L'indiana

Scritto da , il 2017-11-30, genere bondage


Nota dell'autore
Ogni riferimento a darti persone realmente esistite è puramente casuale. L'illusione della loro esistenza è un prodotto delle 21 lettere dell'alfabeto, e dei meccanismi narrativi, nonché delle cellule neuronali, che rendono possibile l'attività immaginativa.
In sostanza nessuno si è fatto male davvero.
Divertitevi o disgustatevi.
In entrambi i casi ricordate che orrore e bellezza sono solo due facce della stessa medaglie.

“Togliti i vestiti”
La ragazza si sfila la casacca di daino. Ha il respiro affannoso e le mani che le tremano. Si volta. Un braccio fermo sui capezzoli. Con l'altro si sfila la gonna. Le sue gambe sono scure, come quelle degli apaches e snelle. I fianchi appena maturi.
“Anche la biancheria intima. Levatela”
“Non so… non sono brava a... fare queste cose...”, mormora con la voce rotta dalla vergogna e dal pianto.
L'uomo si accende una sigaretta. Non vuole ripetersi. Sta aspettando. Il piacere è direttamente proporzionale all’attesa. Come la paura d'altronde, l'altra faccia della medaglia.
“Quanti anni hai?”
“Diciotto signore”
“Dove hai imparato a parlare la lingua degli yankee?”
“Da mio padre”
“Tuo padre era uno yankee?”
“No signore. Ma diceva che è la lingua del futuro.”
“Molto saggio. Ma non ti tirerà fuori dai guai” Si versa da bere. Esita davanti al calice, le dita contro il vetro, come uno che se intende. “Hai un bel culo,” commenta senza guardarla, “come tutte le cagne apaches della tua razza. Pieno al punto giusto. Adoro frustare culi come tuoi. Scommetto che non sai che cosa nemmeno cosa si prova?”
“Come? Io… no. La prego…”
“Fa molto male te lo garantisco. Ed è proprio questo che lo rende così divertente. Almeno dal mio punto di vista. Più soffrite più godo. Che ci vuoi fare? Questa è la punizione per chi non obbedisce.” Trangugia un'altro sorso e fa schioccare le labbra.
STLACK.
“Ora voglio darti un'altra possibilità e ti ripeterò quello che devi fare. Ma tu ascolta bene perché non avrai una terza occasione. Voglio che ti levi i vestiti che hai addosso. Tutti. Compresa la biancheria intima. Poi voglio che ti volti e bada di non coprirsi mentre li fai. Perché questo lo considero un escamotage e gli escamotage equivalgono a una disobbedienza e le disobbedienza.... Ciaf Ciaf. Quando ti sarai voltata, voglio che appoggi le mani e la fronte su quel tavolo e ce le tieni così fino a quando io non decida che puoi staccarle. Tu che dici? son strato stato chiaro, orsetto che parla yankee?”
Chiaro. Sì. La ragazza annuisce sempre più pallida in volto. Si sfila la biancheria intima. Appoggia le mani e fronte sulla scrivania, tremando come un uccellino nelle mani del cacciatore.
“Brava, brava”, commenta l'uomo, tirando una boccata dal suo sigaro. “Vedo che hai capito e questo mi fa piacere. Ma ora viene la parte più difficile.” Si avvicina per esaminarla, con una mano le accarezza le cosce: l’indiana è ben piazzata, la sua pelle è levigata come quella dei giovani, i fianchi snelli e muscolosi; l’uomo le passa un dito tra le natiche e scende fino al tempio sacro; spinge un poco per aprirsi un passaggio, rimane così per qualche minuto, assaporandosi la sensazione di calore sui polpastrelli. “Hai davvero un bel culo!” Commenta finalmente ad alta voce, “ma le tette sono molli, flaccide. Si vede che sono ancora troppo acerbe. E poi questi capezzoli… Peccato. Ho pagato una settimana di stipendio per averti tutta per me avrei potuto scegliere con più attenzione.”
La ragazza nel frattempo ha cominciato a piangere, singhiozza, sussulta, in preda ad una paura disperata. “La prego non mi faccia male.” Mormora.
In tutta risposta l'uomo scoppia in una risata. “ Il tuo desiderio mi è del tutto indifferente anzi sono qui apposta per farti male. Perché è questo che io voglio, godere della tua sofferenza.”
“Po… posso pagarla!”
“Davvero? Credi che un paio di polli possono ricompensare la perdita di questo bel culo?”
“Lasciatemi libera e vi prometto che in cambio vi farò diventare un uomo ricco.”
“Perché dovrei volere questo?”
Silenzio.
“Ho già tutto quello che mi serve per campare: un buon lavoro, amicizie che contano, donne...” L'uomo scuote il capo. Commenta poi, con tono più amareggiato: “Voi altri siete tutti uguali. Credete che a noi interessino solo le viste ricchezze o la vostra terra. Ma la verità è che non avete capito nulla di questa guerra. Volete sapere la verità? La verità è che voi ci servite. Siete un pretesto, capisci questa parola? I nostri cari politici usano le vostre famiglie, i vostri figli, per tenere sotto controllo la popolazione. Si chiama: meccanica del potere, ma che cosa ne vuoi sapere tu, caro il mio orsetto? Anche se parli la mia lingua rimani solo un bestiolina da abbattere. Certo... Non subito. Prima dovrai accontentarmi. Ma basta parlare. Vogliamo cominciare? Sei pronta?”
Butta il sigaro sul pavimento e lo schiaccia con la punta dello stivale.
Poi si volta per aprire l'armadio delle fruste. Ne ha diverse, una più minacciosa dell’altra, ne sceglie una in pelle di cavallo, lunga, flessibile e molto sottile in punta. È una di quelle che sa usare meglio. Quanti ne ha scuoiati con quella frusta! Indiani, ma non solo, anche traditori, un prete e tre orfanelli dell’istituto. È indubbiamente il suo passatempo migliore è anche un modo per rimanere in buona forma fisica.
C'è chi si diverte a posizionare le persone davanti a ingombranti macchinari per immortalarle su una pellicola. Il colonnello Thomas no.
Lui preferisce la frusta e lo schiocco secco sulla pelle. Preferisce l'odore dell'aceto, della paura, del sangue. La frusta può colpire senza colpire, Uccidere senza uccidere, non c'è piacere paragonabile a questo. L'attesa di un dolore non è forse più terrificante del dolore stesso?

***
Era stata catturata dodici giorni prima.
Gli uomini del colonnello Thomas Anderson Avevano attaccato il suo accampamento ad est di Fort Edmonton in piena notte: avevano eliminato i guerrieri di guardia e dato fuoco alle loro ganonchia. Più che un incursione era stato un massacro. Le donne gridavano aggrappati ai loro bambini mentre le fiamme le divoravano. Qualcuno era riuscito a scappare verso le montagne, ma avevano fatto poca strada, perché i fucili degli uomini bianchi avevano una precisione superiore a quella dei loro archi, le pallottole arrivavano come una folgore e sembravano lingue di fuoco. E quando tuonavano gettavano una tale luce che ci si vedeva come di giorno.
Mentre l’accampamento indiano era tutto una fiamma, il colonnello aveva dato l’ordine di radunare i superstiti e caricarli sui carri. Sapeva che erano in molti a potersi permettere il lusso di acquistare un indios per il solo piacere di scotennarlo con le proprie mani. E aveva colto l’occasione.
I bambini erano stata venduti subito.
Adesso, piegata sul tavolo, Adsila risente nelle sue orecchie il pianto disperato di sua sorella mentre la portano via, rivede la sue lacrime e la sua disperazione. Sa che non la rivedrà più. E che nulla tornerà come prima. Sa anche che finché sarà viva le sarà impossibile dimenticare l’orrore.
Le sue divinità non le permettono il privilegio dell’oblio.
Questi pensieri le offuscano la mente, impedendole di ragionare. È davvero troppo difficile per lei tentare qualcosa cosa, perché non ha l'animo risoluto del guerriero... non le è stato insegnato a combattere, ma a tessere e decorare preziose chilkat e a conciare la pelle.
“Spiriti guida aiutatemi.” bisbiglia nella sua lingua natia. La sua preghiera non sortisce l'effetto sperato, perché in quel momento l’uomo decide di colpire.
Accade in un attimo.
Prima lo schiocco. Poi il dolore. Un dolore sordo, difficile da contenere. Adsila contare i muscoli addominali. Le gambe non le reggono.
Cade sul pavimento.

L'uomo sa di non aver colpito con tutta la sua forza. Ma le concede lo stesso qualche secondo per riprendersi. Va al tavolo, si versa un bicchierino di wisky e lo trangugia. “Alzati.” Ordina poi con voce sorprendentemente pacata.
La ragazza esita. “Basta. Io no…”
La frusta colpisce di nuovo, questa volta lateralmente. Si sente di nuovo il suono di poco fa, ma più ovattato. Adsila questa volta non può non gridare. Si ripiega sul pavimento aggrappandosi al seno sinistro. “Madre Terra fa malissimo! Basta! Basta! Fa malissimo!”
“Sì, sulle tette fa malissimo”. Conviene l’uomo, mentre la ragazza si contorce in attesa che passi il dolore. “Ma ti assicuro che è stata solo una carezza. Posso colpire molto più forte di così.”
Adsila di nuovo sta piangendo. Il colonnello nota che la frusta le ha lasciato un bel segno vermiglio sul culo.
“Adesso alzati. Mani e fronte sul tavolo.”
Adsila obbedisce, tremando.
“Brava. Le gambe, devi tenerle più aperte. Ecco, sì. Fai un bel respiro.”

STLAKSTLACK!

Due sul culo.

Adsila si flette, fino a inginocchiarsi, contraendo tutti i muscoli del bacino e delle gambe. Poi La frusta la raggiunge di nuovo, inaspettatamente, su una coscia.
“Aaah. Basta. Bastaaaa!”
Nel portare la gamba all'indietro, in un disperato gesto di protezione, l’Indiana è scivolata per terra, mostrando al suo carnefice il suo lato femminile più vulnerabile. L'uomo decide di farle sperimentare un piatto decisamente più piccante. L'effetto che vuole ottenere è quello della strisciata: per riuscirci ci vogliono esperienza e prontezza di riflessi nel ritirare il braccio nel momento di massimo contatto con la pelle, e il colonnello Thomas ha entrambi.
In un tempismo perfetto, il flagello esegue la sua sequenza tra le gambe semi aperte della ragazza.

“Aaaaaah!”

“Oh sì! È per questo motivo che la natura vi ha fornito di una bella figa!” L'uomo scoppia in una risata. Poi si avvicina alla ragazza, le appoggia lo stivale sul petto, comprimendola. Adsila sta ancora esaurendo il suo grido, mentre il colonnello Thomas è già desiderosi di procurargliene un altro.
Piega la frusta in due metà, e l'annoda, fino a formare una specie di cappio. Poi ci infila dentro una tetta, quella che non è sotto lo stivale, e tira con forza, strozzandola.
“Lo sai che cosa devi fare adesso? Alzarti in piedi e appoggiare le mani e la fronte su quel tavolo. Se pensi di essere stanca o di non farcela più, beh, mi dispiace per te, Indiana, ma una cattiva notizia da darti: siamo appena all'inizio. Ti ricordi di piccolo corno, non è vero? Era con te quando siete state catturate? Lo sai per quanto tempo sono andata avanti a frustare il suo bel culetto indiano? Su, prova a sparare un numero?”
“Di...dieci”
“Dieci? Vuoi dire dieci ore?” il colonnello Thomas si di peggio in avanti, per poterle parlare nell'orecchio. “ Per nove giorni. Alla fine credimi, le sue belle chiappe sembravano due fettine di vitello battuto.”
Adsila chiude per un momento gli occhi. È una femmina forte, lo si capisce dalla piega della piega severa dei suoi occhi. Ma perfino il temperamento più resiliente può essere mandato in frantumi con la giusta leva. Tutto ciò è spiegato molto bene sui libri, riflette Thomas. A Washington esiste una vera e propria biblioteca dedicata interamente all’arte della tortura. Il dramma è che molti di quei volumi sono scritti in latino.
Ad ogni modo a Thomas della teoria non frega molto.
Adesso si è posizionato dietro di lei. “Perché non mi canti una di quelle belle canzoni che conoscete voialtri?”
Adsila chiude gli occhi.

"Tieni stretto ciò che è buono,
anche se è un pugno di terra.
Tieni stretto ciò in cui credi,
anche se è un albero solitario.
Tieni stretto ciò che devi fare,
anche se è molto lontano da qui.
Tieni stretta la vita,
anche se è più facile lasciarsi andare.
Tieni stretta la mia mano,
anche quando mi sono allontanato da te"

Mormora con la voce bassa e sussultante.
Ora accade che mentre le parole vengono fuori, colme di un'insostenibile dolcezza, Adsila sente qualcosa premerle sull’ano e la sua voce ha come un inceppamento.
“Questa mi piace.” Sussurra l'uomo. “Sei brava, orsetto, non ti fermare.”
“Ah...”
Fa male.
Tira.
Adsila ha l’impressione che il passaggio sia troppo stretto, e che a furia di allargarsi si romperà. Ma proprio nel momento in cui crede di aver raggiunto il limite di sopportazione sente una fitta fortissima anche all’inguine.
“AAh!” Esclama.
“Canta puttana. Canta. O questo cazzo te lo faccio uscire dalla gola.”
“Anche quando mi sono allontanata...”
Il colonnello le sta dando colpi violenti con il bacino, mentre con una mano è riuscito a profanarle anche il tempio sacro. Adsila sente come un fuoco nella pancia, fa per tirare su la fronte del tavolo, ma il colonnello gliela spinge di nuovo in basso con un colpo violento.
“Continua a cantare troia!”
“Sempre più…lontano.”
Adesso anche la fronte a preso a farle male. “Basta!”, pensa. “Basta. Basta!”
Il colonnello è quasi al limite del godimento e la sua furia è incontenibile. Molla un paio di schiaffi sul culo della poveretta, ma non è abbastanza, allora si piega su di lei le afferra le tette, gliele comprime in una morsa, le tira a sé, mentre con le dita cerca di perforarne la carne.
Adsila non canta più, ma grida, e lo fa con tutto il fiato che riesce a tirare fuori.
E allora che tutto finisce. Inaspettatamente. L’uomo si ritira. Il ventre di Adsila si contrae, mentre un liquido caldo le scivola giù per le cosce. Ha perso molto sangue e ha male un po' dappertutto, vorrebbe crollare per terra, ma ha paura che l’uomo possa di nuovo sventolare la sua frusta.
E allora rimane ferma, consapevole che da qualche parte i suoi dei stanno meditando una vendetta.
Fuori una poiana lancia il suo grido di battaglia, distende le ali e comincia a salire, in un cielo sempre più terso e rarefatto.
Adisla è dentro i suoi occhi.
Cade e perde coscienza.



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