di bar all’orizzonte. Arrivo all’ingresso di quello dove sono stata ieri sera con Stefania e Ludo. Che, by the way, a quest’ora avranno ricominciato da un pezzo. D’accordo per Ludovica, che in fondo se ne sta a casa sua. Ma Stefania, cazzo, almeno la mossa di rinunciare al suo Alex e farmi tornare in stanza con lei poteva farla, no? Almeno la mossa, dico. Poi magari avrei rifiutato, le avrei detto vai e divertiti. Nemmeno quello. Non sono né gelosa né invidiosa di loro, si facessero scopare da chi gli pare. Io non ne ho nemmeno voglia. Ma cazzo…

Il cancello è aperto, perché qui stanotte si è tirato tardi. Ma è da un pezzo che sarà finito tutto. Sono le sei e un quarto… Anche il bar sarà chiuso.

E’ così, ma il posto non è deserto. Un po’ di gente che si è attardata c’è ancora, cinque o sei persone. C’è anche l’amico di Ludovica, il gestore. Non mi ricordo nemmeno come si chiama.

“Ciao Annalisa, nottata impegnativa? Dove siete state? Le tue amiche?”. Mi stupisce che si ricordi il mio nome, ma è facile che sia perché ci ha presentati Ludovica. Faccio un vago cenno di risposta, gli dico “scusami, non mi ricordo come ti chiami…”. Cazzo, spero proprio che non mi prenda per una strafattona. Mi rendo conto di essere completamente rallentata nei movimenti e nelle parole. “Non ti preoccupare, Leo – mi risponde – scusa se te lo chiedo ma… abbiamo esagerato?”. Anche in questo caso la mia risposta arriva con qualche secondo di ritardo, dopo averlo guardato per… beh, insomma, deve proprio avere l’impressione che sia una che stanotte ha buttato giù di tutto. “No, è che – dico strascicando le parole – siamo state a ballare e poi a vedere l’alba… ho fatto pure il bagno… e io… io ho dormito davvero troppo poco, mi sta calando addosso tutta la stanchezza… in realtà dovrei sedermi un attimo”. Leo fa un gesto come a dire “ah, ok” e poi aggiunge “vieni dai, ti apro una sdraio qui, hai freddo?”. “Dovrei andare un attimo al bagno”, aggiungo come se lui non avesse nemmeno parlato. Lo ringrazio e gli dico che torno subito. Ho un bisogno assoluto di pisciare.

Il pavimento è bagnato. Di acqua, per fortuna. Leo o chi per lui deve già esserci passato con la pompa. Quello che non mi aspetto è di trovare, a quest’ora, il segnetto rosso sulla serratura: occupato. Indirizzo a me stessa un “porca vacca” e nello stesso momento la zaffata che arriva dal bagno dei maschi qualche metro più in là mi consiglia che è meglio aspettare, se non addirittura farsela sotto. Lì è evidente che la pompa non è ancora passata. Di colpo, da dietro la porta, una voce rompe il silenzio e mi fa sussultare. La voce di un ragazzo: “Oh, stavolta ingoia, eh?”. Seguita da una vocina che fa “sì, sì, te lo prometto”.

Eddai… e anche basta, no? Ma che cazzo, nemmeno pisciare… Prima Ludo e Stefania, adesso questi. Ma che è stamattina? Mi allontano, giusto per non essere vista dalla coppia quando uscirà. Di mettermi a farla qui fuori non ho voglia anche se, obiettivamente, sarebbe pure facile. Resisto. Li vedo uscire, finalmente. Cazzo, ma sono due ragazzini, lui avrà quattordici-quindici anni. Ma i genitori non vi dicono nulla che state fuori a quest’ora? E lei, cazzo, avrà la stessa età ma dimostra… dimostra… beh, dimostra l’età che dimostravo io a quattordici anni, quando Ale a villa Ada mi chiese se mi andava di usare le labbra anziché la mano. E anche il ragazzo un po’ mi ricorda il mio fidanzatino di allora, soprattutto per quella smorfia di disgusto che fa quando lei gli chiede un bacio e lui la dirotta verso la guancia. Anche se, a differenza di quello che fece Alessandro con me, le tiene con una certa arroganza le mani sul culo (grosso anche questo, come Ludo e un po’ anche come quella puttanella che mi sono scopata nei bagni della disco, chissà, da queste parti va così). Non so se essere intenerita o incazzarmi e andare a dirgli guarda che se fai così sei proprio stronzo.

Non faccio niente, è chiaro. Entro, faccio pipì e torno da Leo. Mi ha preparato una sdraio accanto al baracchino, lo ringrazio e mi ci butto sopra. Provo a stendermi e a chiudere gli occhi. Ci provo davvero, combatto. Ma non c’è un cazzo da fare, ho troppo freddo. Non faccio altro che strusciarmi le mani sulle braccia. Leo ripassa e si toglie il giubbino di jeans, restando con addosso solo la canottiera gialla dei Los Angeles Lakers. Me lo poggia sul petto. “Grazie”, “meglio?”, “sì, meglio, grazie”. Meglio sì ma fino a un certo punto. Lo so, sono una scassacazzi, ma ho freddo pure alle gambe. Leo se ne accorge, si piega in avanti e mi fa “aspetta” e senza aspettare la risposta inizia a massaggiarmi vigorosamente i polpacci. Stringo le cosce, stringo le ginocchia, allargo i piedi. Mi sono seduta bene ma il vestitino è corto e ho il terrore che si possa vedere che sotto non ho nulla.

Me ne resto ancora un po’ lì seduta. Riprovo a chiudere gli occhi. Oddio, per la verità mi si chiudono da soli. Mi stringo per scaldarmi. Con il giubbotto di Leo addosso va davvero meglio, ma solo sopra. Ho le gambe che tornano a raffreddarsi rapidamente. E non solo sui polpacci scoperti, ma anche sulle cosce. Cosa volete che faccia il mio vestitino per riscaldarmi? Forse dovrei alzarmi e camminare, almeno per intiepidirmi. Ma non mi va. Un po’ per la stanchezza, un po’ perché non mi dispiacerebbe per nulla che Leo tornasse a massaggiarmi come ha fatto prima. In modo rude e senza chiedermi il permesso. Quelle mani sono state come una scossa, la sola cosa capace di sollevarmi dal torpore nel quale, ora, sono sprofondata di nuovo. Ho voglia che torni a strusciarmele sulle gambe. Mi è piaciuto il suo modo di fare e desidero il bis. Erano belle grandi quelle mani, e forti. Mi porto furtiva un dito in mezzo e poi lo lecco. Sono appena un po’ umida, ma sono un miele. Come l’altra sera con lo psicologo, come stamattina con Stefy, come poche ore fa con Antonella. “Chissà che cazzo succede”, mi chiedo compiaciuta. Non eccitata, compiaciuta. E’ una cosa mia, tutta mia. Sono persino gelosa di questa sensazione. Mi piace immensamente.

Leo sta parlando con due ragazzi, gli ultimi rimasti, mentre riordina dentro il baracchino. Devono essere nuovi di qui, sta dicendo loro che sta aperto tutta la notte solo due volte a settimana, e che non ci sarebbe nemmeno il permesso. Faccio finta di dormire, ho voglia che se ne vadano. Riapro gli occhi quando i due sgommano, spero proprio che si accorga che non dormo. Dopo un paio di minuti ripassa davanti a me e chiede “come va? ancora freddo?”. Lo osservo, un po’ simulo di essere intorpidita e un po’ lo sono davvero. Il giudizio è quello che avevo dato la sera prima. Alto, non tantissimo ma alto. Un po’ appesantito forse. Ciuffo a parte non è niente di che, ma non ha un viso anonimo. Belle gambe, bellissime, con una peluria da uomo che risale progressiva ed equilibrata fin dove posso vederla, ossia poco sopra il ginocchio, dove arrivano i suoi bermuda bianchi. Ciò che invece adesso posso vedere meglio sono le sue spalle, sottolineate dalla canottiera dei Lakers e le sue braccia muscolose. E poi le mani, ci sono andata in fissa per quelle mani.

Rispondo “mh… un po’… è umido”. Sorride e mi fa “altro massaggino?”. Anche stavolta non attende risposta, che però gli arriva attraverso un mio risolino, si inginocchia e comincia a sfregarmi forte un polpaccio con entrambe le mani. “Giochi a pallacanestro?”, domando come una perfetta idiota. “Giocavo… giocavo… non nei Lakers naturalmente eheheheh…”. Non so che cazzo dire, non mi vengono in mente grandi argomenti di conversazione a quest’ora. Continuo a tenere le ginocchia strette nonostante gli scossoni. Forse più strette di quanto sarebbe necessario. Inconsapevolmente vorrei che si accorgesse che mi sono irrigidita. Gli faccio “che ficata”. Chiede “cosa?”. Guardo l’orizzonte e sorrido, “questa luce… a quest’ora. Tu la vedi sempre, io mai”. Si volta anche lui, brevemente, commentando “eh sì”, mentre io convoco la mia Dignità e le dico “senti bella, ecco i soldi, prendi la Virtù e andate a comprarvi un gelato in Mozambico”

Leo torna a guardarmi. A guardare il sorriso che gli rivolgo e, un po’ più sotto, le mie ginocchia che si sono aperte e la gonna del vestito che è salita un po’ su. E’ il momento degli sguardi indecisi, direi, delle mani che salgono a massaggiarmi le ginocchia e che risalgono lentamente, una per gamba. Del massaggio sulle cosce che diventa molto meno massaggio, ma carezza pesante. Dio quanto mi piace questa pressione, questa promessa di forza. Mi fa “hai delle belle gambe”. Rispondo “troppo magre… le tue sono bellissime, le ho notate”. Dice “anche tu, fatti servire” e sale sulle cosce. Parecchio. E sale parecchio anche il vestitino. C’è una luce così bella. E punta su di noi. Non può non vedere.

Resta un attimo a fissare, poi piazza i suoi occhi nei miei. Io mi sto già mordicchiando un’unghia come la più scema delle oche: “Me le sono dimenticate in spiaggia, prima, quando ho fatto il bagno”, mento. Lo dico come se più che altro mi vergognassi della mia sbadataggine. Torna a guardare lì in mezzo e sussurra “che fiore!”. Bello, sì bello, fiore mi piace, fiore non me l’hanno mai detto. Di apprezzamenti me ne hanno fatti tanti, dai più volgari ai più estasiati, ma “fiore” mai. Mi viene da ridere pensando alla smanceriosa e ridicola leziosità che dimostrerei se gli dicessi “coglilo”. Anche perché non sono proprio certa di volere essere “colta”. Poiché però ogni tanto capita a tutti di essere eccessivi e poetici in modo infantile quando giochiamo sulle parole, non mi viene altro che rispondergli una cosa appena appena meno idiota, di cui ora che la scrivo mi vergogno come una cretina, ma che almeno ha il pregio della verità: “Si sta aprendo”.

Sì, ok, è un via libera. Anche se nemmeno io so per cosa. Ma lui lo interpreta così e come si fa a dargli torto. In breve, le mie cosce aperte diventano di sua proprietà e non faccio nulla per difenderle. Mi piace, mi è piaciuto come se le è prese e come ci spadroneggia sopra. Per essere esplicita: non lo so nemmeno se mi va di essere posseduta da lui. Infilzata con un dito, leccata, scopata. Non lo so, non è quello il punto. Adoro il modo in cui le sue grandi mani desiderano le mie cosce da adolescente e se ne appropriano, ci fanno quello che vogliono. Ecco, se in questo momento dovessi proprio parlarvi del mio desiderio, vi direi che mi piacerebbe che continuasse e che decidesse lui, che andasse avanti come vuole lui. Mi sento inutile. E’ tutta la notte che mi sento inutile e sola. E mi ci sentirei ancora di più se non facesse di me quello che vuole. Mi rendo conto che nella mia mente si fa strada qualcosa che non è semplice desiderio di sesso. E’ un qualcosa di molto più sottile, ma anche molto più affilato e pericoloso. Non so nemmeno spiegarvelo, mi sento così insensata. E ciò che mi fa sclerare non è la prospettiva di prendere il suo bastone tra le gambe, ma quella che lui mi faccia sentire meno insensata.

Lui invece, Leo, beh, cazzo, reagisce proprio come il maschio standard, fa il più banale dei due più due. Ma la verità è che mi sta benissimo anche così. E mi sta benissimo che diventi via via sempre più rozzo e volgare. Visto che sono affondata nella sdraio, si affretta ad afferrare quel che può anche delle natiche. Le strizza ai lati, mi fa pure un po’ male, mi fa gemere. Dice “ieri ho passato la serata a guardarti il culo, è uno spettacolo… ho visto come te lo lasciavi toccare”. Sussurro “sì…”, anzi lo sfiato. Il pensiero di essere stata nel suo mirino già ieri sera è in un certo senso, se non il colpo di grazia, quello che mi scaraventa oltre il punto di non ritorno. “Ti voleva scopare, eh?”. “Sì…”. “Mi sa che invece l’hai mandato in bianco, dato che sei tornata subito…”. “Sì…”. “A te piaceva più quell’altro…”. “Sì…”. “Troppo ragazzino per te…”. “Sì…”. Cazzo che Tac mi ha fatto questo ieri sera. Non me ne frega nulla se magari lo fa con tutte, il problema è che l’ha fatta a me! Se adesso mi dicesse “ho fatto urlare mia moglie pensando di fottere te” potrei avere un orgasmo qui, adesso. Senza che nemmeno mi abbia toccato la fica. Potrei squirtare. Nulla mi fa godere come un ditalino nel Punto G del cervello. Peccato che, al contrario, dica una cosa molto più scontata e grossolana, ma che almeno è chiara nella sua brutalità.

– Invece stasera in bianco ci sei andata tu… su quella gnocca della tua amica non avevo dubbi, ma da quella troia di Ludovica non me lo sarei aspettato… Tu invece…

Non c’è bisogno che completi la frase. E’ già abbastanza esplicito, sfacciato e arrogante mentre lo dice. Mentre torna sulle mie cosce e aumenta la pressione, con le mani sempre più vicine al mio sesso. Esalo un altro “sì…”. Riesco solo a dire quello, ma mi rendo conto che adesso non sono più un fiore. Sono al massimo una puttanella cui la serata è andata male. Stop. Solo che quel fiore, a forza di pulsare e scaldarsi, si è davvero aperto. E io ho ricominciato a colare tanto tanto. Sì, ok, adesso sì che ci starebbe bene un dito, una lingua, un cazzo. Lo ammetto. Però mi sta benissimo anche che lui continui a tenermi sulla corda così, a torturarmi. Mi dà proprio piacere fisico pieno, raffiche di endorfine. Anche meglio di una scopata. Lo capisco adesso, con una chiarezza che è quasi uno sganassone. E credo che sia proprio questo a spingermi a pronunciare l’unica frase di senso compiuto da un po’ di minuti a questa parte: “Ti prego, fammi il cazzo che ti pare”.

Lo so che molti tradurranno la mia implorazione con “scopami”. Ma credetemi, non è “scopami”, è proprio una cosa diversa. Lui che mi dice “sei una gran figa” e subito dopo “sei davvero una piccola troia” per lui è probabilmente “adesso ti scopo”, ma per me è di più. Io che gli rispondo “sì, sì…” non è “scopami”, è di più. Quando mi strattona per un braccio e mi trascina correndo verso un posto che sa solo lui, non è “adesso andiamo da qualche parte e ti do quel che meriti”, è di più. E’ meglio dell’attesa di una scopata ed è anche meglio che essere scopata. Ridacchio mentre gli zompetto dietro, come sempre quando vengo forzata fisicamente a fare qualcosa, soprattutto le zozzerie. E anche quello non è “scopami”, è una capitolazione indecente. Anche perdere i sandali sulla sabbia lo è. Mi porta in una fila in mezzo alle cabine, mi sbatte letteralmente contro una delle pareti di plastica. Ci rimbalzo sopra con un tonfo, urlo, mi ci appoggio meglio con la schiena, allargo le gambe. “Sì, sì…”. “Fai poco casino”, “sì, sì…”.

Nemmeno mi bacia, mi passa le mani pesanti sulle mie piccole tette. Da sopra il vestito. “Sì, sì…”. Come prima, quando mi massaggiava le gambe, forse anche più forte. “Sei proprio nuda sotto, eh?”. “Sì, sì…”, rispondo. Ma non è una conferma. E’ che vorrei dire “continua così, fammi male così, mi piace se mi massacri le tette, non gliene frega mai a un cazzo a nessuno delle mie tette, non mi hanno mai fischiato dietro per le mie tette”. E intanto che lo scempio va avanti, però, riesco solo a ripetere “sì”. Lui invece non ha nemmeno bisogno di dire “succhiami il cazzo”, la mano sulla testa arriva prima. Il mio “sì” arriva quando le mie ginocchia si schiantano sulla piattaforma di legno. Gemito di dolore, affanno, incapacità di riuscire ad aprire questa cazzo di cinta. “E sbrigati, troia”. “Sì, sì”. La troia si sbriga e te lo succhia come sa fare, Leo, anche se hai un cazzo quasi più largo che lungo, che mi soffoca. Basta che tu me lo dica, che me lo chieda, che me lo ordini.

Non so, non so mai perché succede, quando succede così. A me sembra di essere brava. Anzi, lo sono. Ma lui a un certo punto mi ferma, mi rialza e me lo infila dentro. E’ una manovra complicata, che gli prende qualche secondo. In piedi, addossata alla parete della cabina, aspettando ansimante e passiva che lui faccia l’uomo. Mi forza con due-tre spinte. Strillo, mi tappa la bocca e mi ripete “non fare casino”. Stavolta aggiunge un “troia” che ci sta proprio bene. Io miagolo e gli ansimo “sì, sì…”. Scopata così, con la gonna del vestitino alzata fino ai fianchi e le gambe aperte per lasciarlo entrare. Con le sue mani grandi che mi stringono la carne, me la strizzano. Scopata per quello che sono, presa senza ritegno come una puttana. E a me piace questo. In questo preciso momento mi piace persino di più del suo cazzo largo che affonda e mi apre.

Mi attira a sé per infilzarmi meglio stringendomi le chiappe. Lo subisco e lo adoro. Adoro come me lo fa, come le allarga e le chiude, come le strizza, come mi dice quel “madonna che sei” pieno di ammirazione. Vincendo l’affanno e negandomi per un secondo la sua lingua in bocca gli domando “ti piace? ti piaccio?”. Cioè, lo so che sono fica, però adesso ho bisogno che qualcuno me lo dica esplicitamente. Poi, se vuole, può anche chiamarmi cagna in calore, che mi piace anche quello. Ma prima deve dirmelo. Sussurra “sei proprio figa” e io mi lascio andare, mi lascio scopare più forte. Alzo le braccia in alto per offrire anche il mio collo il mio petto e le mie tettine ai suoi baci, ai suoi morsi, mentre le sue mani, come prima lo erano delle mie cosce, adesso sono padrone assolute del mio sedere.

E’ meglio di una scopata. Sapere che gli è bastato toccarmi due volte le gambe, è meglio di una scopata. Sapere che gli piaccio, sapere che mi disprezza, è meglio di una scopata. Sapere che si svuoterà le palle dentro di me senza nemmeno il preservativo, che prima mi userà e poi racconterà ai suoi amici che si è fatto una delle tante zoccole che ci vengono addirittura da Roma per farsi sbattere, è meglio di una scopata. Anche se non mi basta. Non mi basta che lui mi fotta e si svuoti dentro di me. Non lo so perché avverto questa sensazione. Ma è fortissima. Non mi basta.

Non lo so nemmeno io perché lo faccio. Non voglio dimostrare nulla a nessuno. Resta il fatto che mentre spinge e spinge gli appoggio le mani sul petto per fargli segno di fermarsi un momento, lo guardo dritto negli occhi. Il mio è un sussurro concitato: “Me lo vuoi mettere nel culo?”. Leo si blocca e mi chiede “sei sicura?”. Non rispondo, mi volto da sola e mi cerco la zip del vestitino sulla schiena. Resto nuda di fronte a qualcun altro per la seconda volta in questa notte. Nemmeno mi sembra una pazzia, nemmeno mi vergogno. Non mi vergognerei neanche se mi vedessero. Perché in definitiva chiunque passi di qui, a quest’ora, in questo ristretto spazio tra due file di cabine, non può farlo che per un motivo: placare i demoni che sente dentro. Anzi, se qualcuno vede, meglio. Se qualcuno capisce chi sono, meglio. Com’è che aveva detto Ludovica? “Guardami”? E’ una sensazione così difficile da descrivere… mi sento una troia senza onore, ma allo stesso tempo sono felice.

Mi apro le chiappe da sola, come se fossi consumata a questo tipo di sesso qui. Mi piego in avanti e appoggio la fronte alla cabina, è il mio unico punto di equilibrio. Mi sento osservata e quasi mi dispiace che qui dove siamo la luce non sia piena, che lui non possa vedere bene, fin nei particolari più indecenti, che cosa gli sto offrendo. La mia vagina non la smette di pulsare le sue suppliche, non ha ancora capito un cazzo, sta troia, ma in fondo non è colpa sua. E’ il mio cervello che elabora immagini e desideri, li filtra, li amplifica. Lo immagino dietro di me, con i bermuda calati e il cazzo dritto e lucido che gli spunta da sotto la canotta dei Lakers. La puttana e il suo boia.

Qualcosa non lo convince, forse. O forse vuole solo allungare il mio supplizio. Mi dice di allargare un po’ le gambe e lo faccio, scavalcando con un piede il vestitino collassato in terra. Prende le braccia e me le porta in alto, un po’ allargate, con le mani appoggiate alla plastica della parete come nelle perquisizioni delle serie poliziesche americane. Mi fa piegare in avanti di qualche grado. Cerca l’angolo ideale, oppure sta semplicemente rimirando il capolavoro del mio culo. Non posso evitare di pensare a come me lo sia lasciato massacrare da Tommy, l’ultima volta, a come il dolore mi abbia accompagnata per giorni. Ma è un pensiero che non ho nemmeno bisogno di allontanare, se ne va da solo. Qualunque cosa Leo stia facendo mi eccita a bestia. Sto esplodendo, non ne posso più, lo voglio. Mi sento scopata dai suoi occhi, che devono avere anche un cazzo bello grosso, più grosso del suo, per quanto me li sento addosso, dentro. Sussurra “Cristo…” e comincio a tremare e ad avere i brividi come nell’annuncio di un orgasmo. Mi volto a guardarlo e i suoi occhi sono quelli del leone un attimo prima dell’attacco. Ansimo pesantemente, non riesco a parlare. Sono qui, sul patibolo, che aspetti?

La sua mano su un’anca, il pensiero di Ludo che piagnucola a Willy “fai piano” e poi piange, la punta del suo cazzo tra le natiche. Gesti e pensieri in poco meno di un secondo, il mio “dai, ti prego” è un gemito impercettibile. Sento un po’ del suo peso addosso a me, la pressione del suo cazzo che mi cerca. La piccola spinta che annuncia la violazione, la cappella che mi allarga l’ano. Cazzo, ma se è così bello perché deve fare così male? Sono eroica, però. Riesco a reprimere quello che pensavo sarebbe stato uno strillo inevitabile in un rantolo soffocato, in un grugnito. Ma gli occhi mi si riempiono di lacrime. Si arresta e mi sussurra “ti faccio male?”. Ok, certo che mi fai male, ma è evidente che non sai come la penso. “Non importa, spingi forte, spingi forte”, ansimo quasi senza più ossigeno nei polmoni. Spinge e mi lascia senza fiato, alzo ancora una volta le braccia sopra la testa e sbatto i palmi delle mani sulla parete della cabina. Dà qualche altro colpo e alla fine è tutto dentro tra i miei grugniti, mi sento spaccata. Stronco il mio urlo in un piagnucolio roco e soffocato: “Ah! Sei così grosso!”. Ma se è così bello perché deve fare così male?

Voleva riaccompagnarmi in albergo. Ho rifiutato. Anche se cammino sul lungomare quasi barcollando dalla stanchezza, dal sonno, dalle stilettate lancinanti che senza preavviso alcuno ogni tanto mi trafiggono. Ho rifiutato perché non volevo sentire più la sua voce, perché ho a loop nelle orecchie i suoi grugniti soffocati e i miei monosillabi piagnucolati. “Ti sto rompendo il culo”, “sì…”. “Ti piace?”, “sì, sì…”. L’unica cosa che gli ho chiesto è stata un fazzolettino di carta.

Mi fermo al baretto di uno stabilimento appena aperto. In giro non c’è quasi nessuno e nel forno stanno andando i cornetti precongelati, lo sento dall’odore. Ho fame, penso che anche Stefania avrà fame. Ne ordino sei, forse esagero, il barista mi dà un’occhiata tipo “apperò”. Mi faccio dare anche due bottigliette di acqua minerale, due succhi di frutta in barattolo e mi faccio anche riempire una bottiglietta di caffè e una di latte caldo. Cazzo, come sarebbe a dire che non avete una busta? E come la porto tutta sta roba? Pago, metto qualcosa in borsa, aspetto che i cornetti finiscano di cuocersi. “Siete tutte le stesse”, “sì…”. “Tutte troie in cerca di cazzo”, “sì…”. “Come te”, “sì, sì…”.

Per strada non so come tenere le cose, soprattutto la busta rovente dei cornetti. Le bottigliette mi scivolano dalle mani, devo fare gli equilibrismi. Passa una macchina con dei ragazzi dentro che mi gridano “a sorca!” e qualche altra cosa che non capisco. Anche voi di Roma, eh? Dio, speriamo che non si fermino, che non rompano il cazzo. Dico a me stessa che se lo fanno mollo tutto e comincio a scappare urlando. Per fortuna sfrecciano e non li sento più. Dentro le orecchie mi martellano le parole di Leo. “Implorami di sfondarti il culo”, “sì…”. “Devi dirlo”, “sfondami il culo…”. “Imploralo!”, “ti supplico, sfondami il culo…”. “Ci godi proprio tanto, eh?”, “sì, sì…”. Ma se è così bello perché deve fare così male?

In albergo c’è una ragazza grassa che sta lavando il pavimento. Entro e chiedo scusa perché dovrò camminare sopra le mattonelle bagnate. Mi sorride e domanda se ho bisogno di una busta, o di un vassoio. Un vassoio è ok, dico. E ringrazio.

Porto tutto su, faccio scattare la serratura. Stefania è sul letto che dorme, bocconi. La faccia affondata nel cuscino, una complessiva immagine di prostrazione fisica. La guardo e mi avvolge la tenerezza. Ogni residuo di incazzatura nei suoi confronti è svanito in un amen, come succede sempre del resto tra me e lei. Quasi ammetto con me stessa che si trattava, in fondo, di gelosia. Siamo state così bene su questo letto, ieri mattina. Ma per la notte lei ha scelto Alex. Sticazzi, non è certo questo che…

Proprio mentre lo penso, mi interrompe un rumore incongruo. Se Stefania è qui che dorme, chi ha tirato lo sciacquone nel bagno? Volto la testa, la porta si apre e ne esce Alex. E’ Pulp fiction, io sono Bruce Willis e lui è John Travolta pochi secondi prima di morire. Si sta passando un asciugamano sui capelli bagnati, per il resto è completamente nudo. Esclamiamo entrambi, quasi in contemporanea “oh, cazzo, scusa!”. Lo guardo e, onestamente, è una delle più belle immagini che mi sia capitato di vedere. Gli guardo anche il cazzo, perché è impossibile non guardarlo. E anche perché è impossibile non ammirare pure quello. Aveva ragione Stefy, se è così ora, figuriamoci quando… Lui se ne accorge che lo sto guardando, si accorge anche quando ammicco di, come dire, ammirazione. E’ una ammiccata spontanea e puramente estetica. E’ ovvio che in questo momento non lo prenderei nemmeno in considerazione. Per cui il suo sorrisino ironico, anche se lo comprendo, lo trovo del tutto fuori luogo.

“Scusa, faccio una cosa e poi vado”, gli dico. Risponde “no, vado via io”. “Non ti preoccupare – lo blocco – devo solo mettere il costume e prendere il telo per la spiaggia”. Entro in bagno e mi lavo. E, lo ammetto, lo faccio con l’acqua fredda per trovare un po’ di sollievo. Esco e per la terza volta in poche ore mi ritrovo completamente nuda di fronte a qualcuno. Sì, poteva vedermi mentre eravamo lì stanotte, sopra quella spiaggia. Ma penso che fosse troppo occupato a sbattersi Stefania. In ogni caso, non me ne frega un cazzo e, del resto, è nudo anche lui. Non si è nemmeno rivestito, nemmeno un paio di mutande. La trovo una sfacciata arroganza, la sua.

Mentre cerco il costume e me lo infilo mi rivolge ancora quel sorrisino ironico che aveva prima. “Tu sei proprio convinta, eh?”. “Di cosa?”, rispondo senza nemmeno capire a cosa si riferisca. “Sei una bella figa pure te”, mi fa. Mi fermo e quasi scoppio a ridere, perché adesso ricordo ciò che gli ho detto e ricollego tutto. “Pensi che una lesbica cambi orientamento perché vede un cazzo?”, gli chiedo cercando di rendere la mia risata meno offensiva possibile. Non so se per lui o per le sorelle che lesbiche lo sono davvero. Ride anche lui e alza un sopracciglio come se volesse dire “beh, io c’ho provato”. A occhio, guardandolo, la sua percentuale di successo quando ci prova deve essere altissima, ma non questa volta. “Voi siete solo amiche?”, domanda. “Solo amiche”. Vuole sapere se, oltre ad avere un fidanzato, è anche la mia ragazza, gli dico di no. Mi domanda “come mai?” e già questa la trovo abbastanza sciocca. Chiede “non ti piace?” e qui sprofonda proprio. “Certo che mi piace – rispondo – come fa a non piacere una come lei? Ma non funziona così tra di noi”. “E come funziona?”, mi fa. “In qualsiasi modo ci piaccia – rispondo – vuoi vedere?”. Mi inginocchio sul bordo del letto, mi chino e porto il viso sul fondoschiena di Stefy. Ho una fitta rovente, i postumi del cazzo di Leo, e per un istante chiudo gli occhi. Li riapro e vedo due chiazze di sperma, ormai quasi del tutto secco, più o meno dove cominciano i glutei della mia amica. Lecco piano il vago sapore di latte di maschio unito a quello ancora più neutro della pelle. Sento una mano sul culo e mi domando se Alex non voglia arrendersi al mio rifiuto o se stia semplicemente dimostrando apprezzamento per le mie chiappe che il perizoma del costume lascia scoperte quasi per intero. Do uno schiaffetto all’indietro, alla cieca, poi mi volto con un sorriso stampato in faccia, ma è un sorriso di rimprovero. Va bene che sono praticamente a pecora, ma te l’ho già spiegato come stanno le cose, no? “Ce l’hai perfetto, lo sai?”. Sì, certo che lo so. Il mio sorriso vira dalla modalità-rimprovero alla modalità-ringraziamento, lo sguardo mi precipita sulla sua mano che se lo sta menando, sicuramente per provocarmi. Non è ancora del tutto pronto, ma mi basta quello per capire che, oggi, qualche indolenzimento ce l’avrà pure Stefania.

Anche la sua fica è perfetta, però. Devo starci attenta perché quando mi chino tra le sue gambe socchiuse l’odore quasi mi stordisce per quanto è forte. Lecco lungo tutta la sua apertura di femmina, nessuna reazione. Lecco e sento un mugolio, ma è ancora il mugolio di un lento risveglio. La allargo un po’ con le mani e lecco ancora, piano, fino a far comparire un nuovo odore e un nuovo sapore. Il respiro di Stefania si fa più accelerato. Risalgo lungo il taglio delle natiche e lecco anche lì, mi fermo sul buchino sperando che Alex non la abbia devastata anche lì. Le infilo un dito nella fica. Lentamente perché non so se le faccio male. Stefy geme, ma direi che non è per il dolore. Affondo un po’ la lingua nel buchino e mi arriva il suo ridacchiare assonnato ma che è già l’attesa del piacere: “Ma tu non ti stanchi mai?”.

Poi… poi non lo so. Immagino che a un certo punto si ritrovi abbastanza lucida per capire che il dito e la lingua che la stanno penetrando non possono essere quelli di un ragazzo. Così come la mano che le tiene un po’ aperte le chiappe. Ha un movimento rallentato, ma comunque di sorpresa. Volta la testa. Volterebbe tutto il corpo se non la tenessi ferma. “Annalisa…. Annalisa? Ma che cazzo….?”. Credo proprio che sia arrivato il momento di spingere la lingua più in fondo e di infilarle un altro dito nella fica. Più che altro per inchiodarla al piacere, per convincerla a fare la brava. Resta al tuo posto amica mia, e goditela. Ci provo, non so se funzionerà. Ok, sì, funziona. Me lo conferma il suo “iiiiih….”, lo trovo sublime. Trovo sublime il modo in cui si abbandona, in cui tutta la sua muscolatura si decontrae. Sei mia, tesoro. Né io né te avremmo mai potuto prevedere come, ma sei finalmente mia.

Alzo gli occhi verso Alex. E’ seduto all’angolo del letto e se lo mena osservandoci. Adesso sì che ce l’ha pieno e duro. E grosso, grosso da fare paura. Non direi più che lo fa per provocarmi, deve essere bello eccitato anche lui. Spero proprio che non gli venga in mente di unirsi a noi. Spero proprio che, non so, non gli venga in mente di ficcare in bocca a Stefania quella specie di batticarne, o di fare altro. Quello che stiamo facendo è una cosa solo nostra. Ci sono anni di affetto dietro, lui che c’entra? Perché sporcare questo momento con un volgare threesome? Non dovrebbe nemmeno essere qui.

Risalgo con la lingua lungo tutta la schiena di Stefania. Ci metto litri di saliva per farla scivolare meglio, quella lingua. Chiudo un attimo gli occhi e mi si presenta alla mente un ricordo allo stesso tempo assurdo e bellissimo: la mamma di Stefania che deposita il vassoio con tè e biscotti sopra la scrivania dove stiamo studiando. Quarto ginnasio. Mi stendo sopra quella schiena continuando a roteare lentamente le dita dentro la sua vagina. Mi fa impazzire per quanto è calda e bagnata. Quasi mi sembra che godano più le mie dita che la sua fica. Io invece godo molto di più davanti al suo retorico miagolio: “Che fai?”. Perché posso restituirle le stesse parole che ha detto a me ieri mattina.

– Ti scopo, cretina, pensavo che sapessi come si fa – ridacchio per poi aggiungere – però ti scopo come piace a me…

Le infilo la lingua nell’orecchio e poi affondo il pollice nel culo. Serro la mano. Stefy fa un lungo verso di sorpresa, forse di dolore. Un verso di quelli che si fanno tirando l’aria dentro tra le corde vocali. Miagola “tu sei pazza, porca puttana, tu sei pazza…”. Alterna quel “tu sei pazza” a miagolii che si fanno sempre più espliciti. Io sarò pazza ma lei ondeggia sempre di più il bacino verso la mia mano. Mi sento incommensurabilmente felice e non posso fare a meno di misurare il delizioso lamento che le provoco con gli strilli e gli ululati di stanotte, quando Alex la sfondava. Il suo “Annalisa, così mi fai venire” mi sorprende indecentemente bagnata. I suoi già un po’ più strillati “vengo, cazzo, sto venendo!” fanno quasi godere anche me.

La lascio così, tremante e trasognata. Non prima di averla asciugata con la lingua tra le gambe per poi ficcargliela in bocca. E’ un saluto che non ha nemmeno bisogno di parole. Mi infilo un camicione per andare in spiaggia e prendo la borsa. Durante tutto questo tempo Alex mi guarda continuando a segarsi lentamente.

Apro la porta della stanza e mi volto verso di lui, gli sorrido.

– Volevo dirti, Alex, a me in realtà piacciono i ragazzi, mi piace il cazzo, ma proprio tanto, e tu sei un bellissimo manzo e hai davvero un bel cazzo – gli dico aggiungendo una smorfia di ammirazione – ma stamattina proprio non è cosa.

Scendo le scale, mi raggiunge un’altra fitta. “Ti sborro nel culo, troia… ora ti sborro nel culo…”, “sì, sì…”.


CONTINUA

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