Tra il tramonto e l'alba

Scritto da , il 2020-02-24, genere pulp

Io e Harald saliamo in macchina e partiamo. Arrogantissimi. Io indosso un paio di jeans strappati ed una canottiera a rete, a maglia fine. Evidenzia il bicipite ed il nuovo tatuaggio che mi sono fatto sul dorsale. Una iena che mangia un topo muschiato dagli occhi rossi e celesti. La mia amica Mery - Mariangela Carraturo - che ne sa di simbolismo Maya mi ha detto che è una cosa che c’entra con il coraggio e la paura che viene divorata dalla nostra personalità, se e solo se crediamo all’esistenza di uno spirito guida profondamente immerso nella natura che ci circonda. A me pare una cazzata. D’altronde, abitando alla periferia di Milano, l’unica natura che conosco è il parco dove vado a comprare il fumo da un curioso marocchino di nome Mohammed, sotto betulle tristi come vedove a lutto.
Harald, invece, ha i pantaloni neri ed un paio di AllStars coi colori della bandiera di Cuba. Che poi, gli ho detto io: "l’ultima volta che hai votato c’era ancora la lira ed hai votato per l’MSI. Cazzo ci fai tu con la bandiera di Cuba?". Lui ha detto una roba del tipo che lui non vota perché non si riconosce nella politica di oggi e che, comunque, non ha mai votato l’MSI. Semmai la DC, ha detto risentito. E comunque, ha proseguito e concluso, la causa Cubana e ’sta storia di Fidel e pure l’iconografia del Che, gli permettono di scoparsi le pivelle del centro sociale che c’è all’ex-mattatoio.
Harald indossa la divisa da trasferta dell’AZ Alkmaar. L’ha presa l’anno scorso quando abbiamo fatto il nostro decimo viaggio ad Amsterdam. L’ha rubata, ovviamente. Io ho preso quella dell’Ajax, molto più figa. Lui è stato sfortunato. Il commesso ci ha colto in flagrante e Harald ha dovuto prendere la prima che gli è capitata sotto mano. Ha preso la maglia dell’AZ, taglia XS. Tuttavia, in discoteca, che è il posto dove stiamo andando, con quella maglietta fa sfracelli.
Harald in realtà si chiama Carmine. Però io lo chiamo Harald. È più di un amico. Più di un migliore amico. Lui è il compagno d’asilo, delle elementari e delle medie. Quello con cui hai affrontato tutto il ciclo delle scuole dell’obbligo. Quello che frequentavi, all’inizio, perché era l’unico che veniva da un quartiere povero come te. In quel cazzo di istituto privato dove ti hanno mandato quei pezzenti dei tuoi genitori. Dei terroni che, per emanciparsi dall’ignoranza e dalla povertà, hanno pensato bene di mandarti alle "scuole alte". Solo che, a casa, i miei parlano tra loro ancora in calabrese. Mentre la famiglia di Harald - sono in quattordici in quattro vani in fondo alla via - importa mozzarella di bufala da trent’anni, e la vende in nero agli operai, all’uscita delle fabbriche della zona industriale.

A sei anni io e Harald giocavamo a pallone. Lui era biondo e mi stava antipatico. Io ero bruno e mi consideravo il più fico. Così, quando giocavamo ai calci di rigore, io ero Paolo Rossi - giacché mi chiamo Paolo - e lui era Harald. Come Schumacher, il portiere della Germania Ovest ai mondiali dell’82. Io, oggi, per il fatto che ha accettato di fare il portiere crucco, Harald lo adoro come un fratello. Anche se, in realtà, mio fratello mi sta sul cazzo. Mettiamola così, lui è il fratello che non ho mai adorato. Noi due siamo sempre insieme. Inseparabili.

Come stasera che andiamo in Disco. L’ho detto prima, siamo arrogantissimi. Io guido la macchina, che poi è il Fiorino di mio padre. Ho tolto il cd di Otello Profazio dall’autoradio e messo quello dei Prodigy. Harald muove la testa al ritmo gutturale dei bassi pesanti di "Smack my bitch up". Prima di partire ci siamo fatti una canna di skunk e adesso siamo fuori come il culo di un neonato. La discoteca è lontana una cinquantina di chilometri verso est e tre quarti d’ora di sogni ad occhi aperti. Illuminati soltanto dai fari anabbaglianti delle auto che incrociano la nostra vita ad una corsia di distanza. Accompagnati dalla musica, abbiamo soltanto il tempo di scambiare chiacchiere banali. Racconti di quotidianità. Parlano di lunedì e poi di martedì, raccontano di mercoledì e di giovedì e di venerdì. Lavoro e frustrazioni camuffate da rimproveri dei capi, da compromessi con i colleghi, da silenzi digeriti con fatica in pomeriggi troppo lunghi per essere veri.
Alla fine raggiungiamo una grande insegna viola che svetta sopra un capannone che sembra tutto fuorché una discoteca. Lo chiamano "Gomma", perchè qui sino a poco tempo fa c’era una fabbrica che produceva semilavorati in gomma. Ora i semilavorati li fanno in Cina e qui ci viene la gente come noi.
Parcheggiamo l'auto in mezzo a centinaia di altre. Il Fiorino si distingue. È un po' cafone, come auto, ma fa la sua figura. Le ragazze poi, quanto salgono su, gli prende quello spirito di antropologica curiosità e se decidono di farsi fottere nel cassone portabagagli arrivano persino a dichiarare il loro amore. Ma io ed Harald non crediamo all’amore. Soprattutto quello dichiarato a voce rotta nel retro di un veicolo commerciale, con la testa sfondata dai decibel della musica techno e dalle lunghe catene enzimatiche che hanno ingurgitato sotto forma di pastiglie e pillole di vari colori e forme.
Facciamo lo slalom tra ragazzi che parlano tra loro furtivamente. Pusher e tossici. Noi ci siamo organizzati prima. Non ci piace questo traffico chimico che si forma nei piazzali delle discoteche. È pericoloso, caro e ritarda l’ingresso in pista. E comunque preferiamo lo skunk. Fumiamo e siamo rilassati e lucidi. Senza farci prendere dalla frenesia di dover vivere due vite in una, nel breve spazio di una notte densa e scura come un bicchiere di petrolio.

Entriamo in pista. "Hey boy, hey girl", dei Chemical, suona ed entra in risonanza con le arterie che pulsano il sangue inquinato in tutto il corpo. Sembra di essere un astronauta sovietico in orbita attorno alla terra, leggero e blandamente inquieto. Ci si mette poco ad impazzire in questi casi. Così ci buttiamo subito nella mischia.
Quando ballo, salto tutto intorno. Mi agito inconsulto come un epilettico che ha appena preso la scossa. Scontro la gente a destra e sinistra. Perché non me ne frega e perché, sotto sotto, voglio infastidire questi figli di papà - e di puttana - che si camuffano da pagliacci solo per dare fastidio ai loro principali finanziatori. I genitori.
Harald, invece, è quasi immobile. Cerca di scimmiottare la danza tribale di Jim Morrison. Ha visto troppe volte il film sui Doors. Le piante dei piedi sono ben fisse per terra. Muove le mani e le braccia come uno sciamano e si guarda attorno. Per evitare che io generi una rissa e per controllare tutti gli esemplari di femmina che entrano nel campo d’azione del suo radar.
Il ping del suo sonar è fenomenale. Non sbaglia quasi mai. Una volta su due finiamo la serata nel posteriore del fiorino a scopare due ragazzine mezze fatte, che lasciamo sotto casa all’alba, dopo avergli offerto la colazione. Dopo avergli regalato l’illusione di una nottata da vere donne. Ed avergli dato numeri di cellulare, rigorosamente inventati.
Bersaglio inquadrato. Harald mi fa un cenno mentre scontro un ragazzino pancione, in camicia azzurra e scarpe da barca. Ma lo capisce questo cazzone che conciato così, qua dentro, è come un bersaglio luminoso per le teste di cazzo come me? Ti odio, frocio fighetto. Ma devo lasciarti perdere. Harald ha smesso di ballare e segue due ragazze che escono dalla pista e vanno verso il bar. Le vediamo ordinare due drink di colore verde. Kryptonite, sembra. Ci avviciniamo. Siamo al loro fianco, attaccati al bancone. Ordiniamo le nostre classiche Tequila Bumbum. Quando arrivano, sbattiamo forte i bicchieri sul bancone. Le due ragazze si voltano e noi ingurgitiamo tutto in un sorso veloce come il pugno di un pugile. Ci facciamo coraggio. Poi attacco discorso.

Il copione è sempre lo stesso.
«Dal tramonto all’alba». Nient’altro.
Sul loro volto, la sorpresa prende il posto del mascara, dell’eyeliner. È un trucco diverso, speciale. Le rende bellissime come le modelle sui giornali. E queste due, in effetti, valgono un otto e mezzo. Abbondante.
«Cosa?».
«Dal tramonto all’alba», ripeto.
«Non capisco», dice quella che sembra il capo.
Anche loro hanno una gerarchia, come noi. Io sono il capo, Harald è il braccio armato. Io parlo e penso. Harald annuisce e si umetta le labbra con la lingua. Sembra pazzo, come Tarantino in quel film, in cui fa il fratello matto di George Clooney.
«Dal tramonto all’alba - dico per la terza volta - il film. Lo hai visto?».
La sorpresa di prima lascia spazio ad una sorpresa diversa. Questa passera è abituata ad altri tipi di approccio. Più rudi, più diretti. Questo è, come dire, originale. Le piace. Si volta e, ne sono certo, sorride all’amica. È andata bene. Ora si tratta solamente di capire qual’è il momento giusto per scappare nel retro del Fiorino. Tirare fuori i preservativi e sborrare via tutta la rabbia che abbiamo accumulato in questa settimana di routine.
«Andiamo in un posto dove si può parlare più tranquillamente?», propongo.
«Parlare?».
«Certo. Per chi ci hai preso?», dico mentre osservo Harald che, apparentemente disinteressato delle due fighe, studia assorto lo scudetto dell’AZ Alkmaar che ha sul petto.
«Sono abituata al peggio». Lei.
«Ma noi siamo il peggio. È per questo che meritiamo un po’ di attenzione. Noi siamo come Seth e Richard Gecko. Anche se lui è biondo - indico Harald - ed io sono più bello di George Clooney», rido.
«Seeeee...», dice l’amica che ha dei tratti un po' orientali che la fanno assomigliare a Lucy Liu.
«Vorresti», ribadisce il Capo.
Se non fosse che il Capo è bella come una sborrata sognata nel sonno, ci farei anche un pensierino su Lucy Liu.
Questo è il momento di tirare su l’amo. Faccio un cenno ad Harald. Saluto, senza troppe cortesie le due passere, mi volto e mi incammino verso il luogo appartato - una specie di veranda quattro stagioni - dove in realtà voglio portarle. È la zona fumatori, una sorta di acquario dove noi pesci, affamati di tabacco, respiriamo un po’ di morte presa da un pacchetto da venti.
Loro ci hanno seguito.
Il Capo è risentito, mentre Lucy Liu si guarda intorno imbarazzata. Harald ha già iniziato a girarle intorno come uno squalo farebbe con la carcassa agonizzante di una foca vecchia.
«Di cosa volevi parlare, Geooorge?», allunga la "O" come nella pubblicità del caffè.
«Del tramonto. E dell’alba. E di quello che c’è in mezzo».
«Che cosa c’è in mezzo?».
«In mezzo ci siamo noi. E tutti questi morti viventi qui intorno. Li vedi, questi ragazzi e queste ragazze. Distrutti da pastiglie, dagli acidi. Ballano e non si guardano intorno. Noi, invece, io e Harald, ci guardiamo intorno. Ed abbiamo visto voi. Voi non siete vampiri. Siete angeli - scontato e banale, ma lei non abbozza e Lucy Liu sorride - e noi dobbiamo salvarvi e portarvi via da qua. Prima che sia troppo tardi».
«Secondo me volete scopare», dice Lucy ad alta voce mentre ammicca ad Harald.
«Può essere. Può essere», dico.
«Io ed Harald, beviamo sempre Tequila». Proseguo.
«Abbiamo visto», il Capo.
«La ricordi la scena con Salma Hayek?».
«No».
«Quella in cui loro bevono la Tequila dal suo alluce. Lei mette il ditone in bocca al fratello matto. Si fa scorrere la Tequila sul corpo, lungo tutta la gamba, fino a far bere Richard».
Resta zitta. Ascolta. Harald parla sommessamente all’orecchio di Lucy. La discoteca vive la fuori come un alieno che appena arrivato da Alfa Centauri è costretto a seguire un seminario di teologia applicata.
«Mentre bevevo quel drink. E ti guardavo. E ti osservavo. E decidevo che tu avresti dovuto essere il mio prossimo sorso. Quello che ti strozza quasi, tanta è la sete. Forte come un pugno al napalm che ti scende nell’esofago. Scontra i visceri e si schianta sull’idea della tua bocca. La tua bocca su di me».
Ancora zitta.
«Capisci quello che intendo?».

Cabrini in quella finale sbaglio un calcio di rigore. Dopo pochi minuti. In una partita normale avremmo perso. Ma noi, contro la Germania, abbiamo sempre una marcia in più. Così, nel secondo tempo, li abbiamo triturati. Il povero Harald Schumacher che, per inciso, quel rigore non lo parò neanche ma finì fuori, raccolse tre volte la palla in fondo alla rete. Io, invece, ad Harald riuscivo sempre a segnare, in quell’estate dell’82. Avevamo sei anni. Lui si buttava sempre dall’altro lato. Sembrava che lo facesse apposta. Pensavo che fosse perché, come nei film sugli alieni, anche lui voleva che vincessero i buoni. In quel caso la Nazionale. Ed invece, oggi, a trent’anni di distanza, ho capito che lui voleva che vincessi io.

Così, mentre lui scopa nel retro del fiorino con Lucy Liu, io sono seduto al bancone del bar della discoteca che si sta svuotando. Il Capo è avvinghiata ad un tizio che sembra un agente immobiliare. Giacca e cravatta e scarpe che sembrano fatte di mogano. Bevo una tequila. Liscia. Limpida. Vacua come i miei pensieri. Quella stronza, certo, mi ha fatto incazzare, ma Harald ha vinto. Almeno lui.

Ed io aspetto che questi vampiri scoprano i loro denti affilati e cerchino di ammazzare anche me. Loro, con i loro soldi, rubati ad un padre, avvocato o notaio, che li ha rubati a qualcuno come me. O come mio padre. Mi viene voglia di andarmene via di lasciare tutto questo mondo, puzzolente come vomito, a qualcun altro. Salutare Harald, prendere il Fiorino, mettere il Cd di Otello Profazio e scappare via. Via da Milano. Dal Capo che limona con quel tizio acrilico. Da Lucy Liu. Dal lavoro come manovale in una fabbrica di rondelle di ferro. Da questa vita vampira che mi svuota come un sacchetto bucato. Dallo skunk. Da me stesso, forse. Finisco la Tequila. E vado.

Da "La Repubblica", edizione di Milano.

La strage di un sabato sera

Dodici persone uccise da un folle all’uscita di una discoteca alla periferia di Lodi.

Carmine Santopadre (36), l’amico, non sa spiegare il gesto. La serata era finita, alla discoteca "Gomma", di Lodi, quando Paolo Giovinazzo (36), in preda ad un raptus ha tirato fuori una pistola automatica ed ha fatto fuoco sugli ultimi avventori della discoteca. Dodici i morti, tra loro, Lucrezia Fumagalli (26), figlia del noto imprenditore delle rondelle di ferro ed il fidanzato, agente immobiliare del Lodigiano. Il Giovinazzo, in attesa di essere messo in cassa integrazione, lavorava proprio nella ditta Fumagalli Steel Spa di Melegnano, di proprietà del padre di una delle vittime. Il Santopadre, che si era appartato con un’amica della Fumagalli, Lucia Yang (24), non ha potuto fermare l’amico. "Non me lo aspettavo", ha detto alla Polizia. "Paolo era un po’ stressato, depresso". Dopo la morte del padre che continuava a non accettare, Ciro Giovinazzo aveva iniziato ad assumere droghe e a dire a tutti gli amici che aveva paura dei vampiri. Che tutti erano solo dei vampiri in attesa di trasformare anche lui in un mostro. Curiosità particolare, i proiettili con cui sono stati uccisi i dodici ragazzi erano tutti di argento. Pare siano stati ottenuti dalla fusione del servizio di posate che i genitori del Giovinazzo, avevano ricevuto come regalo di nozze, quarant’anni fa. Il Giovinazzo, dopo la strage è fuggito a bordo del Fiorino bianco ereditato dal padre. Ricercato dalla polizia si è schiantato ad alta velocità sul pilone di un cavalcavia.

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