A che serve l'estate -

Scritto da , il 2020-02-12, genere etero

Mi fermo proprio poco prima dell’entrata per lasciar passare una donna completamente vestita di nero. Cappello nero, occhiali neri, maglietta nera, gonna nera, corta ma con due lunghe appendici che scendono ai lati delle gambe, stivaletti neri. Capelli rosa, carnagione bianco-latte, gambe arabescate di tatuaggi. Età indefinibile. Sui cinquanta forse.

Entro. Di spalle c’è un uomo con una camicia bianca con delle improbabili stampe azzurro-stinto di carattere tropicale e un paio di blue jeans tenuti su dalle bretellone. Ha i capelli a coda con più di qualche filo bianco, scarpe nere, di vernice, occhiali da sole e un enorme orecchino sul lobo sinistro. Sta facendo, boh, una ricarica, dettando alla tabaccaia i numeri come se fosse lo speaker di una Lotteria. Anche lui ha un’età indefinibile, anche lui probabilmente sulla cinquantina.

Mi guardo un momento intorno per capire se sono davvero in una tabaccheria oppure, che so, ho sbagliato e sono entrata in un rehab per vecchi schiodati.

Quando è il mio turno la signora dall’altra parte del banco mi sorride e mi fa “oh, finalmente un bel faccino”. Sorrido, ringrazio e le chiedo un pacchetto di Camel Light. Mentre me lo dà mi chiede “ma li hai diciott’anni?” e io sorridendo le rispondo che purtroppo ne ho quasi venti. Mi rimanda un’espressione un po’ sorpresa e mi fa “però non dovresti fumare”. Che, detto da lei, mi pare completi benissimo il quadro della tabaccheria più pazza del mondo. Però continuo a sorridere e le rispondo “ma queste mi durano fino a Natale”. Uscendo mi guardo in un riflesso della vetrina. Sono davvero deliziosa. Per strada sorrido pensando alla signora che mi ha venduto le sigarette e che non sa che, a volte, il diavolo si nasconde sotto una gonna celeste alta in vita, corta ma non troppo, e un crop top smanicato a righine bianche e celesti, con le bretelline sottili, i sandali con un po’ di tacco e gli strass, i capelli raccolti in una coda molto alta, biondi e svolazzanti. Non vi descrivo la mia biancheria intima perché non ce l’ho.

Sto per fare una cosa che non ho mai fatto. Non con questa premeditazione, almeno. Mi batte il cuore. Ma non per la paura. Per l’eccitazione, la tensione e, volendo, per il timore che il mio piano non vada in porto. Solo che prima di raccontarvelo devo fare un’altra cosa. Devo salire a casa di Stefania.

Dietro di me sento avvicinarsi le grida di un alterco. Mi volto e vedo una ragazza con i capelli lunghi e mesciati in motorino, senza casco, che procede a venti all’ora. Con una mano regge il manubrio, con l’altra un telefono che tiene piazzato davanti al naso. Inspiegabile, visto che allo stesso tempo ha le cuffiette. Le cose che riesco a percepire sono “non devi rompere i coglioni, hai capito?… fatte i cazzi tua” e, dopo un po’ che mi è passata davanti, “… ner culo mettilo a tu’ sorella”. Penso che ok, essere deliziose ed eteree ogni tanto, a Roma, ti fa entrare in assoluto contrasto con il mondo circostante.

Suono, viene ad aprirmi la mamma di Stefania. Mi fa “ciao Annalisa, come stai? Quanto tempo… ma come sei bella!”. Io ringrazio sorridente e dietro di lei arriva subito il padre che con un sorriso mi saluta “ciao bellezza!” e mi porge la mano. Cazzo, a vederli insieme fanno impressione. E, soprattutto, una capisce perché Stefania sia quella strafiga che è. La più bella ragazza che io conosca, anche più bella di mia sorella Martina. Sprizzano bellezza da tutti i pori. Lui, ma in particolare lei. Arrivarci così alla loro età… E un’altra cosa che emanano è fascino, classe. Naturali, senza ostentazione. La stessa di Stefania, la genetica non fa cazzate.

Sono venuta a lasciare il trolley. Domattina io e Stefy partiamo presto, l’idea è di andarcene alle sei, direzione Conero o giù di lì. Non ho capito bene. Tre ore di macchina, dipende dal traffico. Non mi chiedete perché proprio il Conero, il posto non l’ho scelto io, l’ha scelto il ragazzo di Stefania per passarci il ponte di San Pietro e Paolo. Peccato che quelli che Stefania indispettita definisce “sti cazzoni” (il suo ragazzo Simone e i suoi amici) sono arrivati alle finali di un torneo di calcetto interregionale o non so che cazzo. “Ma te pare? Ma so ‘na manica de pippe, chi l’annava a pensà che…”.

Ehm, quando vi dicevo che Stefania ha “classe”, dimenticavo di aggiungere che a me, e per motivi imperscrutabili solo a me, riserva ogni tanto delle sbroccate che farebbero vergognare un coatto di Spinaceto e anche quella matta che ho visto prima sul motorino. Anzi, stavolta si è moderata.

In ogni caso, è per questo che mi ha detto di accompagnarla. Lei sostiene che è perché tra lo stress dell’ultimo esame dato due giorni fa (una lode un po’ rubata, a dire il vero) e i postumi del dopo-Tommy, mi vede un po’ sgonfia. Proprio così: “Te vedo ‘n po’ sgonfia, Annalì”. Mah…

Lascio il trolley e me la squaglio, perché deve accompagnare i suoi all’aeroporto e a me proprio non va di andare con loro. Le ho detto che avevo un impegno, ha mangiato subito la foglia. “Vigliacca, non hai un cazzo da fare”. Le ho risposto “è vero, ma vedrai che qualcosa la trovo ahahahah”. E in effetti, stamattina, l’idea mi è venuta.

L’idea si chiama Jean. E’ il cameriere strafigo che lavora in quel locale dove ho incontrato Tommy. Quello al quale ho detto che quella sera ero lì con il mio fidanzato ma che, chissà, una volta o l’altra avrei anche potuto tornarci da sola. E’ quello che mi appresto a fare, appunto. Del resto, con lui, ero stata già abbastanza troia, aprendo le gambe per fargli vedere le mutandine mentre baciavo quel poveretto che, appunto, fingevo fosse il mio fidanzato. Carlo, si chiama. Un po’ noioso ma un bravo ragazzo, in fondo. Se la smettesse di invitarmi ad uscire sarebbe perfetto. Mi hai portata fuori, ti ho fatto un pompino anche se non mi andava granché… anche basta, no?

Il motivo per cui faccio tutto questo? Che cazzo ne so del motivo? Magari ha ragione Stefania. Dopo avere scoperto che Tommy è ancora innamorato di me ed averlo mandato affanculo per sempre (e sto parlando del ragazzo che ha rappresentato un bel po’ di mie “prime volte” e che anche io ho amato), dopo avere sputato sangue su questo esame, sì, forse ha ragione lei. Sono stressata, sgonfia. Sì, d’accordo, ho seppellito definitivamente una storia importante, l’unica. Ma mica è andato così tutto liscio, sapete? Per un paio di giorni continuavano a tremarmi le gambe e a volte mi sembrava di non riuscire a respirare bene. Buttarmi sui libri e sui miei quaderni di appunti è stata un’impresa, certe sere mi sembrava di impazzire e di non essermi mai sentita così sola. E adesso è come se ci fosse un rimbalzo dopo avere toccato il fondo. Se non mentale, sicuramente fisico. Ho voglia di scopare.

No, d’accordo, qualcuno potrebbe definirla una voglia insana. Ma per me è sanissima, invece. Ho un desiderio che, ve l’ ho appena detto, è totalmente fisico e che voglio assecondare. Sono fatta così. Sono sempre stata più portata ad assecondare che a reprimere. Gli altri e me stessa. Masturbarmi non mi basta e, del resto, negli ultimi tempi, l’ho fatto poco e male. Le immagini di quella giornata trascorsa insieme a Tommy continuavano a perseguitarmi. Spesso mi fermavo oppure andavo fino in fondo così, meccanicamente, senza soddisfazione. Voglio un maschio e voglio quel maschio lì. Anche una cosa senza senso, una scopata una tantum. Come fanno quei ragazzi che vanno in disco dicendo a se stessi “vediamo se trovo una puttana che me lo succhia al cesso”. Credete che non sappia cosa pensano? Ma dai, a volte quella puttana sono stata io! Beh, proviamo a rovesciare i ruoli. Poi se nasce qualcosa si vede, ma in questo momento nemmeno mi importa, in fondo. Forse sto facendo una cazzata, anzi è probabile. Ma non mi intressa. Forse ho semplicemente bisogno di essere messa a posto. Forse ho bisogno di un gigante di quasi due metri e con le spalle e i muscoli del discobolo di Mirone che mi metta al mio posto, spiaccicata sotto di lui e farcita dal suo cazzo. Come la più assurda di quelle puttanelle che gli fanno gli occhi dolci. Le ho viste in quel locale, sapete? Soprattutto quando passava tra i tavoli in giardino. Certi sguardi una ragazza li capisce molto prima degli uomini cui sono diretti (posto che ci arrivino mai, a capirli). E mi sa tanto che ce n’è almeno una a sera che grazie a lui guarisce dallo stress.

Non ho certezze, sia chiaro. Non penso che sia una cosa facile. Mica per altro, eh? Ma perché mi sono fatta l’idea che potrei benissimo andare da lui e dirgli “ehi, lo sai che stasera te la do?” e sentirmi rispondere “prendi il numeretto”. Però vale la pena provarci, almeno. Sennò che cazzo vi devo dire, prenderò il numeretto… Intanto, per andare fino a laggiù, mi tocca prendere un taxi.

– Guarda chi si rivede…

La voce. Il fatto che mi abbia riconosciuta. Il ghigno sul viso. Tutto questo mi provoca la più classica e scontata delle contrazioni. Spero proprio di non bagnarmi subito. Non mi vanno approcci volgari, le volgarità me le riservo per dopo, semmai. Vorrei mantenere un tono distaccato, ironico. Ma non posso fare a meno di avvicinarmi a lui.

– Ma tu lavori sempre? – domando. E nonostante tutte le mie buone intenzioni mi accorgo che mi è scappato fuori un tono da oca civettuola. Jean risponde con una smorfia. Poi, non so se sia una sua tattica di attacco o se si sia ricordato meglio di me, poggia i gomiti sul bancone e mi fissa negli occhi.

– Sei venuta a farmi vedere un’altra volta le mutandine?

Si è ricordato meglio, ok. Stavolta sì che mi bagno, cazzo. Sento una botta di calore e sono abbastanza certa di quello che sta succedendo lì sotto. Devo fare molta fatica per restare disinvolta, per tirare fuori una delle risposte che mi sono preparata “nel caso in cui”.

– Sai che non mi ricordo se le ho messe? – dico dopo avere respirato a fondo.

Il lampo nei suoi occhi e il nuovo ghigno che mi riserva sono eloquenti. Non c’è nulla da aspettare, no?

– Magari dopo fai controllare al tuo ragazzo…

– Uh… no, sono venuta da sola… magari dopo passo a prendere qualcosa – gli dico con un sorriso prima di allontanarmi sculettando.

Ecco fatto. Lui sa quello che voleva sapere, io ho detto quello che volevo dire. Le carte sono in tavola.

Però, come dire, le cose non vanno mai proprio come si pensa che debbano andare. Sono venuta qui troppo presto e da sola, appunto. E questo mi espone, in teoria, a qualche rottura di coglioni. Non è che non sappia gestire i rompicoglioni, eh? Figuriamoci. Soprattutto in un posto in cui c’è così tanta gente. Però il rischio che qualcuno voglia fare un po’ troppo lo spiritoso esiste.

Rispetto alla mia prima sera qui, c’è molta più gente che balla. Anche perché al posto della cover band c’è qualcuno che, da un banco mixer che non vedo, alterna house, vecchia disco, elettronica, reggaeton, urban e via dicendo. Cagate moltissime, brani da apprezzare davvero pochi. Ma per oscillare lievemente con un bicchiere di birra in mano va bene così. Anche perché di ballare davvero non è che abbia tutta sta voglia, fa troppo caldo e si capisce benissimo che continuerà a farlo anche ora che il sole è andato via. L’unico dubbio che ho è che mi rendo conto benissimo che tra un po’ mi romperò i coglioni da sola, senza bisogno del rimorchiatore di turno. Poco male, mi dico, posso sempre tornare dentro ogni tanto a provocare Jean con la scusa di prendermi una birra. Anzi, poiché di ubriacarmi non ho proprio voglia (gli eccessi alcolici me li riservo per le prossime due-tre sere con Stefy), decido che questa è la prima e ultima e che d’ora in avanti gli darò giù di Coca Cola, come suggerisce la canzone che hanno appena messo. Sono una ragazzina che va fuori per la Coca Cola. Voglio fare anche io le sei di mattina con Stefania e fare colazione in spiaggia mentre sorge il sole.

Alle mie spalle, ma sarebbe meglio dire a ore quattro, mi arriva la voce di un ragazzo che fa “ma che bel faccino”. Sorrido subito tra me e me per la coincidenza, visto che è la seconda volta che sento questo complimento stasera. Mi volto per questo. E anche perché mi dico che per combattere la noia potrei dedicare un po’ di tempo al Gioco dell’Oca. Dove l’oca, ovviamente, sarei io. Mi sorprendo anche a pensare, con un po’ di rammarico, che mi sarebbe piaciuto che la voce fosse invece quella di una ragazza, perché con una ragazza la stupidina la farei molto più volentieri. Ma al tempo stesso mi dico che questi casi devono essere molto rari e che difficilmente una ragazza sarebbe stata così sfacciata. Almeno il tipo di ragazza che in questo momento piacerebbe a me. Sto parlando di un gioco discreto e imbarazzato di sorrisi, sguardi, paroline buttate un po’ a caso. Perché in realtà non desidero nulla in particolare, giusto scaldarmi un po’ prima di consegnarmi a Jean.

Tutto questo lo penso in quella frazione di secondo che impiego per voltare la testa e capire che, sto personaggio qui, quel tipo di complimento può solo rivolgerlo a una ragazza, ma molto mooolto difficilmente riceverlo. Perché cavolo, aiutatemi a dire quanto è brutto. E mette pure un po’ paura anche se sembra un ragazzino che non avrà più di sedici-diciassette anni. Non merita nemmeno il sorriso in modalità-ringraziamento, figuriamoci quello in modalità-incoraggiamento. Lui però mi gela, almeno in un primo momento. Perché subito dopo prendo fuoco. E non in quel senso.

Del resto, con uno che – così, senza motivo – passa in uno-due secondi da “ma che bel faccino” a “ma anche a fregna ‘n devi ésse messa male” come vi comportereste? Avvampo e oscillo tra la voglia di squadrarlo da capo a piedi con uno sguardo che dice “ma che cazzo vuoi, cafone?” e quella di mollarlo lì sdegnata, senza nemmeno rivolgergli la parola. Però ormai mi conoscete. In fondo ho un buon carattere e scelgo una linea moderata. Gli squittisco “mi fai vomitare, pezzente”. E se scrivo “squittisco” c’è una ragione. Perché imposto il mio tono di voce come se fosse quello di una che vuole comunicargli che sì, sono qui che non aspetto altro che farmi rimorchiare da qualcuno, ma tu no, eh cazzo tu no, mi fai troppo schifo. Non so se ho reso l’idea.

Sì, l’ho resa. Reagisce incazzatissimo digrignandomi un “pezzente a chi?” che dimostra che l’ho proprio colpito in pieno. “Non vedo altri pezzenti a parte te, qui intorno – replico diventando di colpo zen, come mi capita in queste occasioni – e anche vederti non è che sia uno spettacolo”. E per quanto riguarda il linguaggio verbale la pratica si chiude qui. Se invece parliamo del linguaggio del corpo, la mia posa esprime uno sfacciato e temerario “dai, vediamo se hai le palle di andare avanti in mezzo a tutta questa gente”.

Beh, sì, ammetto che un po’ le ha. O forse è proprio matto, non so. Si avvicina a meno di un metro e mi digrigna i denti, mi dice a bassa voce ma con furore “io ste cose da ‘na troia come te nun me le faccio dì, ha’ capito?”. Arretro di un passo, metto su un’espressione disgustata come se gli puzzasse il fiato (non è vero, ma è un trucchetto che ho imparato sin dai tempi del liceo) e sono io invece ad alzare la voce per attirare l’attenzione. “E vattene!”, esclamo in un primo momento. “Queste cose gliele dici a tua sorella, per favore!”, aggiungo subito dopo ringraziando idealmente la pazza in motorino sotto casa di Stefy che mi ha dato l’idea. Lo faccio perché voglio chiarire agli astanti: a) di cosa stiamo parlando; b) che, nel caso, il maleducato è lui e che se alzo la voce è solo per legittima difesa. Insomma, la classica parte della brava ragazza molestata dal repellente coatto. Funziona sempre, anche stavolta. Si forma un piccolo capannello. Sono attimi sospesi, di tensione. Perché lui non molla, ma se pensi che sia io a mollare ti sbagli proprio di brutto. Non voglio la vittoria, voglio la tua umiliazione.

L’equilibrio viene rotto, per fortuna, dall’irruzione di un tipo che, sul momento, nemmeno mi rendo conto di che faccia abbia, di come sia fatto. Cioè, lo vedo bene ma non me ne frega un cazzo, ho altro cui pensare. Fa “ahò basta, che sta a succéde?” e si intromette tra me e il coattello. “Sta a succéde che sta stronza m’ha insurtato”, fa lui più pronto. Lo guardo furibonda e poi, calmandomi, dico la mia: “Sta a succéde che questo qui mi sta molestando, e stava anche per allungare le mani. Io chiamo quelli del locale”. Mi volto per andarmene ma il secondo tipo mi cinge per la spalla e mi fa “aspè… aspetta, dai”. Poi si volta verso il ragazzo e gli dice “chiedile scusa”. Nessuna risposta. “Chiedile scusa…”. Niente. Poi rivolto a me: “se ti chiede scusa lo perdoni?”. “Forse”, rispondo, ma intanto mi domando chi cazzo sia questo e chi gli abbia dato la delega alle relazioni diplomatiche qui dentro. “Daje, chiedile scusa…”. “Vabbè, scusa…”. “Tu lo scusi?”. Io? Io ho già vinto, adesso voglio solo passargli sopra con un trattore a sto stronzo. “Doveva scusarsi da solo, così è troppo facile”. Il tipo fa una faccia delusa del genere dai-mettici-un-po’-di-buona-volontà-pure-tu ma a me non me ne frega un cazzo. Il coattello prende un po’ di coraggio e con aria strafottente mi fa “è che so ‘n po’ ‘gnorante”. Mi faccio avanti di un passo e, mentre quell’altro cerca di trattenermi, gli rispondo a brutto muso “il tuo problema non è che sei ignorante, il tuo problema è che te ne vanti pure”. “Che sei, ‘na radical-chic?”. “Almeno non parlo come una specie di incrocio tra una scimmia e un pappagallo”. Il paciere si piazza un’altra volta in mezzo e, cercando di abbassare i toni, mi dice “dai, basta adesso, non è così cattivo, magari non voleva perdere la faccia ma poi ti ha chiesto scusa”. Mi sporgo e indico il ragazzo con un dito, poi rispondo al mio interlocutore “quello lì? Quello lì non voleva perdere la faccia? Ma ringraziasse il cielo se davvero la perde la faccia, ma non hai visto che è?”. “A ragazzì, c’hai ‘na bella lingua pure te, eh? E calmati un po’ adesso!”, mi fa il tipo mettendomi le mani sulle spalle. Mi divincolo, mi volto per andarmene perché per me lo spettacolo è già finito, non prima di avere detto al messo diplomatico “e lasciami pure te, ché quando mi devo calmare lo decido io!”. Mi allontano ma lui mi segue e mi dice “eh no, scusa ma non mi puoi trattare così, io a te non ho fatto nulla, anzi!”.

Non so perché lo fa, boh. Forse è uno di quelli cui non piace che le situazioni restino così, incasinate. Magari ha un ordine mentale per cui i contrasti si devono appianare sempre e comunque, che ne so? A me invece non me ne frega nulla e gli rivolgo una smorfia sintonizzata sul canale ma-pure-tu-che cazzo-vuoi? E stavolta me ne vado sul serio.

Mi siedo su una staccionata, finisco la mia birra. Mi dico sì, forse ho i nervi a pezzi. Tiro fuori il telefono e comincio a cazzeggiare su Instagram, valuto se farmi un account su Curious Cat. Decido di no perché penso che se lo faccio magari stasera mi incazzo davvero. Vado al bancone a prendere una Coca, dentro il locale. Jean non c’è e questo mi mette ancor più di cattivo umore. Poi lo incrocio mentre sta tornando e gli faccio un sorriso da oca così falso e cambio la mia postura in modo talmente innaturale che lui, a giudicare dal sorriso quasi di scherno che mi ricambia, deve pensare di trovarsi davanti una troia in calore per lui, piuttosto che un’oca. Ecco, adesso sì che sono arrabbiata. Con me stessa, soprattutto. Non era proprio così che volevo propormi a lui, troppo esplicita.

Trovo una panchina libera. Mi accomodo sullo schienale con i piedi sulla seduta. Coca in una mano e telefono nell’altra. Dopo un po’ una voce mi fa sobbalzare. “Ancora incazzata?”. Mi volto e sulle prime vorrei rispondere “sì”. Poi guardo il proprietario di quella voce e lo riconosco: il paciere, l’equalizer. Gli dico “scusa, non ce l’avevo con te, prima”. E mentre lo dico lo osservo. Sarà, boh, un bel tipo, forse trenta, forse meno. Abbronzato, altino, capelli scuri e corti… Non male, ma privo di particolari che mi facciano impazzire se non, forse, la voce e il modo di parlare. Che sono quelli di uno che sì, insomma, sa quello che deve dire, non apre bocca per dargli fiato.

“No, va bene, non ti preoccupare… volevo solo dirti che il ragazzo un po’ si è reso conto…”. Ma sapessi a me cosa cazzo me ne frega ormai, vorrei rispondergli. Invece gli dico “ah… ma tu chi sei, il suo tutore?”. Ride e si limita a dirmi che sarebbe lungo da spiegare. Mi domanda se sono qui da sola e gli dico di no, ma che devo aspettare il mio ragazzo che lavora in questo locale e che finisce all’una. “Fa il cameriere?”. “No è quello che si occupa delle luci, dell’audio, ste cose qui”, replico senza sapere nemmeno io il perché. “E finisce all’una?”. “Uh uh…”. “Bella palla doverlo aspettare… ti va di prendere qualcosa?”. Alzo il bicchiere della Coca, senza rispondere. “Ok… ballare?”. “Con questo caldo?”. “Un giretto? Magari andiamo a bere una cosa da un’altra parte”, chiede sorridendo, come a dire che è l’ultima sua chance e che è sul punto di arrendersi.

Cioè, mi dico, questo ci sta provando. Ok? Ok. Che facciamo? Io direi di passarci un po’ di tempo e poi mandarlo in bianco, così impara a farsi gli affari suoi, mi dice una vocina. Ma no dai, è stato anche gentile, non fare la stronza, se non ti va digli di no e pace, risponde la vocina antagonista.

“E dove mi vorresti portare, scusa?”, domando ridendo e facendo la voce da scema laureata. Mi risponde “a farci un giretto non lontano da qui, conosco un bar carino”. Non rispondo, ma secondo me il mio sguardo dice tutto. E in particolare dice: “Mi hai presa per una deficiente?”. Ora, è difficile dire se la sua sia una strategia o se vada avanti a caso, però è come se si accorgesse in questo momento che, insomma, la mia reazione non è proprio irrazionale. Dice “ah no, scusa… cioè, no davvero, volevo solo un po’ di compagnia”. Rispondo che dal poco che ho capito non è mica venuto qui da solo e una compagnia già ce l’ha, tipo quel cafone di prima. Mi guarda a lungo, come se cercasse le parole e non le trovasse. “Vuoi la verità? E’ che mi sono rotto il cazzo e ho bisogno di staccare per un po’”. Lo guardo e non replico, lui aggiunge “e comunque scusa, ho capito… non ci sto assolutamente provando, vabbè lascia stare”.

Stavolta rispondo: “Beeeh… obiettivamente anche io mi sto un po’ rompendo”, ma senza avere deciso nulla. Un secondo dopo ho deciso e aggiungo “io comunque devo stare qui all’una”. Sorpreso, probabilmente confuso, mi assicura che sì, certo, naturalmente, che saremo di ritorno molto prima. Rispondo “ok, ma solo io e te”, alludendo al suo amico. Annuisce e ammicca come se avessi detto una banalità. Dice “scusa, ma tu come ti chiami? io Lele” e allunga la mano. “Io Annalisa” e gliela stringo.

“Vado a dire al mio ragazzo che mi allontano un attimo, nel caso mi cercasse”, gli faccio un po’ compunta. “Figurati, ma non ci mettere tanto, sennò non facciamo nemmeno in tempo a uscire dal parcheggio che devi tornare, ahahahah”. Lo lascio alle sue battute un po’ così e vado a cercare Jean, che non è al bancone. Penso che starà facendo il giro dei tavoli. Lo aspetto con il cuore che un po’ mi batte per l’incertezza. Non so proprio cosa cazzo dirgli, a Jean. “Mi faccio un giretto, ti trovo quando torno?” mi sembra una cosa un po’ sfacciata ma accettabile, visti nostri precedenti. Mentre ci sto pensando, una voce alle spalle mi fa sobbalzare: “Ti stai divertendo?”. Mi volto e lo vedo, un po’ sudato. Un sudore che molto volentieri gli leccherei via dal viso e dal petto. “Sì… sì grazie – gli dico – maaaaa tuuuu… a che ora stacchi?”. Ecco fatto, l’emozione mi ha fregata un’altra volta e ho fatto davvero la figura della zoccoletta. Non a caso Jean si mette a ridere e io comincio a ansimare come un mantice. “Sei sempre così spudorata?”, mi fa continuando a ridere. “Dici?” chiedo arrossendo. Non per la vergogna, sia chiaro, ma perché mi dà fastidio che il gioco adesso lo conduca lui. “Comunque stacco quando chiudiamo, l’una e mezza, le due. Ma subito dopo mi devo mettere in macchina, domani mattina devo essere a Mantova”. Tutta la delusione del mondo mi crolla addosso, ma come domani mattina devi essere a Mantova? “Sa molto di un appuntamento con una donna…”, gli dico cercando di mostrarmi più sicura e ironica di quello che sono ora. Ok, dai, ammazzami, dimmi che ti vai a scopare un’altra. E se arrivi fino a Mantova deve proprio essere una che chissà che cazzo ti fa. Invece lui mi dà una specie di sganassone rispondendomi “in realtà sa molto di testimonianza in tribunale”. Gli getto un’occhiata interrogativa e lui mi spiega: “Un incidente stradale, grave”. Cazzo, le prospettive cambiano radicalmente. Cioè, dovrebbe anche dispiacermi dell’incidente stradale grave, ma in fondo che cazzo me ne frega? “Dammi il tuo numero, ti chiamo domani sera”, mi fa. Rispondo, con un tono di cristallina desolazione, che domattina vado via per qualche giorno con un’altra amica. E credo proprio di non avere mai idealmente mandato affanculo Stefania come in questo momento. “Non è che possiamo andare in un posto un po’ più tranquillo così mi dai il tuo numero e quando torno ti chiamo?”. Non mi rendo nemmeno conto dell’assurdità della mia richiesta, ma da quando mi ha detto che avrebbe voluto chiamarmi domani sera la mia lucidità ha preso la borsa ed è uscita dicendo “ciao, vado a comprare le sigarette ci vediamo tra un paio d’anni”. Anche un perfetto deficiente, e non mi pare che Jean lo sia, non potrebbe fare a meno di domandarmi “perché per darti il telefono bisogna andare in un posto più tranquillo?”. Ok, tana per Annalisa. Che faccio? “Ho bisogno di stare un po’ tranquilla con te… cinque minuti”, dico con un filo di voce. La mia faccia deve sfiammarsi, il respiro tornare regolare e, soprattutto, devo scendere lì sotto a chiudere il rubinetto. Non so se cinque minuti bastano. E di certo, per fare tutto questo, l’ideale sarebbe tuffarsi nel laghetto in giardino, non appartarmi con lui in un “posto tranquillo”.

“Ok, cinque minuti li ho… vai là dentro e fermati a metà corridoio”, dice a bassa voce, indicandomi una porta con un cenno del capo. Eseguo. Non so nemmeno io che cazzo sto facendo ma eseguo. Mi fermo davanti a una porta. Lui arriva dopo una quindicina di secondi, la apre e la richiude a chiave. E’ questo il tuo scannatoio, Jean? E’ qui che ti rinchiudi con quelle che non puoi portarti a casa o quando non puoi proprio più aspettare? Mi farai inginocchiare su queste mattonelle o mi ribalterai a novanta gradi su quella pila di scatoloni di nachos e patatine fritte? Non lo dico ma lo penso. E mentre lo penso mi dico anche che tra un po’ non si tratterà più di colare come una cagna, tra un po’ comincerò direttamente a sgocciolare.

Mi dice “alzati la gonna” e gli obbedisco. Gli mostro il mio sesso nudo e luccicante. Se fosse nella posizione giusta credo che potrebbe vedere che quel taglio che sembra fatto con il bisturi che ho in mezzo alle gambe si sia già schiuso di desiderio. Ciò che invece non può vedere è il gonfiore che avverto, il bottoncino che sta per esplodere, la vagina che pulsa.

Aspetto, oscillando tra l’apnea e l’iperventilazione, ma non succede nulla. Mi dice “allora è vero che non ti sei messa nulla sotto… e nemmeno sopra”. Sposta lo sguardo un po’ più in alto e mi accorgo che quei due maniaci sessuali dei miei capezzoli mi hanno tradita ancora una volta. Sotto il top sono visibilissimi.

Si avvicina e mi dico “ci siamo”. Allunga una mano in mezzo alle mie gambe e con lo sguardo cerco di dirgli “sono il tuo giocattolino personale, fammi quello che vuoi”. Ma in realtà non va così, non succede nulla di tutto ciò che avevo programmato. O perlomeno sperato. Non mi infila un dito dentro e nemmeno indugia più di tanto sul mio sesso spalancato o sul grilletto gonfio. Più che altro è come se volesse verificare fino a che punto mi sono inzaccherata nell’interno coscia, passandoci sopra i polpastrelli. “Ho capito perché le mutande non le usi – commenta sarcastico – gliele metti spesso le corna al tuo fidanzato?”. Uh? Ma quale cazzo di fidanzato? Ah sì, gli ho detto che sono fidanzata. Sì, ok, adesso ti rispondo. Solo che, vedi, è difficile finché non smetto di tremare. Ci provo, d’accordo? “Eeeeee… maaaa… no, no mai… non ho mai tradito nessuno, io”. Che poi, boh, chissà perché glielo dico. Cioè, è vero, sarebbe bellissimo giocare alla fidanzatina integerrima, sedotta da un figlio di puttana che si allontana ridendo e va a dire agli amici “ho lasciato una zoccoletta raggomitolata in un angolino, singhiozza e ha il visino imbrattato di sperma”. Sarebbe eccitante miagolare “ma io non sono una troia” mentre la sua cappella sta già slittando verso il mio ingresso principale. Ma vi dirò di più: anche se non è per nulla quello che desidero, credo che piagnucolare “nooo, non l’ho mai dato nemmeno al mio ragazzo” mentre lui mi forza la porta di servizio mi regalerebbe un orgasmo tutto di cervello, un attimo prima di mettermi a strillare per il dolore.

Sarebbe fantastico, d’accordo. Ma il gioco non è questo. Anzi, a dire il vero io non sto nemmeno giocando. Sono nel pallone più totale, se parliamo della presenza a me stessa. Se invece parliamo del mio lato animale… beh, sono semplicemente sul ciglio dell’abisso di ogni peccato vi possa venire in mente.

Mi sovrasta. Io non sono per niente bassa e stasera, con quei quattro centimetri sotto i sandali, sono uno e ottanta. Ma per guardarlo devo comunque alzare la testa. E per passargli le mani sulle spalle devo allargare per bene le braccia, dio santo.

– E perché vuoi tradirlo proprio con me? – domanda calmissimo.

– Lo voglio tradire? – domando confusissima.

– Non fare la scema – replica continuando ad accarezzarmi dalle parti della fica e, di quando in quando, tra le labbra esterne.

Anche se, a dire il vero, “accarezzare” non è proprio il verbo giusto. Io userei piuttosto “scivolare”. Oppure “sdrucciolare”. Sono sdrucciolevole, eh già. Mi porta un dito alla bocca, lo succhio come se volessi fargli capire cosa prevede stasera il menu alla voce “antipasti”. Tuttavia, la prima cosa che mi sorprende è il mio stesso sapore. Cioè, o lui ha dello zucchero sulle dita o io stasera so quasi di miele.

– Lo sai cosa sei, sì? – mi fa riportando in basso la mano e scuotendomi da questi pensieri.

– No… dimmelo… – ansimo.

– Secondo me ci arrivi da sola…

– Una banale puttana? – piagnucolo sentendo una contrazione irresistibile.

– Bravissima – sussurra.

Sì, d’accordo, bravissima. Ma tu come cazzo fai a stare così calmo? Cosa cazzo sei, un cyborg?

– Ti prego… – miagolo.

– Non ho tempo, ragazzina, fatti sentire quando torni…

– Ma ti piaccio? Ci vediamo? – lo imploro. Non posso andarmene via senza nemmeno qualcosa che mi faccia pensare che sì, avrebbe tanta voglia di scoparmi ma proprio non è cosa, stasera. E che dispiace tanto tanto anche a lui.

– Lo sai quante zoccolette come te ci sono in giro? – risponde invece prima di riaprire la porta.

– Quante ce ne sono? – domando alla porta aperta.


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