Schiavo di una dea Pt.1

Scritto da , il 2017-07-27, genere feticismo

Mi chiamo Michele, ho 24 anni e questa è la mia storia.


Era un pomeriggio come mille altri passati nel mio solito villaggio turistico del Salento, ormai ci andavo da 15 anni. Come ogni giorno, tornavo da mare verso casa con le mie amiche Valeria, Marta ed Erika.

Erika, con i suoi 15 anni è la più piccola del gruppo. Era il suo primo anno al villaggio, ma era entrata nel nostro gruppo subito in quanto cugina di Marta. Alta sull’1.70, lunghi capelli neri e occhi verdi, era carina in viso, ma non raggiungeva la bellezza della cugina, di cui era leggermente anche più in carne. Sfoggiava in bikini anche il suo bel decoltè, una terza abbondante.


Mi ero accorto fin dal primo giorno che la ragazzina aveva un debole per il sottoscritto e a me, sinceramente, non dispiaceva avere un piccola bella adulatrice. Ma le cose erano precipitate la sera prima in cui, lasciati soli, eravamo arrivati ad un bacio. Io, però, mi sono subito pentito del gesto: Erika mi piaceva fisicamente, ma mentalmente era troppo piccola, ragionava ancora come una bambina capricciosa. E poi mettermi con una 15enne? Che figura avrei fatto davanti agli altri? Specialmente davanti a Marta, che era per di più la cugina grande. Le dissi “Erika tu mi piaci e ti voglio bene, e proprio per questo ma penso che quello che è successo sia un errore…è meglio che restiamo amici”. Lei non l’ha presa bene…è scoppiata in lacrime e da allora non mi ha rivolto più parola.

A tre giorni dall'accaduto decisi di andarla a trovare per scusarmi, l'ultima cosa che ricordo è il suo viso sogghignante percepii poi uno strano dolore addominale e sentii come se stessi fluttuando nell'aria.

Caddi, infine, a terra e quando mi rialzai lo spettacolo fu a dir poco agghiacciante: tavoli e sedie alti come palazzi di decine di piani, soffitto alto come il cielo e, poi, la gigantesca Erika davanti a me, più imponente di un grattacielo. Guardai davanti a me i suoi piedoni titanici; calcolai di essere alto più o meno quanto il suo alluce…già per arrivare a vedere il suo ginocchio dovevo piegare il collo all’indietro fino a farmi male. Il mio sguardo saliva sul suo addome piatto fino alle tette grandi quanto due montagne, le quali mi nascondevano in parte la visione del ghigno, poco rassicurante, del suo viso.

Ad un certo punto, un boato mi travolse “Michele, ma guarda quanto ti sei fatto piccolino! In confronto a me sei praticamente una formichina! Potrei schiacciarti sotto ognuna delle dita dei miei piedi, o delle miei mani o sotto una delle mie gigantesche tette…ahahahaha!”. Detto questo, tolse il piede destro dall’infradito e lo alzò decine di metri su di me; io, che fino ad allora avevo guardato quello spettacolo impietrito, d’istinto cominciai a scappare; ma poco dopo, il suo gigantesco piedone si schiantò davanti a me, facendomi cadere all’indietro per lo spostamento d’aria. “Microbo, dove credi di andare?! Non capisci che da me non puoi scappare: sono migliaia di volte più grande di te e milioni di volte più forte…tu sei solo una minuscola nullità in confronto a me! Adesso vieni qui e sali sulla mia infradito”. Non potevo che eseguire gli ordini.

Mentre mi avvicinavo al suo piedone sinistro, grande quanto una casa di 4 piani, l’odore del sudore provocato da quel caldo pomeriggio estivo si faceva più acre. Aiutandomi con le braccia salii sull’infradito, proprio davanti al suo alluce. L’odore era insopportabile. “Ma guardati! Ieri potevi avermi tutta tua, oggi sei un insetto sulla mia infradito! Così impari a scaricare uno schianto come me…se ieri potevi essere il mio ragazzo oggi non potrai essere altro che il mio microscopico schiavetto! Sei addirittura più piccolo del mio ditone! Cosa aspetti schiavetto? Bacia il ditone della tua padrona…anzi padrona è dire poco, della tua gigantesca dea…hahahahaha”.

Mi avvicinai lentamente e iniziai a baciare quell’enorme alluce bagnato di sudore e sporco per i metri fatti in infradito. “Forza microbo! Datti da fare, riesco appena ad avvertire la tua minuscola boccuccia sul mio dito…non vorrai mica scontentare la tua dea?”. Quando ormai l’odore si era fatto insostenibile e la faccia e i capelli erano un bagno di sudore proveniente dall’alluce di Erika, un boato proveniente da molto lontano scosse l’aria:“Erikaaaa! Ci sei? Possiamo entrare?”. La voce era quella di Marta. Neanche il tempo di realizzare la nuova situazione che mi ritrovai bloccato tra alluce e secondo dito del piede di Erika. Fu quello il momento in cui realizzai completamente la mia umiliazione: io, ragazzo di 24 anni, laureato, ero imprigionato nel piede di una ragazzina quindicenne, costretto a respirarne il tanfo (che ormai era diventato il mio stesso odore) e bagnarmi inevitabilmente dei fiumi di sudore che produceva. Ero diventato seriamente una nullità di fronte ad una dea che poteva decidere in ogni istante sul mio destino. Ma forse avevo ancora una speranza…


Ogni volta che Erika metteva il piede che mi conteneva a terra, camminando verso la porta, era per me un’impresa di tutto rispetto cercare di rimanere “a bordo” e non essere sballottato via come un sassolino. Abbracciavo con tutte le mie forze la pelle sporca e sudata del suo secondo dito, sperando di reggere la presa quando il piede si sarebbe schiantato a terra provocando il solito boato e un piccolo terremoto tutt’intorno. Erika aprì la porta e un nuovo spettacolo si presentò davanti a me…a dir la verità, dalla fessura tra le dita di Erika, non potevo vedere molto: davanti sulla destra, vidi solo un paio di piedoni enormi, ancora più grandi di quelli di Erika, ma dalla forma affusolata e ben curati, che riconobbi essere quelli di Marta; sulla sinistra più indietro riconobbi, invece, i sandali con tacco di Valeria, che contenevano dei piedoni un po’ più tozzi.

“Ciao Marty, ciao Valeria…che ci fate qui?” chiese Erika “Cugi, come al solito ci siamo dimenticate i cellulari nella tua borsa! “La borsa è lì sotto il patio, venite così vi offro anche del thè freddo”. Non ebbi neanche il tempo di urlare “Aiuto! Sono qui!” (per quanto utile potesse essere detto da un esserino microscopico come me) che il piedone di Erika si girò e ripresa la sua marcia, costringendomi di nuovo ad ancorarmi con tutte le forze al secondo dito.

Erika restituì i due cellulari e poi le 3 si sedettero al tavolo e cominciarono a parlare del più e del meno. Io non ero interessato ai loro discorsi, avevo altro a cui pensare: era la mia occasione…dovevo assolutamente liberarmi da quella morsa di carne e farmi notare da Marta o Valeria. Cominciai, quindi a lottare, cercando di allargare la fessura con braccia e gambe. Erika doveva percepire che qualcosa di strano stesse accadendo, perché strinse ancora di più la presa; ma non le bastò, perché con straordinaria forza di determinazione riuscii a tirare la testa fuori di lì.

La sensazione di respirare qualcosa che non fosse contaminato dall’odore acre dei piedi di Erika purtroppo durò poco perché fui subito ricoperto da un’ombra: vidi la pianta dell’altro titanico piedone di Erika, grande quanto una nave, piombare lentamente su di me, a chiudere la fessura che mi conteneva. Ero di nuovo in trappola e, stavolta, non sembravano esserci vie di scampo.

Ero completamente al buio e, dopo un po’, anche l’ossigeno cominciava a scarseggiare. Quando stavo per svenire, fui accecato da un fascio di luce che entrò nella fessura…Erika doveva essersi distratta e aveva leggermente mollato la presa…senza pensarci due volte mi tuffai letteralmente in quella piccola apertura e caddi al di fuori sulla superficie dell’infradito, rotolando poi a terra. Ero fuori! Notai sotto quel gigantesco tavolo i piedi di Marta a 300-400 metri da me e inizia a correre verso di essi più in fretta che potevo. Nel frattempo, Erika doveva essersi accorta della mia fuga, perché fece volontariamente cadere a terra un giornale in modo da avere una scusa per guardare sotto il tavolo. Non passò molto tempo, quindi, prima che potessi vedere l’infinita massa del suo piede destro sovrastarmi. In più cominciava a mancarmi il fiato ed ero solo a metà della strada…il piedone di Erika intanto era sempre più vicino…maledicendo la mia forma fisica, tentai un ultimo disperato scatto, aspettandomi di diventare, da un momento all’altro, di nuovo prigioniero della gigantessa quindicenne. Ma, inaspettatamente, il mio scatto fu sufficiente, perché lo schianto del titanico piede di Erika produsse un terremoto giusto dietro le mie spalle e lo spostamento d’aria prodotto non fece che avvicinarmi a Marta.

Mentre mi avvicinavo alle gigantesche estremità di Marta, ebbi ancora modo di percepire la mia insignificanza dinanzi a quelle gigantesse: i piedi della ragazza, calzati da un paio di normalissime ciabatte, visti da così vicino e in quelle proporzioni erano una mastodontica opera d’arte; e le splendide gambe che partivano da esse, lunghe km, si perdevano tra le nuvole. Inoltre ero già praticamente inebriato dell’odore di aloe di cui profumava Marta dopo essersi docciata. Ero davvero ai piedi di una dea.

Scavalcai con agilità il bordo della ciabatta e mi avvicinai alle dita di Marta e, in particolare, al titanico alluce, alto sui 2 metri. Cominciai a toccarlo dolcemente con entrambe le mani e contemporaneamente urlavo: “Martaaaaa! Sono qui! Sulla tua ciabatta!”. Nessuna reazione. Cominciai, quindi, a toccare con sempre più forza, fino a arrivare a dare pugni e calci su tutte le dita. Niente da fare, aveva ragione Erika, ero diventato un insetto insignificante sulla ciabatta della mia amica, al punto da non riuscire a fare percepire la mia presenza nemmeno usando tutta la mia forza. Allora pensai che la cosa più sensata da fare fosse trovare un rifugio tra quelle dita e aspettare un momento migliore per farmi notare, allontanandomi nel frattempo dal pericolo n.1 costituito da Erika. Mi feci spazio, quindi, tra il secondo e terzo dito e mi misi lì tranquillo.

Subito dopo però il piede cominciò ad oscillare sempre più velocemente: Marta doveva aver avvertito la mia presenza e doveva averla scambiata per quella di un minuscolo insetto o di un sassolino e stava, giustamente, cercando di espellermi dal suo piede. Provai ad aggrapparmi al dito medio, ma la forza esercitata dalla gigantessa era troppa per un microbo delle miei dimensioni e caddi sulla ciabatta, scivolando verso la pianta del piede. Vidi l’enorme massa che copriva tutto il mio campo visivo avvicinarsi inesorabilmente e pensai davvero che fosse finita. Schiacciato come una formica sotto il piede della ragazza che fino a qualche ora prima provavo a corteggiare… quando la pianta del piedone arrivò a contatto con il mio corpicino, così pulita e profumata, d’istinto la baciai e mi consolai del fatto che alla fine ero riuscito a baciare Marta in qualche maniera prima di essere schiacciato da lei stessa. Ma, incredibilmente, non appena mi toccò, il piede si fermò e, poi andando prima indietro e poi avanti, mi scagliò via. Marta era una ragazza dotata di tanto buonsenso da risparmiare il piccolo insetto che si era insinuato tra i suoi bei piedi. Le devo la vita.

Mi ritrovai in aria, scagliato come un proiettile dal piede di Marta in direzione di Valeria. Fortunatamente la caduta non fu traumatica, dato che atterrai sul morbido cuscino delle sua sedia. Neanche il tempo di rendermi conto di dove fossi, che cominciai a scivolare verso lo sconfinato sedere di Valeria, il quale con la sua enorme massa creava un avallamento nel cuscino. Arrivai fino a toccare il pantaloncino corto che avvolgeva le curve ben pronunciate della gigantessa. Da lì la mia vista si esauriva al gluteo destro di Valeria e sorgeva in me la paura di finire in poltiglia sotto il fondoschiena della mia migliore amica.

Di scalare quella montagna non se ne parlava: non ce l’avrei mai fatta e sarebbe bastato il più insignificante movimento di bacino di Valeria a farmi precipitare giù. Poi ebbi un’illuminazione: dalla tasca del pantaloncino usciva la corda che reggeva il pennino del cellulare touch della ragazza, e la corda scendeva quasi fino al cuscino. Mi mossi, quindi, in corrispondenza della tasca, pregando che a Valeria non venisse in mente di spostare proprio in quel momento il suo mastodontico “lato B”. Scalai quel po’ di distanza che mi separava dalla cordicella e mi strinsi ad essa saldamente. Sarebbe bastato che Valeria ricevesse una chiamata per essere notato.

Circa un minuto dopo un terremoto scosse la corda a cui ero attaccato, e un tonante “ti-ti” mi stordì…vidi la gigantesca mano sopra di me estrarre il cellulare dalla tasca e portare il cellulare davanti a lei per leggere il messaggio. L'accelerazione fu tale che mi sentii come se stessi decollando su un areo e la mia presa non resse…mi trovai di nuovo catapultato in aria, stavolta in direzione verticale, arrivando a raggiungere persino lo sconfinato volto di Valeria, la quale non si accorse di niente intenta, come era, a leggere l’sms.

L’atterraggio fu di nuovo fortunato: mi sentii affondare in qualcosa di morbidissimo e profumato, non ci volle molto a capire che ero caduto esattamente nello spazio tra i due seni di Valeria. Valeria già di per sé portava una quinta, ma visti dalla mia prospettiva di insetto, quelle due tette erano come uno sconfinato e soffice eden. Comunque non mi adagiai e mi misi a scalare quella montagna di carne, salendo verso la luce. Ben presto mi ritrovai sull’orlo del bikini giallo che quasi sembrava far fatica a contenere quegli enormi seni. In basso un vuoto da far paura portava alle sue cosce; in alto, lontano da me, il collo e il mento della gigantessa. “Valeriaaa! Sono qui, sulle tue tette” urlai a più riprese e invano, mentre pizzicavo e scalciavo la morbida pelle. Neanche da quella distanza riuscivo a farmi sentire.

Mentre pensavo a come farmi notare dalla gigantessa, Valeria si alzò improvvisamente, e il movimento inerziale delle sue tettone mi fece fare l’ennesimo volo di giornata, stavolta verso il tavolo. Per la terza volta la fortuna mi assistì in quanto finii direttamente in un bicchiere di thè. Ma gli eventi fortunati finirono lì, perché non appena alzai lo sguardo vidi Erika sorridere guardando verso di me. Mi aveva notato.

“Erika, ma che ti ridi?” disse Marta mentre le ragazze uscivano di casa “Niente, pensavo a una cosa” rispose Erika. Io intanto tremavo, mentre cercavo di stare a galla nel thè alla pesca, pensando alla terribile punizione che avrei ricevuto dalla “dea”.

I passi di Erika rimbombavano sempre più vicini, finché non vidi spuntare il suo gigantesco busto, alto centinaia di metri, sopra il bicchiere che mi conteneva. "Che sete! Credo proprio che mi berrò un bel bicchiere di thè freddo” disse sghignazzando. Afferrò il bicchiere e in un attimo mi ritrovai davanti alla spaventosa visione della sua bocca spalancata, grande quanto una galleria. Ci finii dentro con il resto del thè, rischiando seriamente di affogare nella completa oscurità della bocca chiusa…d’un tratto un enorme “tappeto” viscido mi spinse verso l’alto, facendomi sbattere (dolorosamente) contro il palato. Mentre ero stretto tra lingua e palato, la gigantessa deglutì il thè, salvandomi per lo meno dall’annegamento. Improvvisamente mi sentii mancare la lingua sotto i piedi, ci ricaddi sopra più in basso e iniziai ad essere sballottato ai 4 angoli della bocca. Poi sentii alle spalle un vento fortissimo che mi spinse in avanti, le labbra si schiusero mostrandomi la luce e fui catapultato (o, letteralmente, sputato) nella sua mano destra.

Ero completamente ricoperto della sua saliva…il liquido vischioso era dappertutto: colava dai miei capelli, dai miei vestiti, mi riempiva persino naso e bocca. Il palmo della mano di Erika aveva le dimensioni di una piazza, e non fu facile rimanerci sopra quando lei portò la mano in alto avvicinandomi alla sua faccia. Il viso di Erika era allo stesso tempo una visione splendida e terrificante: i suoi lineamenti fini, la sua pelle bianca che neanche “allargata” a centinaia di metri di diametro non mostrava la minima imperfezione, i suoi occhioni verdi, grandi come laghi; tuttavia la sua espressione non lasciava presagire niente di buono. “Microbo! Sei felice di rivedermi?!”. Quelle parole mi fecero letteralmente saltare i timpani e il fiato che uscì dalla bocca mi fece fare due capriole su me stesso spingendomi diversi metri indietro sul palmo. Erika non fece una piega: “Schiavo, come hai osato fuggire da me? Sei alto meno di un centimetro, non riesci a reggerti neanche a reggerti in piedi davanti a me ora che ti parlo e osi ribellarti? Ti rendi conto che potrei annientarti con la forza di un semplice starnuto?”. Poi mi fece saltare dal palmo e mi strinse tra i polpastrelli di pollice e indice. Il dolore era atroce. Non potevo fare a meno di urlare.

“Dammi una sola ragione per cui non dovrei schiacciarti adesso tra le mie dita come il ridicolo moscerino che sei”. La pressione aumentava. Poi d’un tratto si fermò. “Ce l’ho io una ragione: un essere insignificante come te non merita l’onore di morire tra le mani di una dea”. Detto questo mi poggiò sul pavimento. Ancora una volta potevo vedere la gigantessa in tutta la sua imponenza. L’Empire State Building non credo che le avrebbe superato la coscia. Alzò il piede destro e lo pose un centinaio di metri sopra di me. “Insetto, credo che anche finire spiaccicato sotto il mio piedone sia un onore che non ti meriti, ma siccome sono buona voglio concedertelo”. La pianta del titanico piede di Erika si faceva sempre più grande man mano che si avvicinava. A quel punto non avevo nulla da perdere, e pur sapendo che fosse inutile, cominciai a scappare. Al mio scatto seguì uno scoppio di risate “Ahahaha, davvero pensi di poter scappare? La tua intelligenza è più o meno pari alla tua grandezza, microbo!”. In un attimo spostò il piede, lo avvicinò a me e mi diede un leggero colpetto con l’alluce. Leggero colpetto dal suo punto di vista, dato che mi fece volare per qualche decina di metri. “Michelino Michelino, sei più debole di una formica! Comunque, ora che ci penso, essere schiacciato dal mio piedone divino in queste dimensioni è quasi un premio per te…visto quanto sei debole non resisteresti un millisecondo!”. Tenendomi d’occhio si avvicino alla borsa, estrasse il modulatore molecolare, settò dei parametri e lo puntò verso di me. Alla scarica elettrica seguì il solito dolore addominale, poi cominciai a crescere…in breve tempo superai in altezza l’alluce del piede sinistro che si trovava davanti a me, e mi assestai all’altezza più o meno della caviglia, una decina di centimetri. Guardai in alto verso Erika, sicuramente meno gigante di prima, ma comunque imponente al punto che la visione del suo viso mi era ostruita dalle sue tette. “Bene microbo, adesso non solo soffrirai mentre ti schiaccerò come meriti, ma potrò anche sentire le tue urla di dolore” disse mentre un sorriso sadico si disegnò sulla sua bocca. Il fatto di poter essere ascoltato riaccese in me una piccola speranza. Gettando via quel che rimaneva nel mio orgoglio (se ne era rimasto qualcosa) decisi di prostrarmi davanti a quella quindicenne, che da ragazzina capricciosa in cerca di una storia con me era diventata la mia padrona assoluta. Mi inginocchiai e urlai: “Pietà, dea Erika, pietà! Prometto che non scapperò più e farò tutto quello che vuoi tu”. E lei dall’alto “Troppo tardi, pidocchio”. Alzò di nuovo il piede destro su di me. Io, quasi piangendo, “Ti prego mia dea risparmiami! Sarò il tuo schiavetto fedele…essere un microbo ai tuoi piedi è il più grande onore che la vita mi ha finora riservato!”. Erika non fece una piega e iniziò ad avvicinare il piedone mastodontico a me. Fu allora che decisi di giocarmi il tutto per tutto, anche se odiavo quello che stavo per fare. Corsi verso il piede sinistro di Erika e, dopo essermi inginocchiato, cominciai a baciarle e leccarle i polpastrelli delle dita. Il sapore acre del sudore mi riempiva la bocca mentre il fetore insopportabile mi riempiva i polmoni. Ogni tanto mi fermavo e urlavo frasi come “Mia dea pietà!” “Padrona, grazie per avermi concesso l’onore di baciare i suoi piedi divini” “Mia dea, l’unico scopo della mia vita da ora in poi sarà eseguire ogni tuo ordine”. La mia umiliazione era completa. Erika rimase colpita della mia totale sottomissione: ora non solo poteva decidere la vita o la morte di un essere umano con lo “schiocco” delle sue dita, ma quest’ultimo si era dichiaratamente sottomesso al suo volere, diventando di fatto uno schiavo, seppur di dimensioni microscopiche. Tutto questo la faceva sentire una vera dea.

Nonostante la mia totale umiliazione continuasse, mi ero tranquillizzato, pensando di aver colpito nel segno. E, invece, mentre ero intento a baciare e leccare il suo secondo dito, il piede di Erika mi colpì facendomi volare diversi metri più indietro. “Microbo, mica penserai che qualche bacetto e una leccata possono cancellare l’enorme mancanza di rispetto verso la tua dea? Sono già buona che ti permetto di morire sotto il piede di un essere superiore come me. Ciao ciao piccoletto!”. Il piede destro si alzò di nuovo parecchi metri sopra di me. Io mi inginocchiai, ormai completamente in lacrime: “Erika ti scongiuro, risparmiami!”. Vidi la pianta del piedone scendere verso di me e chiusi gli occhi. Era la fine.

Il boato fu tremendo, la terra tremò in ogni direzione. L’impatto fu talmente violento che non provai dolore, ricordo solo di essere volato qualche metro più in là. Aprii gli occhi e fu la luce…ero in paradiso? Vedevo delle lunghe, interminabili colonne salire verso l’alto e su, quasi in cielo, un volto familiare: Erika! Vidi il suo piede fermo appena più là di dove ero in precedenza. Ora capivo: Erika mi aveva scansato all’ultimo, e io con gli occhi chiusi, non me n’ero neanche accorto. Poi ovviamente ero volato via per lo spostamento ed avevo perso conoscenza sbattendo la testa sul pavimento. “La prossima volta non sbaglierò mira, quindi vedi di rigare dritto, microbo” tuonò la gigantessa dall’alto. E io, non appena ebbi la forza di parlare, “Grazie mia dea, ti ringrazio della tua bontà infinita”. “Piccola pulce, finiscila di blaterare e vai a ringraziare con i fatti il piede che ti ha salvato la vita”. Mi alzai in piedi e corsi a baciare e leccare il suo piede destro e successivamente il sinistro. Ormai l’odore e il sudore non mi davano neanche più fastidio, dato che il primo era diventato anche il mio di odore, e del secondo ne ero completamente ricoperto.

Erika mi guardava dall’alto soddisfatta. Il ragazzo che il giorno prima l’aveva scaricata giaceva ai suoi piedi in dimensioni microscopiche; un semplice movimento di uno dei piedoni e avrebbe potuto distruggere quella nullità. Inoltre si era sottomesso a lei e adesso si prostrava a lei come ad una vera dea.

Diversa era la mia prospettiva, passato da una carriera brillante, da una vita sociale attiva, ad essere lo schiavo di una quindicenne, con l’unico scopo nella vita di servirla come padrona per evitare di soccombere sotto i suoi piedoni titanici.

Quando Erika ne ebbe abbastanza della mia adorazione si abbassò e mi strinse in pugno, portandomi all’altezza della sua faccia. “Microbo, andiamo nella mia stanza, sento che ci divertiremo un mondo io e te”.

Erika entrò nella sua stanza, accese la tv e mi lanciò sul letto, dove si sistemò anche lei. “Schiavetto, avrei proprio bisogno di un bel massaggio ai piedi”. Neanche il tempo di finire la frase, che l’enorme piede destro della ragazza piombò davanti a me, producendo nel letto un riflesso elastico che mi fece volare all’indietro. Erika neanche se era accorta, intenta com’era a fare zapping con la testa dall’altra parte del letto, a centinaia di metri da me. “Microbo sto aspettando”. Mi alzai e mi avvicinai al piedone: fisso sul tallone era alto più del doppio di me. “Allora?”. Sentendo la mia padrona iniziare a spazientirsi, misi le mani sull’enorme pianta e iniziai a muoverle. Subito dopo, un boato scosse l’aria e vidi il capo di Erika apparire su di me, in cielo: “Che cavolo è sta cosa?”. Dopo avermi osservato un po’ meglio, la dea proruppe in una risata “Ahahahaha, scusami microbo, mi ero dimenticato che fossi talmente minuscolo da non raggiungere neanche la metà del mio piedone…non ti preoccupare, la tua dea ti verrà incontro”.

Vidi la pianta titanica scendere lentamente verso di me, che assistevo allo spettacolo immobile. In pochi secondi mi ritrovai schiacciato tra il piedone di Erika e il letto. Sentii la voce della gigantessa quindicenne provenire, soffocata, dall’esterno “Un po’ di pressione in più e ti riduco in poltiglia, nullità!”. Quando il respiro cominciava a mancarmi, l’enorme pianta si sollevo da me. Ancora una volta avevo avuto prova della mia insignificanza davanti a quella dea…però quella volta fu diverso, provai un brivido di piacere nell’essere impotente, sotto il piede di una gigantessa che poteva decidere sulla mia vita o sulla mia morte.

Erika sistemò i piedi orizzontalmente sul letto, in modo che io potessi massaggiarli in tutta la loro (sconfinata) lunghezza. “Bene piccoletto, ora non hai più scuse…servi la tua dea!”. Cominciai a muovere le mie mani dolcemente sul tallone, ma poco dopo fui sbalzato via da un riflesso dello stesso. “Ahaha, così mi fai il solletico! Mettici un po’ di forza in più, schiavetto!” “Si, mia dea” risposi mentre mi rialzavo…ma guarda un po’ tu, non solo mi sto umiliando a massaggiare i suoi piedi, e si lamenta pure! Un po’ arrabbiato per questo motivo e volendola provocare, cominciai a tirare pugni e calci verso l’enorme pianta del piede. Mi aspettavo una sua reazione violenta a quel comportamento e, invece, sentii dei gemiti di piacere seguiti da un “Così iniziamo a ragionare, piccoletto”. Ero talmente insulso rispetto ad Erika che anche l’atteggiamento più violento non era per lei che una rilassante carezza. Riservai questo trattamento a tutto il piede destro, fino a giungere alle dita. Mentre stavo già per assestare il primo cazzotto al mignolo, mi fermai sentendo la voce di Erika: “Bravo microbo…hai visto che quando ti impegni puoi essere un ottimo schiavetto?! Per le mie dita voglio un trattamento speciale però…oggi ho sudato molto, le sento appiccicose…voglio che me le lavi, con la tua lingua ovviamente”.

Seppure fossi in quella condizione da qualche ora, richieste del genere già mi apparivano del tutto normali e giustificate dalla mia posizione di inferiorità. Perciò, senza lamentarmi, mi abbassai e cominciai a leccare il gigantesco mignolo. Ogni tanto, da lontano, mi arrivavano le risatine di Erika, mentre io avevo la faccia immersa nel suo polpastrello sudato e mentre, continuamente, nella mia bocca entravano grumi di sporcizia. L’odore e il sapore erano i consueti, cominciavo ad abituarmi a quell’acredine che certamente avrei dovuto assaporare ancora in futuro. Leccavo quelle dita ad una ad una come un cagnolino che lecca l’osso…solo per il ditone riservai un trattamento particolare: col piede messo in orizzontale era alto quasi quanto me e io lo baciai alla francese come se fosse una ragazza. La mia intensa effusione fu interrotta da Erika, la quale, senza che me ne fossi accorto, mi stava osservando dall’alto: “Però! Vedo che ci hai preso gusto…ti piace il sapore dei miei piedi, eh? Mi fa piacere, dato che li dovrai assaggiare molte volte in futuro, insettino! Adesso ho un altro compito per te, piccoletto…”

Il letto fu scosso da un terremoto mentre la gigantessa si girava a pancia in giù, poggiando la testa sul cuscino. “Mi prude un po’ la schiena…se solo ci fosse un pidocchietto che mi grattasse un pochino!”. Il nuovo ordine era chiaro. Il problema era come arrivare sulla schiena di Erika. dalla mia visuale comparivano rispettivamente: le piante dei piedi, le gambe chilometriche che si ingrandivano sempre di più fino a formare un canion che conduceva alle parti più intime, fasciate da un costume nero. La prima ipotesi era quella di costeggiare la gigantessa e poi provare a scalarle i fianchi, ma l’impresa era difficile data la mancanza totale di appigli. La seconda ipotesi era percorrere il corpo di Erika e, non so perché, mi sentivo che era quella la via che la mia padrona voleva che percorressi.

“Mmm, credo che se questo pidocchio non arriva subito, farà una brutta fine…” disse Erika, alzando il piedone destro con un gesto provocatorio. Ma io ero già in procinto di salire sul sinistro che percorsi aggrappandomi con le mani alle pieghe della pelle della pianta causate dalla flessione del piede. “Ha-ha-ha le tue manine mi fanno il solletico”.

Scavalcato il tallone mi trovai davanti la lunga strada che conduceva alle due sode colline dei suoi glutei. Iniziai a percorrerla a gattoni, per evitare ogni rischio di cadere giù. In breve mi avvicinai a quelle alture e cominciai a provare una certa eccitazione: Erika già naturalmente aveva delle belle curve, ma dalla mia prospettiva erano un qualcosa di mastodontico e incredibilmente sexy. Così mentre afferravo il bordo del costume nero di Erika per salire sul suo sedere faticavo a contenere l’erezione nel costume boxer che indossavo.

Da lì per me si apriva un nuovo mondo: il fondoschiena della gigantessa grande per superficie quanto un appartamento; più in là, la valle costituita dalla schiena, che prima scendeva verso le vertebre lombari e poi risaliva fino al collo, coperto dai capelli; infine il viso poggiato sul cuscino e gli occhi chiusi. Faticavo a reggermi in piedi sul gluteo sinistro di Erika: i piedi e le mani affondavano in tale morbidezza, e dovetti mettermi a carponi per procedere, ostacolato anche dalla turgidità del mio pene. Il desiderio di lanciarmi per abbracciare quella enorme sofficità era fortissimo; ma la paura per la reazione di Erika mi tratteneva: avrebbe tranquillamente potuto farmi scivolare nella fessura tra quelle montagne e stritolarmi tra esse contraendo i glutei.

Sta di fatto che, tra pensieri ed impedimenti fisici, avevo pesantemente rallentato la mia “scalata”. “Pidocchio che fai? Ne approfitti? Capisco che il mio culo sia un richiamo irresistibile per un essere insignificante come te, ma nessuno ti ha dato il permesso di fartici un giro su. Adesso ti faccio vedere io: reggiti forte, perché se cadi ti prometto che passerai tutta la sera e la notte nel mio culo, visto che ti piace tanto!”.

Rimasi perplesso a quelle parole, ma ci volle un istante a capirne il significato: improvvisamente tutto iniziò a muoversi; lesto mi aggrappai con tutte le mie forze al costume mentre venivo sballottato dall’una e dall’altra parte…Erika stava sculettando muovendo velocemente il bacino…la mia presa era abbastanza salda ed ad ogni “scossa” affondavo nell’uno e nell’altro gluteo, il che mi proteggeva dal futuro movimento. Questo rimbalzo da una chiappa all’altra con me che mi reggevo centralmente al costume, durò per una trentina di secondi; mentre affondavo ancora una volta nella morbidezza dello sconfinato gluteo destro della gigantessa, Erika lo contrasse di colpo: quello che prima era un soffice materasso, divenne duro come la pietra. La forza sprigionata dalla contrazione fu enorme, la presa al costume non resse e io volai decine di metri in aria; da lassù il corpo di Erika era un’enorme isola sulla quale speravo di cadere mentre scendevo velocemente…il volo non era stato perfettamente verticale ma il rassodamento improvviso della chiappa destra della mia padrona mi aveva catapultato nella direzione opposta, così rischiavo di finire anche oltre la chiappa sinistra e cadere sul letto, con la terribile punizione che sarebbe seguita. Più scendevo, più quest’ipotesi diventava possibile, finchè non vidi il gluteo sinistro sfilare alla mia sinistra, vicinissimo…con un colpo di reni tentai di aggrapparmi al bordo del costume e lo presi…più difficile fu tentare di arrestare la mia caduta, dato che avevo preso una certa velocità…la mano sinistra cedette, ma la destra no. Ancora una volta in quella terribile giornata ero salvo.

Risalii e mi lasciai cadere sfinito per lo spavento e per la fatica nella titanica morbidezza del fondoschiena della gigantessa. “Eh bravo il mio pidocchietto: chi l’avrebbe mai detto che un microbo come te sarebbe resistito alla forza delle mie gigantesche chiappe. Ma non ti adagiare troppo schiavo! La mia schiena non si gratta da sola!”

A malincuore lasciai il tenero giaciglio del gluteo sinistro di Erika, e, scivolando sul suo osso sacro, raggiunsi l’enorme pianura della sua schiena abbronzata.


Ed ero lì, sulla schiena di una capricciosa quindicenne, grande come un campo di calcio a 5, a soddisfare con impegno tutto i suoi desideri “un po’ più a destra, schiavetto”, “microbo, gratta più forte, non ti sento”, “nullità, ho detto più forte, hai capito?” “si, mia dea”. Dopo una decina di minuti passati così, Erika si stancò. “Basta così, microbo”. Mi stesi supino sulla schiena, esausto. Il retro della cassa toracica della gigantessa mi cullava con il suo ritmico espandersi e contrarsi. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii vidi 2 gigantesche dita avvicinarsi a me.

Erika mi afferrò tra pollice e indice tenendomi per il torace e facendomi espellere tutta l'aria che avevo nei polmoni. Tenendomi in mano, si girò nel letto, sul quale si sedette, appoggiandosi sulla parete dietro il cuscino. Io nel frattempo stavo soffocando. La gigantessa notò il mio viso paonazzo e disse “Piccolino non riesci a respirare? Non ti preoccupare sono sicura che tra poco ti sentirai molto meglio!” e mi lasciò cadere. Vidi il volto di Erika allontanarsi mentre atterravo tra i suoi titanici seni.

La terza di Erika dalla mia prospettiva era costituita da due enormi mongolfiere. Se avevo paragonato il sedere della ragazza ad un soffice materasso, quelle tette erano di più: un morbido e tenero paradiso di nuvole. Pensavo questo mentre il mio atterraggio nella fessura tra i due seni/colline si perfezionava: affondai entrambe le braccia ed entrambe le gambe nelle due titaniche tettone per fermarmi. Guardai in alto verso Erika: “Beh microbo, non male! Visto, essere lo schiavo di una dea ha anche i suoi vantaggi…sono sicura che molti altri maschietti pagherebbero per essere tra le mie gigantesche tette! Ma stai attento perché queste due bimbe qua possono essere il tuo paradiso come la tua tomba…”.

Detto questo mise le mani lateralmente ai seni e li spinse verso il centro, comprimendo la fessura che mi conteneva. Immediatamente il mio corpo si ritrovò coperto da ogni parte dai suoi seni…nonostante la morbidezza la forza di compressione si faceva sentire, anche se il principale problema era che ero in apnea. Poco dopo Erika rilasciò la presa, consentendomi di respirare, e mi disse sorridente: “Visto formichina? Porta rispetto alle mie tettone che ciascuna di queste due è centinaia di volte più forte di te! Ahahaha”.

La cosa strana è rischiare di essere disintegrato dai mastodontici seni di Erika mi aveva fatto provare la stessa sensazione di poco prima, quando stavo rischiando di soccombere sotto il piedone della gigantessa: quel senso di impotenza e il fatto di essere totalmente indifeso davanti a quella dea e alla mercè di ogni sua decisione mi eccitava…il che, unito di trovarmi nel soffice paradiso delle bocce di Erika, aveva prodotto in me una considerevole erezione.

La mia padrona mi tirò fuori dal suo seno, portandomi vicino al suo enorme viso: “Bene piccoletto, direi che per adesso…” vidi che aguzzava lo sguardo “ma quello è…” un sorriso si disegno sulla sua bocca “ahahaha! Piccolo pervertito! Vabbè ma ti capisco…d'altronde sono o non sono una dea?”. Detto questo, con insospettabile delicatezza, ma con decisione, mi abbassò i boxer, usando le unghie di pollice e indice della mano sinistra. Ecco l’ultimo grado della mia umiliazione: non era bastata la mia sottomissione, il mio bacia/leccapiedi, l’aver ubbidito a tutti i suoi ordini, averla chiamata dea e padrona…ora ero nudo davanti a una ragazzina quindicenne, con il mio membro eccitato da lei.

“Ma cos’è questa cosettina qui?” mi disse sfiorandomi il pene con il polpastrello “Mi servirebbe una lente di ingrandimento per sapere meglio, ma mi sono fatta un’idea”. Cominciò a giocherellare con la mia verga, provocando in me ulteriore eccitazione. “Però minuscolo, ma tosto!”.

Improvvisamente allontanò la mano e disse: “Microbo, ti mostrerò quanto può essere piacevole essere il mio schiavetto”. Mi avvicinò velocemente alle sue titaniche labbra, le aprì leggermente e fece entrare il mio membro tra esse. Poi iniziò a muoverle lentamente e a succhiare. Sesso orale con una gigantessa, una sensazione incredibile. Non durai più di 5 secondi e venni.

Erika avvertì il mio liquido seminale che le entrava in bocca e disse “Ma allora voi maschi durate sempre poco…vabbè, d’altronde cosa potevo aspettarmi da un microbo come te?”. La gigantessa mi prese in mano e, dandomi un colpetto con l’indice sulla testa, disse: “Insettino ti sei divertito oggi?”. Feci cenno di si con la testa. “Ma come sei maleducato! Neanche un grazie? Vuoi che i miei piedoni ti insegnino come ci si rivolge ad una dea?”. Mi poggiò davanti al suo piede sinistro e aggiunse “Ringraziami come si deve!”. Io mi avvicinai al piede, mi stesi sul letto e, dopo aver baciato e leccato una ad una le dita del suo piede, esclamai: “Grazie mia dea per avermi reso l’onore di servirla”. “Non c’è di che, pulce!” rispose Erika mentre ridendo mi sovrastò con il suo piedone, schiacciandomi ancora una volta contro il letto. “Hahaha posso fare davvero tutto quello che voglio con te, schiavetto!”.

Mi liberò dalla morsa del suo piedone e scese dal letto. “Rimarrei ancora a giocare qui con te, microbo, ma devo prepararmi per uscire…d’altronde questa è la mia ultima sera qui al villaggio…dobbiamo trovarti un posto sicuro dove tenerti”. Erika si guardò intorno per qualche secondo, poi uscì dalla stanza e tornò con il ridimensionatore. “Alle dimensioni attuale sei troppo pericoloso: puoi parlare e potresti scappare, meglio farti tornare la formichina che eri!”. Regolò il ridimensionatore e lo azionò contro di me: solito dolore addominale e tutto intorno a me cominciò ad ingrandirsi…mi ridussi a mezzo centimetro…il letto paragonabile prima alla pista di un aeroporto divenne un continente, Erika divenne grande come l’Everest. Vidi quella montagna avvicinarsi a me: ciascuna delle labbra che poco prima avevano eccitato il mio pene era grande decine di volte me. “Adesso si che sei un vero microbo!” il boato, come di consueto mi assordò, mi fece volare diversi metri indietro. “Ho quasi paura a toccarti…potrei schiacciarti inavvertitamente sotto le mie dita”. Avvicinò quindi il polpastrello dell’indice della mano destra e io mi ci arrampicai sopra, con fatica: da solo era grande quanto una stanza!

Erika, poi, delicatamente, mi poggiò in un contenitore, che poi riconobbi essere una vecchia scarpa da ginnastica poggiata sul pavimento nelle vicinanze del letto. “Ecco qua, formichina! Questo è il posto perfetto…pareti troppo alte per essere scalate, comodo dove dormire e poi è il posto dove di solito sta il mio piedone destro, che a te piace tanto, non è vero microbo?”. Detto questo si alzò raggiungendo vette inimmaginabili (dalla scarpa non riuscivo a vedere oltre il ginocchio) e si allontanò facendo tremare tutto con l’impatto dei suoi titanici piedi sul pavimento ad ogni passo.

La mia padrona aveva ragione, ero in trappola. Ma non tanto perché non potevo scalare la parete: sarebbe stato faticoso, ma a quelle dimensioni avrei trovato numerosi appigli. Il problema sarebbe stato sopravvivere al di fuori della scarpa: all’altezza di 0,5 cm sarei potuto essere facilmente scambiato per un insetto e schiacciato dalla mamma di Erika o dalla sorellina di 10 anni, o, peggio, essere divorato da un insetto stesso. Mi convinsi che la soluzione migliore fosse rimanere all’interno della scarpa.

Dopo una ventina di minuti, sentii i passi di Erika avvicinarsi e vidi il suo volto spuntare a dominare l’intero mondo al di fuori della scarpa: “Microbo io esco! Ci vediamo domani…buona notte!” tuonò. Sentii i “terremoti” che provocava camminando allontanarsi e dedussi che se n’era andata. Io, temendo di poter esser preda di mosche o zanzare anche all’interno della mia scarpa-prigione, mi diressi verso la punta della stessa. Vidi, nella penombra, i solchi scavati dalle gigantesche dita di Erika all’interno della scarpa: a ricordarmi di quanto fossi insulso, ciascuno di essi era grande varie volte me. Scelsi quello più adatto alle mie dimensioni, il solco del mignolo ovviamente, e lo utilizzai come giaciglio per la notte.

Era la prima volta dall’inizio di quella serie di eventi che avevo modo di fermarmi a pensare. Nel giro di poche ore la storia della mia vita era cambiata: da adulto autosufficiente a giocattolo schiavizzato da una ragazzina. Ma potevo riappropriarmi della mia vita. Vagliavo le possibili soluzioni: di sicuro avrei dovuto chiedere l’aiuto di qualcuno, da solo non sarei mai riuscito a liberarmi della gigantessa. Non potevo chiedere aiuto né alla sorella di Erika, né alla madre: la prima mi avrebbe usato come giocattolo a sua volta, la seconda, capendo in che guaio si fosse cacciata la figlia, mi avrebbe quasi sicuramente schiacciato, cercando di cancellare le prove del sequestro di persona e delle violenze fisiche attuate da Erika nei miei confronti. Dovevo affidarmi ad una persona esterna, che però mi conoscesse…l’identikit perfetto corrispondeva a Marta, la cugina di Erika, che in qualche maniera avrebbe frequentato la casa degli zii. Probabilmente avrei avuto una sola occasione per avvicinarmi a lei e non potevo fallire, pena il rischio di essere veramente calpestato dalla mia padrona o di passare intere giornate asfissiato nelle sue scarpe. Mi convinsi che il piano migliore era quello di fingermi contento della nuova vita da schiavetto di una dea e di guadagnarmi in tal modo, gradualmente, la sua fiducia e un certo grado di libertà. Poi, non appena si fosse presentata l’occasione giusta, avrei cercato l’aiuto di Marta per tornare alla mia vecchia vita.

Mi rigirai nel solco del mignolo di Erika…ero alto mezzo cm e dormivo nella sua scarpa, ma avevo un piano.


La luce che penetrava dai buchi della persiana illuminava il pavimento e la parte del tallone della scarpa in cui mi trovavo. In realtà, al mio risveglio, avevo fatto fatica a capire dove mi trovassi…per un attimo avevo sperato che tutti gli avvenimenti del giorno prima fossero stati solo un incubo, ma gli enormi solchi scavati dalle dita di Erika nella scarpa mi riportarono alla mia realtà di insulso insetto. Raggiunsi la parte di scarpa illuminata: a circa un km in alto potevo vedere il titanico piede della gigantessa pendere dal letto sopra di me, quasi come un monito alla mia condizione.

Ad un certo punto il pavimento cominciò a tremare sempre più forte, un rumore e una folata di vento annunciarono che la porta della stanza si era aperta. “Erikaaaa! Svegliati, su che dobbiamo fare le valige!” La voce della signora Laura, la madre di Erika, mi fece trasalire e subito mi andai a rifugiare nella parte anteriore della scarpa. Fuori era tutto un frastuono: persiane che si alzavano, sedie che si muovevano, rumori abitudinari che per me si trasformavano in tuoni e tornado. Un fragoroso schianto vicino mi annunciò che la mia padrona era scesa dal letto. Gli schianti via via meno potenti che seguirono mi fecero capire che si era allontanata. Poco dopo sentii dei passi avvicinarsi, forse Erika era venuta prendermi. Improvvisamente mi sentii schiacciato contro la suola, come se qualcuno stesse sollevando la scarpa; poi la scarpa cambio inclinazione e io scivolai fino al tallone: da quella posizione potevo vedere due gigantesche dita callose sopra di me reggere la scarpa…non erano certamente quelle di Erika…la gigantesca signora Laura mi stava trasportando altrove! La mia deduzione fu supportata immediatamente da un boato proveniente dall’alto “Erika, queste vecchie scarpe da ginnastica si possono buttare, vero? Occupano solo spazio!” “Mamma non so, potrebbero servirmi” “Ma non appena torniamo su, te ne compro di nuove!” “Vabbè mamma, me ne occupo io tra poco, tu pensa a fare il resto” “Come vuoi!”.

Le scarpe si schiantarono a terra, con me bianco dallo spavento, che mi ancoravo con tutte le mie forze alla suola. Subito dopo mi sentii di nuovo schiacciato contro la suola…mi girai e vidi l’occhio destro di Erika che mi scrutava; “Buongiorno microbo” sussurrò la mia padrona “quella gigantessa cattiva di mamma voleva buttarti nella spazzatura, fortuna che c’è una dea grossa e potente come me a proteggere i microbi deboli e indifesi come te!”. Sorrise e mi prese sul titanico polpastrello dell’indice destro. Si sedette a tavola e mentre diceva “Adesso fai il bravo…anzi comincia il tuo lavoro di schiavetto già ora”, mi portò in basso e mi poggiò sulla parte anteriore della sua infradito sinistra. “Sono sicura che ti sono mancate le tue amiche ditone” disse mentre le mastodontiche dita del piede si chiudevano su di me, imprigionandomi. “Ecco, ci risiamo” pensai, mentre, chiuso nella fessura tra alluce e secondo dito, mi accingevo a baciare e leccare la parete interna di un alluce alto 2 volte me. “Hahaha, riesco a sentire la tua minuscola lingua schiavetto!”.

Erika faceva colazione sopra di me ed ogni tanto faceva cadere qualche briciola di biscotto sulle sue dita dei piedi “Mangia le briciole, da brava formichina che sei!”, mi ripeteva divertita. Ed io mangiavo, costretto dalla fame, quelle briciole contaminate dai grumi di sporcizia dei piedi della gigantessa, per non parlare di quella goccia d’acqua che fece cadere sull’alluce, che in breve tempo divenne di sapore acido a causa del sudore. Ma questo era il minimo.

Durante i preparativi della partenza, Erika mi tenne chiuso tra le sue dita, alzandole di tanto in tanto, per farmi capire che dovevo passare avanti nel lavoro di pulizia. Poco prima di partire, quando ormai le stavo leccando il mignolo, si chiuse in bagno e mi afferrò con due dita, posandomi sulla lavatrice. Di fronte a me la montagna ripida del suo addome, con la caverna costituita dal suo ombelico e più in su i massicci seni mi ostruivano oltre la visuale. “Microbo, ho deciso premiare il tuo bel lavoretto di stamattina facendoti viaggiare in prima classe!”. Mi afferrò di nuovo e mi portò appena sopra le sue tettone; spostò in avanti il reggiseno di destra scoprendo l’enorme montagna che presentava un capezzolo grande quanto una palazzina di 3 piani…la mano mi avvicinava sempre di più a quel paradiso, quando si bloccò di colpo. Fui di nuovo poggiato sulla lavatrice, mentre Erika si allontanava dal bagno e vi tornava con la borsetta. “Sei troppo piccolo per affrontare un viaggio nelle mie tette…basterebbe una piccolissima pressione sul mio seno per distruggerti”. Estrasse dalla borsa il ridimensionatore molecolare, lo settò e lo puntò verso di me…crebbi alla ragionevole altezza di 3 cm. Ora che ero addirittura più grande del diametro del suo capezzolo, ero pronto per affrontare il viaggio all’interno del suo reggiseno. Mi ci fece cadere sulla sua tetta destra, nei pressi del capezzolo, e si risistemò il reggiseno.

Fu il buio. Se il giorno prima avevo paragonato le tette di Erika a 2 enormi mongolfiere, ora erano 2 gigantesche montagne…montagne che mi contenevano con la loro delicatezza e morbidezza…sarebbero state il mio paradiso per le prossime 12 ore, più o meno il tempo che ci vuole dal Salento alla provincia di Cuneo.

Il viaggio in macchina fu interminabile. Mi arrivavano le voci soffuse della signora Laura e della piccola Roberta, oltre a quella tonante di Erika. Ascoltavo i loro futili discorsi pur di non annoiarmi. Presi sonno diverse volte, complice l’azione cullante della macchina, fortemente amplificata dalla massa delle bocce della mia padrona. A metà viaggio, nel bagno dell’autogrill, Erika mi tirò fuori: “Pidocchio, ti sta piacendo il viaggio, eh?”. Feci segno di si con la testa. “Eh bravo! Ringrazia la tua dea come si conviene, schiavetto!”. Mi poggiò a terra e io assalii il suo piede destro di leccate e baci, abbastanza velocemente, ora che vedevo le sue dita dall’alto dei miei 3 cm. “Che ne dici, microbo, di continuare il viaggio sotto il mio piedone?”. Senza farmelo ripetere, mi posizionai sotto le dita del piede. “Hahahaha, microbo, stavo scherzando! Mi fa piacere di averti ridotto ai miei piedi in un solo giorno, in ogni senso!”. Mi prese e mi posizionò sull’altro seno. “Ci vediamo a casa, schiavo”. Il reggiseno si chiuse e fu di nuovo il buio. Nella seconda parte del viaggio, un po’ per la noia, un po’ perché non riuscivo più a contenere l’eccitazione, venni per ben 2 volte, all’interno di quel paradiso. Di gran lunga il viaggio più bello della mia vita.


Arrivammo a casa di Erika dopo la mezzanotte. La gigantessa, appena entrata in camera, si levò i panni e si gettò sul letto. Mi estrasse dal suo seno. “Microbo, finalmente soli!” mi disse tenendomi tra pollice e indice davanti alla sua faccia “Piaciuto il viaggio nella mia tettona?”. Feci ampi segni di si con la testa. “Il mio viaggio non è stato altrettanto comodo, sono tutta indolenzita! Adesso vado a farmi una doccia, ma quando torno voglio che da bravo schiavetto rilassi tutti i muscoli della tua padrona, altrimenti la prossima volta viaggi sotto il mio piedone, come si conviene ad un insetto delle tue dimensioni!”. Erika mi lasciò sul letto e uscì dalla stanza.

Osservai il mondo intorno a me: il letto dava uno dei suoi lati lunghi al muro, mentre dall’altro c’era un comò; sul muro opposto della stanza c’erano l’armadio e una cassettiera; a km da me, sul muro opposto a quello del comò c’erano una scrivania con pc e mensole con i libri. Sapevo che quelli sarebbero stati i confini del mio mondo per un bel po’.


Boati in lontananza mi annunciavano l’avvicinarsi di qualcuno e, infatti, qualche, istante dopo, la porta della stanza si aprì, rivelando la mastodontica figura della mia padrona in accappatoio. Sentivo il letto vibrare, a ogni suo passo, sempre più forte mentre lei si avvicinava, diventando sempre più grande e mettendo in ombra il mio minuscolo corpicino con la sua mole immensa.

Si fermò davanti a me e vidi che cominciava a sfilarsi l’accappatoio. Io immediatamente mi girai di spalle, non volendo invadere la sua privacy. Un boato mi riprese dall’alto:

“Cosa c’è microbo? Non hai mai visto una gigantessa nuda? Fossi in te mi godrei lo spettacolo…”.

Non mi feci pregare e mi voltai. Proprio in quel momento Erika fece cadere l’accappatoio, provocando un tornado profumato alla pesca che mi fece cadere a gambe all’aria.

“Ha-ha, non smetterò mai di sorprendermi di quanto sei debole, microbo”.

Quando mi rialzai lo spettacolo era estasiante: colossale, gigantesca, titanica, nuda, Erika mi guardava dall’alto; al di sotto del viso dai lineamenti sottili, i due seni-montagne che mi avevano accolto per tutta la giornata, rassodati dall’acqua; poi lo sconfinato addome piatto che finiva nella foresta amazzonica dei suoi peli pubici; infine le massicce cosce e le chilometriche gambe, la cui fine non mi era possibile vedere. Una vera dea.

“Che c’è formichina? Sei rimasto imbambolato? Che tenero!” disse mentre si metteva mutanda e reggiseno. Poi prese il ridimensionatore molecolare e mi poggiò a terra. “Così minuscolo non mi servi a niente”. Dopo le solite regolazioni partì la scossa e crebbi, più del solito…raggiunsi la rispettabile altezza di 25 cm. Non arrivavo al ginocchio di Erika, ma, viste le dimensioni a cui ero stato abituato gli ultimi 2 giorni, mi sentivo un gigante.

“Microbo, sei addirittura più alto del mio piede! Complimenti! Ma lui è ancora più forte di te…” e dicendo così mi prese sul dorso del suo piede destro e mi scagliò sul letto. Si stese sul letto, facendo si che finissi tra le sue gambe, e mi disse

“Forza schiavo, ti fatto crescere per un motivo…comincia dai polpacci!”

“Con piacere, mia padrona!”.

E cominciai a massaggiare quegli enormi polpacci, più grandi del mio intero corpo, con diverse tecniche…ad Erika piacque quella più “violenta” con la quale la toccavo con rapidi colpi con le mani come se volessi affettare una melanzana su un tagliere. Quando fu soddisfatta del trattamento ai polpacci, passai alle mastodontiche cosce, e, scavalcando i morbidi glutei, alla schiena. In quest’ultima parte fui particolarmente bravo, alternando scariche più forti e colpi mirati e delicati.

“Pidocchio, le tue manine microscopiche sono magiche! Sei nato per essere lo schiavo di una dea come me” mi disse quando finii il trattamento.

“Grazie, mia dea, è troppo buona” risposi io. La gigantessa guardò l’orologio sul comodino e vide che erano le 2 passate…

“Microbo, si è fatto tardi…l’ultimo tocco nel posto che più ti piace e poi a nanna” mi disse indicando i piedi.

Mi incamminai verso l’altra parte del letto e raggiunsi le sue estremità. I piedoni di Erika erano in posizione verticale e, per la prima volta, io li superavo in altezza. Cominciai, dunque, a massaggiare le piante, con la tecnica ormai consolidata, e, infine, mi concentravo sulle dita, che baciavo e leccavo, anche con un certo piacere ora che erano pulite e profumate di pesca. Continuai quel trattamento di venerazione ai piedi della dea finchè lei non mi disse:

“Ok, schiavetto…per oggi è sufficiente. Adesso ti devo trovare un posto dove dormire…che ne dici di un’altra scarpa? O preferisci una ciabatta?”

“Padrona, prima di dormire, posso permettermi di dire una cosa?”.

Era finalmente giunto il momento di attuare il mio piano per guadagnarmi la fiducia assoluta di Erika.

“Ok, ma fai presto che è tardi e sto morendo di sonno” rispose la gigantessa, sbadigliando.

“Dea Erika, confesso che all’inizio non avevo capito che grande fortuna mi fosse capitate nell’essere ai suoi divini piedi. È stato un processo graduale quello con cui sono arrivato a comprendere quanto sono insignificante rispetto a lei. Ogni giorno lei mi sta omaggiando della sua infinita bellezza, bontà e gentilezza e per me è un onore provare a ricambiarla offrendole i miei umili servigi. Ora come ora non mi sento neanche degno di essere calpestato dal suo piede come il più minuscolo degli insetti. Grazie per l’onore che mi sta offrendo concedendomi di essere il suo microscopico schiavo. E sappia che nella mia vita non c’è altro obiettivo che soddisfare ogni suo desiderio. Per sempre”.

Vidi Erika rimanere letteralmente a bocca aperta per qualche momento. Poi mosse la mano verso di me e mi afferrò con violenza. Per un attimo temetti che avesse capito le mie intenzioni e volesse punirmi. Invece mi portò davanti al suo viso, avvicinò le labbra voluminose e bagnate, da sole capaci di coprire l’intero volto, e mi schioccò un gigantesco bacio.

“Microbo, sei lo schiavo perfetto” disse.

Spense la luce, si distese a letto sul fianco destro e mi abbracciò al suo petto, come un orsacchiotto.

Nel buio e nel silenzio della stanza, assaporavo il suo profumo e il contatto con la sua pelle fresca. Il mio viso era completamente immerso nel titanico seno destro, molto più morbido di un cuscino, che mi cullava con il ritmico oscillare della respirazione; tutto questo mentre le braccia possenti mi bloccavano impedendo ogni movimento. Nonostante fossi diventato il pupazzetto di una ragazzina quindicenne, non si può negare che quello fosse un bel modo di concludere la giornata.


Erika si addormentò subito, provata per il viaggio, mentre io, avendo dormito molto nel soffice santuario delle tette della gigantessa durante il viaggio, non avevo molto sonno. Ripensavo alle due giornate passate: alle umiliazioni subite, ma anche al piacere sessuale ricavato. Erano due facce della stessa medaglia e forse la seconda mi sarebbe servito per sopportare la prima, in attesa dell’occasione di guadagnare la libertà.

In mezzo a quei pensieri, Morfeo stava per venire a prendere anche me. Senonchè, ad un certo punto, il soffice cuscino su cui poggiavo la testa, ovvero la tetta destra di Erika, venne a mancare…tutto si muoveva intorno a me e io mi ritrovai supino sul letto…un istante dopo un gigantesco peso cadde su di me: Erika si era girata mettendosi a pancia in giù, e mi stava schiacciando. Un peso decine di volte superiore al mio misero corpicino premeva su di me…fortuna che gran parte del mio corpo fosse circondato dall’enorme seno sinistro della gigantessa, che attutiva l’impatto con la sua morbidezza. Provai a muovermi, scalciare e tirare pugni in ogni direzione, per quel poco che mi fosse possibile da lì sotto, ma ciò non provocò alcuna reazione nella mia padrona. Stavo soffocando. Mentre mi muovevo disperatamente, la mia mano destra trovo una protuberanza nella titanica tetta della gigantessa: il capezzolo. Lo strinsi con tutte le dita, sapendo che si tratta di una zona ricca di innervazione sensoriale. Finalmente Erika si mosse. Lo strinsi ancora con più forza. Mi parve di sentire un “Ahi” e la gigantessa si alzò da me. Tornavo a respirare.

Erika si rese subito conto di cosa aveva fatto:

“Microbo, ti stavo schiacciando! Tutto bene?”.

“Si, mia dea”.

“Mi fa piacere. Ora torniamo a dormire piccoletto. Starò attenta a non schiacciarti” disse mentre mi riportava davanti alle tette mastodontiche.

Io, però, non mi fidavo certo della sua fase REM e non avevo nessuna intenzione di rischiare di soffocare sotto le sue gigantesche bocce. Trovai subito una via d’uscita: “Padrona, secondo me quello che è successo è un segno. Io minuscolo schiavo non sono degno di dormire a fianco del suo seno divino, morbido e profumato. Conviene che io dorma nel posto che più mi spetta, cioè al sotto dei suoi magnifici piedi”.

“Mmm, forse hai ragione microbo…”.

Mi incamminai, quindi verso l’altra estremità del letto. Quando la raggiunsi vidi il piedone destro della gigantessa travolgermi e schiacciarmi contro il letto, comprendo quasi interamente il mio corpo:

“Puoi abbracciarlo se vuoi sentirti meno solo…bacio della buonanotte!”.

Abbracciai, per quel che potevo, il piedone e baciai l’alluce.

Erika tornò a dormire, mentre io passavo la notte, come un cagnolino, a contatto con i suoi titanici piedi.

La mattina dopo si verificò quella che sarebbe diventata una prassi: appena sveglia, Erika si faceva subito massaggiare e venerare i piedi; poi mi rimpiccioliva alla grandezza di 4 cm e mi chiudeva all’interno di una delle sue tette per andare giù a fare colazione; mentre si lavava faccia e denti, mi lasciava nuotare nella piscina “olimpionica” del lavello e, per evitare di ferirmi, invece di asciugarmi strofinandomi con l’asciugamano, faceva ella stessa da gigantesco phon col suo alito.

Quella mattina, inoltre, la gigantessa svuotò il primo cassetto del comò e disse “Microbo, questa sarà la tua nuova casa!”. Prese una scatoletta rettangolare, tolse il braccialetto che conteneva, la foderò di fazzoletti a mo’ di lenzuola e la mise in angolo: non era difficile capire dove avrei dormito da quel momento in poi. Poi prese una specie di minuscola cassettiera, la svuotò del materiale di bijotteria contenuto, e la pose ad un altro angolo del cassetto.

“Credo che ora ti serviranno dei nuovi vestiti, microbo”, mi disse guardando la t-shirt e il costume-boxer che portavo ormai da 3 giorni. Rimase un attimo a pensare e poi esclamò, con palese eccitazione, “Si va a fare shopping!”. Prese il ridimensionatore e rimpicciolì una sua t-shirt, un paio di scarpe di ginnastica e un jeans alla mia misura. “Indossa questi microbo, te li fatti a posta a misura XXXInsect!”.

Mentre mi cambiavo, assistevo al magnifico spettacolo della gigantessa che faceva altrettanto, mostrando le sue belle curve grandi come golfi e promontori al mio cospetto. Top aderente, minigonna, scarpe con tacco 7, in una mano la miniborsetta, nell’altra io e fummo fuori casa.

Appena fummo sul marciapiede, inaspettatamente, Erika mi poggiò a lato del suo piede destro, che con la complicità del tacco, diventava una visione imponente: il tallone si ergeva metri e metri sopra di me, mentre il margine esterno scendeva lentamente, fino ad arrivare alle dita, che erano l’unico punto per me raggiungibile. Mentre ero perso nella visione del titanico piedone, vidi il raggio elettrico, che ormai avevo imparato a riconoscere essere del ridimensionatore, raggiungermi: superai il tacco, la caviglia, salii lungo il polpaccio e, superando il ginocchio, lungo l’enorme coscia, fermandomi poco sotto dell’orlo della minigonna.

Erika si abbassò sulle ginocchia, mi sollevo leggermente da terra afferrandomi per il collo della maglia e mi disse: “Microbo, ora sei grande come un bambino di 2 anni…non pensare di potermi sfuggire solo perché ora sei alto una sessantina di centimetri, sono comunque decine di volte più forte di te…comportati come il lattante di 2 anni che sei! Ci siamo capiti?!” “Si, mia padrona” “I bambini di 2 anni non parlano così!” disse mentre mi dava un potente pizzico con le due ditone sul mio braccino...lacrimavo per il dolore fortissimo… “Bravo piccolino, mettiti a piangere quando ti fai la bua” aggiunse sorridendo. Si alzò e fece scendere dall’alto una mano, che io afferrai (o meglio ne afferrai un dito, date le minuscole dimensioni della mia manina). Cominciammo a camminare così, come madre e figlio.

Seppure non fossi mai stato così alto nell’arco dei giorni precedenti, ero fortemente spaventato dalla mia condizione: quando ero alto un centimetro c’era la presenza di una sola gigantessa, Erika, a farmi capire il mio stato di inferiorità e nullità al suo cospetto; in quel momento, invece, chiunque vedessi, dalla bambina di 6 anni, alla ragazzina di 12, alla signora di mezz’età: ero circondato da enormi gigantesse, di nessuna delle quali superavo la coscia. Non mi ero mai sentito così debole ed indifeso.

Ad un certo punto vidi camminare nel verso contrario al nostro 2 ragazze, una mora abbastanza grossa, ed una bionda più piccolina e longilinea. Man mano che si avvicinavano, diventavano sempre più imponenti…notavo che erano anche carine, o, meglio lo sarebbero state normalmente: dal mio punto di vista erano delle supermodelle!

Quando furono vicine a noi, sia Erika che le due tipe si fermarono. “Ciao Erika!” dissero prima la ragazza bionda e poi la ragazza mora. Quest’ultima era mastodontica: superava Erika in altezza nonostante i tacchi ed era di corporatura “piazzata” per essere eleganti, con una sesta di seno che sembrava stesse lì lì per rompere la maglia attillata che indossava. “Ciao Paola, ciao Anna, come va?”, rispose Erika. “Tutto bene” rispose Anna, la gigantessa mora. Vidi poi lo sguardo dall’alto delle due ragazze puntato verso di me, e, per reazione istintiva, mi nascosi dietro la gamba di Erika. “E chi è quel piccolino timidino laggiù?” chiese Anna, abbassandosi al mio livello. “E’ il mio cuginetto!” disse la mia padrona. “Non sapevo che Marta avesse un fratellino”. “Ehm, no, infatti…è il figlio della cugina di mia madre” “Ah, capito…posso?” aggiunse, allungando le braccia verso di me. “Certo!” rispose Erika. Con estrema facilità, Anna mi strappò dalla gamba della mia padrona e mi prese in braccio, dritto contro le gigantesche tettone.

“Ciao piccoletto! Come ti chiami?” “Mi-mi-hele” dissi io, cercando di imitare la parlata di un bambino di 2 anni. “Ma lo sai che sei proprio carino!” disse, scoccandomi un bacio che ricoprì tutta la guancia. Devo dire che in braccio ad Anna si stava comodi... e non di meno tra le braccia di Paola, che mi prese poco dopo. Nonostante fosse umiliante che due ochette quindicenni mi avessero in totale controllo e mi spupazzassero come volevano senza che potessi in alcun modo oppormi, mi piaceva essere coccolato dalle due gigantesse; in fondo, come detto prima, dal mio punto di vista erano due enormi top-model, dato che anche il seno di Paola, la più piccolina delle due, era più grande della mia testa. Passavo come una palla dalle braccia di Anna a quelle di Paola, tra mani che mi toccavano le guance, baci su ogni parte e cucù-settete ai quali ero costretto a ridere per fingermi un bambino di 24 mesi.

Tuttò durò finchè Erika si stufò e disse “Ora dobbiamo andare, però, dobbiamo passare un attimo al centro commerciale prima che chiuda”. Paola, che in quel momento mi reggeva, mi restituì tra le salde braccia della mia padrona. “Ciao piccolino, sei proprio un bambino tenerissimo” disse Paola, prima che le due quindicenni giganti salutassero Erika.


Arrivammo al centro commerciale e ci dirigemmo verso il reparto bambini, ovviamente. Lì Erika mi mise a terra e fermò una commessa. “Mi scusi, cerco qualcosa per lui”. Della commessa, dal mio punto di vista, potevo vedere solo le chilometriche gambe che terminavano in un paio di zeppe piuttosto alte. “Per questo piccolino qui?”.

La commessa si abbassò e io, guardando verso l’alto, riconobbi un volto conosciuto: era Ottavia, una mia compagna di classe del liceo. “Ciao piccoletto!” disse la commessa “Ma lo sai che mi ricordi tanto un mio amico. Solo che lui è molto più grande di te, io non arrivo neanche alla spalla, mentre tu mi superi appena il ginocchio”.

Ottavia era una ragazza bassina, che, per questo, indossava sempre scarpe alte. Nonostante ciò arrivava circa al mento di Erika. E io, invece, mi perdevo nella sua enorme coscia. “Cosa vuole vedere?” disse Ottavia rialzandosi “Pantaloni, maglie, completi?”, aggiunse, vedendo Erika perplessa. “Ecco magari 3-4 completini…sa devo praticamente rifargli il guardaroba”. “Ok” disse la commessa, dirigendosi agli scaffali. Erika si abbassò e mi sussurrò “Ma guarda un po’ te…dovevamo beccare l’unica commessa che ti conosceva, per fortuna non era abituata a vederti nelle tue dimensioni microscopiche!”.

Ottavia portò ben 6 completi, pantaloncini corti e t-shirt… “Possiamo provarli?” chiese Erika “Certo” rispose la commessa, indicando dei camerini in fondo.

Entrammo in un uno di essi, e io stavo per spogliarmi…ma la mia padrona mi bloccò: “Microbo, che stai facendo?”. Io la guardavo con un viso interrogativo. “Ma quanto sei stupido! Non hai capito niente! Davvero pensavi che mi mettevo a spendere i miei soldi per un insetto come te?”. Detto questo cacciò il ridimensionatore dalla borsetta e rimpicciolì me con tutti i vestiti alla grandezza di 3 cm. Di nuovo mi trovai ai suoi titanici piedi che svettavano sui tacchi alti quanto due torri. “Microbo!” il boato mi travolse, avevo un po’ perso l’abitudine a sentirla così gigante rispetto a me “per punire la tua presunzione, il viaggio di ritorno te lo fai dove meriti, cioè sotto i miei piedi”. E dicendo questo, allargò in maniera esplicativa alluce e secondo dito, fessura nella quale mi accomodai, mentre Erika raccoglieva i minuscoli vestiti e li sistemava nella borsa.

Uscimmo dal camerino, con io che abbracciavo con tutte le mie forze al secondo dito del piede sinistro di Erika, cercando di resistere alle forze titaniche che esercitava la gigantessa e al frastuono tremendo provocato dallo schianto dei tacchi contro il pavimento.

D’un tratto il piede che mi conteneva si fermò, e riconobbi davanti a me due piedoni conosciuti, calzati da due zeppe alte quanto un palazzo di 4 piani: Ottavia! “Tutto a posto?” chiese la commessa vedendo Erika sola “Si, il piccolino sta provando i completi con la mamma, mentre io vado a fare altro shopping”. Vedendo i piedi di Ottavia così vicini, non seppi resistere e mi ci gettai contro. Così quando le 2 gigantesse si salutarono, io ero sul pavimento…era la mia occasione, finalmente una persona che conoscevo abbastanza bene da potersi interessare a me.

Ottavia, la ragazza che ero abituato a vedere dall’alto del mio 1.85, si ergeva monumentale dinanzi a me, più alta di un grattacielo…persino la parte frontale delle sue zeppe, da cui protrudevano le mastodontiche dita, era più alta di me. Approfittando del momento di esitazione di Ottavia, mentre probabilmente elaborava le informazioni che le aveva dato Erika, mi arrampicai sulla punta della zeppa e raggiunsi la suola, trovandomi circondato dalle enormi dita del piede della gigantessa. Vidi Erika allontanarsi senza notare nulla…talmente ero piccolo che non si era accorta della perdita.

Subito fui spinto verso l’alluce della commessa dal movimento del titanico piede…mi ci aggrappai con forza, mentre l’aria era scossa dal fragoroso abbattersi delle zeppe di Ottavia al suolo. Ad un certo punto la gigantessa si fermò, intenta a fare qualcosa che dal basso io non riuscivo a vedere…vedevo solo, da una parte, le chilometriche gambe della commessa e, dall’altra, un’infinita superficie di legno, che probabilmente era una parete del bancone della cassa. Erika poteva tornare da un momento all’altro, dovevo sbrigarmi. Colpii con forza l’alluce sudato della gigantessa, che rispondendo di riflesso colpì me, facendomi volare qualche metro in alto. Ricaddi sul secondo dito, a cui diedi un morso con violenza (ormai la mia lingua aveva fatto l’abitudine al sapore dei piedi femminili e non mi disgustava più di tanto). Questa volta nessuna reazione. Poi un boato scosse l’aria e mi ritrovai catapultato a centinaia di metri di distanza. “Tutto a posto?” chiese una voce da lontano “Si tutto ok” rispose Ottavia “avevo solo un insetto sul piede”.

Le cose si mettevano male: Ottavia mi aveva scambiato per un insetto e ora la terra tremava mentre si avvicinava pericolosamente verso di me, fissando il pavimento. Cercai di agitare le braccia e di correre intorno a me stesso, con la speranza di far intravedere il mio lato “umano”. Ma niente da fare: la gigantessa era arrivata a pochi metri da me e stava alzando il titanico piede destro. Allora iniziai a scappare, ma subito dopo la mastodontica zeppa della gigantessa si piazzò davanti a me, producendo un frastuono e facendomi volare diversi metri dietro. “Che c’è insettino? Non ti piacciono più i miei piedi? La prossima volta impari a salirci sopra!”. Ero in trappola, chiuso tra la gigantessa Ottavia e il bancone, alla completa mercè dei suoi infiniti piedoni. D’un tratto uno spiraglio: il bancone non arrivava fino a terra, ma c’era al di sotto una fessura…se fossi riuscito ad entrarvi sarei stato salvo. Mi lanciai di corsa verso quella direzione e subito vidi il piede di Ottavia alzarsi centinaia di metri sopra di me. Poi il solito colpo di fortuna: “Ottavia, scusa, hai completato l’ordine per domani?”. Il piede sopra di me si fermò e io riuscii a sgattaiolare sotto il bancone. “Maledetta Elisabetta! Mi hai distratto e hai fatto scappare l’insetto sotto il bancone!”. Ero salvo, ancora una volta. Vidi Ottavia fare un ultimo tentativo, togliendosi la zeppa destra, e penetrando con le dita sotto il bancone nel tentativo di schiacciarmi, ma io, prevedendo la mossa, mi ero allontanato.

Per evitare ogni rischio, mi diressi dall’altra parte del bancone. Maledissi me stesso: ora potevo essere al sicuro nei piedi di Erika e, invece, ero lì solo, alto 3 cm, ai piedi di decine di gigantesse ignare della mia presenza. Mentre mi interrogavo come raggiungere il camerino, che era sicuramente il primo punto in cui Erika sarebbe andata a guardare quando si fosse accorta della mia assenza, sentii la terra tremare e vidi 2 paia di piedi fermarsi nelle mie vicinanze, al di fuori del bancone: tutti e quattro i piedi erano calzati da sandali, solo che due erano decisamente più grandi e più callosi, appartenenti probabilmente ad una signora, mentre gli altri due erano piccoli, appartenendo probabilmente alla figlia della suddetta signora. Piccoli ovviamente se paragonati agli altri, perché la bambina avrebbe potuto tranquillamente schiacciarmi con ciascuna di quelle ditone. Improvvisamente sentii nel dialogo tra la signora e una commessa una parola che mi fece illuminare: “Dove sono i camerini?”. Senza pensarci due volte iniziai a correre verso il piedone della signora e mi inserii tra alluce e secondo dito, cercando di essere delicato e non far notare la mia presenza. La signora doveva aver camminato un bel po’ quella mattina, perché l’odore era insopportabile e il sudore mi stava bagnando copiosamente. Ma ormai a queste cose davo poco peso, visto il mio stato di insetto. Poco dopo, il piede iniziò a dirigersi verso i camerini.

Ormai ero diventato un maestro nel reggermi ai piedi di gigantesse che camminavano e arrivai senza problemi ai camerini. Notai che però la signora si fermò in quello immediatamente a fianco rispetto a quello utilizzato prima da me ed Erika. Scesi quindi dal piede e corsi lungo il muro attiguo al camerino dentro il quale mi avrebbe cercato Erika. Quando ormai ero prossimo a passare sotto la tenda verde che chiudeva il camerino, una voce proveniente dall’alto alle mie spalle mi gelò il sangue: “Mamma guarda! Sul pavimento c’è un omino minuscolo!” “Clara, tu vedi troppa televisione” “Ma è vero mamma! E’ uscito dal tuo piede ed è corso via, un omino grande quanto un insetto!” “Si, come no”. L’avevo scampata bella.

Ero giunto nel camerino giusto, che per fortuna era vuoto. Non mi restava che attendere l’arrivo della mia padrona. Sentii dei passi avvicinarsi, mi avvicinai verso l’entrata sperando fosse Erika, e, invece, davanti a me apparì un’altra gigantessa: i capelli lunghi e castani, il viso dolce di una bambina di 8-9 anni e subito davanti a me dei piedi titanici che riconobbi. Echeggiò un boato dall’alto: “Eccoti formichino!”. Neanche il tempo di scappare che il titanico piedone di Clara mi fu davanti, facendomi cadere come al solito all’indietro. “Non ti preoccupare, non ti schiaccio piccolino”. Fui afferrato dalle due dita della gigantessa bambina che mi portò davanti ai suoi occhioni azzurri per scrutarmi “Sei un omino vero! Ma sei davvero minuscolo! Scommetto che persino il mio mignoletto è molto più forte di te…ma non ti spaventare piccolino, ti prometto che non ti farò del male…ti terrò con me, sarai il mio animaletto!”

“Nanetta, lui è già occupato” proruppe una voce dall’alto…Erika! Con un rapido movimento, la mia padrona mi strappò dalla mano della bambina, che si mise a piangere “L’ho trovato prima io! Mamma! Mamma!”. Erika sgusciò in fretta dal camerino, mi sussurrò un “Microbo, con te facciamo i conti dopo” che non prometteva nulla di buono e mi infilò in borsa.

* * *

Chiuse la porta dietro di se, un secondo dopo era già col ridimensionatore in mano, col quale mi colpì facendomi crescere fino ad un altezza di 10 cm circa. Temendo quali fossero le sue intenzioni, stavo già per andarle a baciare le dita dei piedi…ma non feci in tempo poiché il piede a cui mi stavo avvicinando si alzò in aria e ricadde su di me con inaudita violenza.

“Microbo, insignificante nullità ai miei piedi, è così che ripaghi la tua dea? Scappando appena ne hai l’occasione?” disse mentre mi comprimeva con la suola della scarpa contro il pavimento.

Urlavo dal dolore, finchè ne ebbi il fiato, dato che il mio torace non poteva espandersi a causa della mastodontica forza del piedone destro di Erika, grande 5 volte me, e probabilmente 50 volte più forte del sottoscritto, dal momento che su di esso si scaricavano tutte le migliaia di tonnellate del peso della gigantessa.

“Microscopico pidocchio traditore, anche essere uno zerbino sotto le mie scarpe è un premio che non ti meriti!”.

Allentò per un attimo la presa, consentendomi di respirare. Ansimante, usai tutte le forze per gridare “N-on s-o-no sca-ppato!”.

“Zitta pulce…ti permetti pure di parlare?!”. Alzò il mastodontico piede, lo inclinò in avanti e iniziò a sferrarmi colpi tremendi col gigantesco tacco sull’addome.

“Devi-imparare cosa-succede quando-un insetto non-obbedisce alla-propria dea” disse, ritmando le parole con i colpi.

Ogni volta che il tacco enorme si abbatteva su di me, io sentivo come l’anima uscirmi dal corpo e rispondevo ad ogni colpo con un grido.

Ad un certo punto Erika si fermò e rimase a guardarmi dall’alto, come se attendesse qualche tipo di risposta da me. Cercai di essere lucido e di raccogliere le forze che mi rimanevano per gridare: “Mia dea, è stato un incidente, lo giuro! Il suo piede divino era troppo potente affinchè potessi reggermi ad esso!”.

A quelle parole la gigantessa mi assestò un calcione, che mi fece letteralmente volare dall’altra parte della stanza. Erika si tolse le scarpe e scalza mi raggiunse in soli 3 passi, mentre io, dolorante in ogni parte, mi contorcevo a terra.

“Mi hai preso per una cretina, microbo? Altre volte sei stato nel mio piedone e ti sei retto benissimo…nonostante fossi anche più piccolo e debole di quanto eri stamattina!” disse mentre mi calpestava con la pianta nuda e sudata. La mia testa andò a finire precisamente tra l’alluce e il secondo dito, e da lì potevo vedere le chilometriche gambe di Erika che terminavano nell’addome, le mastodontiche tette che oscuravano parte del viso severo della gigantessa che mi osservava.

“Padrona, è vero che ho avuto l’onore di essere all’interno del suo divino piede anche in dimensioni ridotte rispetto a quelle di oggi…ma essere più piccoli non dà solo degli svantaggi, anzi consente di avere più punti di appoggio e più attrito con le superfici, oltre ad essere meno esposti alle correnti prodotte dalla potenza del movimento del suo piede…oggi tutto questo è mancato e sono volato via subito, all’interno del negozio. Mia dea, deve credermi, non c’è altro posto in cui vorrei essere ora che sotto il suo piedone.” Per confermare le mie parole, cominciai a leccare, e di fatto a lavare, le dita del piede di Erika, sporche della polvere accumulatasi durante la passeggiata della mattina, e umide per il sudore.

La gigantessa non disse nulla. Avevo colpito nel segno. Ed ero sicuro che le facesse piacere che il suo schiavetto avesse deciso spontaneamente di farle un po’ di pulizia ai piedi.

Dopo una ventina di secondi, quando avevo quasi terminato la ripulitura dell’alluce, Erika riprese a parlare: “Ok microbo, passi anche questa volta…ma che una situazione del genere non si ripeta più…la prossima volta ti schiaccio all’istante oppure ti mangio facendoti sciogliere nel mio stomaco, mettendo fine alla tua inutile esistenza da insetto.” “Grazie, dea Erika, grazie della sua infinita bontà! Non so proprio cosa ho fatto di buono per meritarmi di essere ai piedi di una simile padrona!”. “Bla bla bla…finiscila di blaterare, pidocchio che non sei altro, e vieni a massaggiarmi i piedi…oggi i tacchi me li hanno distrutti”.

Mi afferrò il collo tra alluce e secondo dito e mi fece volare sul letto, dove presto mi raggiunse. Messaggiava al cellulare e guardava la televisione mentre io davo il massimo per compiacere i giganteschi piedoni. Vedevo che era ancora un po' incazzata per la questione della mia fuga, perchè, ogni tanto, senza preavviso, uno dei titanici piedi si abbatteva su di me, schiacciandomi contro il materasso. Inerme e indifeso, assaporavo il contatto con la pelle umida delle piante, non mi ribellavo neppure, ma aspettavo che la mia padrona mi liberasse dalla potente morsa di quei piedoni per tornare a respirare e ricominciare a venerarli da bravo schiavetto.


Le giornate si susseguirono di lì in poi senza particolari eventi, con io che mi umiliavo venerando la quindicenne Erika come mia somma dea e padrona, obbedendo ad ogni suo ordine, che per lo più consisteva nel ricevere un massaggio ai piedi o una pulizia degli stessi. Penso che in realtà la stragrande maggioranza delle volte non ne avesse fisicamente bisogno…però il fatto di avere un uomo adulto alla mercè dei suoi piedi, un uomo che la chiamava “dea” e che le leccava i piedi a comando, un uomo che ormai viveva solamente per soddisfare i suoi desideri, e che, nonostante ciò, avrebbe potuto annientare in ogni momento con una semplice pressione del mignolo del suo piede…tutto questo la faceva sentire una vera divinità.

Ogni tanto Erika si divertiva con me in prove e giochini: ad esempio, dovevo portare una ciabatta (grande per me quanto un autobus) entro 1 minuto dalla scrivania al letto, pena la pulizia della stessa con la mia lingua; e lo stesso accadeva con scarpe, mutande e calzini; oppure giocavamo a nascondino, con io che mi nascondevo bene a causa della ridotta stazza, ma che inesorabilmente finivo schiacciato sotto il piedone della gigantessa al momento di fare “tana”.

Poi iniziò la scuola e la mia giornata assunse una scaletta ben definita: al mattino svegliavo la mia padrona leccandole la pianta dei piedi; poi finivo rimpiccolito tra le dita di un piedone o dell’altro a fare il lavoro di pulizia mattutina; passavo il resto nella mattina chiuso nella mia casa-cassetto finchè Erika non tornava da scuola e mi portava a tavola per il pranzo all’interno delle sue tettone, passandomi ogni tanto delle briciole di cibo dall’alto, dato che era l’unico formato di cibo che potevo inghiottire.

Il pomeriggio lo passavo da bravo insettino sulle ciabatte della gigantessa, sotto la scrivania, mentre lei studiava o era al pc; da lì mi prodigavo in bacini o leccate, di mia iniziativa o, più frequentemente, su ordine della gigantessa; a Erika, mentre parlava al telefono o mandava sms, piaceva spupazzarmi da un piede all’altro, sollevarmi prendendomi tra alluce e indice e portarmi ad altitudini per me imponenti accavallando le gambe, lanciarmi dall’uno all’altro piede, calpestarmi a piede nudo o sotto la ciabatta, e così via.

La sera, invece, era dedicata ai giochini, o più in generale, ai massaggi, che eseguivo mentre la mia padrona guardava la tv.

Il mio piano di avvicinarmi ad Erika stava funzionando, perché la gigantessa mi dava sempre più libertà quando non c’era, consentendomi addirittura di vagare liberamente per la sua stanza (ma con la porta chiusa a chiave da fuori). Inoltre ero diventato anche un buon confidente…spesso la sera, dopo aver effettuato il solito lavoro da schiavetto ai suoi piedi, mi prendeva e mi metteva sulla spalla o tra i suoi seni per parlare con me.

Tra l’atro Erika mi aveva procurato un microfono, una cuffia bluetooth che si applica all’orecchio, che si collegava wireless alle casse dello stereo nella stanza, in modo da sentirmi parlare anche quando ero alto un cm schiacciato sotto il suo piedone o quando, come detto, la sera mi poggiava sulle morbidissime tette, cuscini dalla grandezza sconfinata per una persona alta 4 cm.

* * *

“Ciao piccoletto!” disse la gigantessa mentre mi dava una sorta di pacca con l’indice destro sulla testa. Giusy, però, non era abituata ad aver a che fare con microbi delle mie dimensioni, e la pacca che mi diede mi fece cadere immediatamente all’indietro sul palmo della sua mano. “Uh ma sei debolissimo!”

“Giusy sii delicata! Non vorrai mica schiacciarmi il mio microbetto?! Anche se ti sembra una persona, devi ragionare con lui come se fosse un insetto: sei migliaia di volte più grande e più forte di lui, per lui sei un enorme continente, una gigantessa irraggiungibile, una dea che può decidere in ogni momento sulla vita con un semplice gesto”

“Hai ragione Eri! È talmente piccolo e fragile che ho l’impressione che potrei annientarlo anche solo soffiandogli addosso!” “Scusami insettino” aggiunse mentre col polpastrello dell’indice mi aiutava a rialzarmi.

“Non ti devi mai scusare con il tuo schiavetto, scema! Ne hai di strada da fare per diventare una vera dea…”

“Uffa, ma io è la prima volta che mi trovo davanti ad un essere così insignificante rispetto a me, dammi il tempo di imparare! Dimmi insettino, come ti chiami?”

“Michele, mia dea” disse una voce pronunciata dallo stereo.

“Ma è una voce registrata o cosa?” chiese Giusy. “Ma no! Ha un microfono collegato alle casse, altrimenti come credi che potremmo sentire la sua voce proveniente dai quei polmoni da pulce che si ritrova” rispose Erika.

“Effettivamente…dimmi la verità, piccino: quanta paura ti fa essere così insignificante ed indifeso davanti a una gigantessa come me? Cioè potresti finire schiacciato sotto ciascuna delle mie dita, o sotto il mio piedone, per non parlare delle mie gigantesche tettone…ognuna delle due deve essere grande come una montagna per te” disse mentre mi avvicinava al titanico seno sinistro.

“Nessuna paura, mia padrona. Semplicemente perché finire schiacciato sotto una parte del suo corpo sconfinato e divino sarebbe il più grande onore che la vita potrebbe offrirmi” risposi io.

Giusy rimase sorpresa dalla mia risposta e, dopo avermi guardato con una faccia perplessa, si rivolse alla mia padrona: “Eri, certo che lo hai addestrato bene il tuo schiavetto, eh?”

“Giù, ma avevi dubbi? All’inizio è stato un po’ difficile, ma poi i miei piedoni hanno avuto la meglio!” disse Erika alzando sopra di me il titanico piede destro.

“E ci credo! Solo quelli sono 50 volte più grandi di lui!”

“Te l’ho detto che è come un insetto…anzi lo stai trattando troppo bene, mettilo subito nel suo habitat naturale, sul pavimento ai tuoi piedi!”

Giusy mi poggiò tra le sue scarpe di ginnastica, inutile dire quanto fossero enormi rispetto a me, la suola mi arrivava alla spalla.

“E ora?” si interrogò Giusy. “Levati le scarpe, no?” rispose prontamente Erika. “No dai, ce le ho da stamattina, col caldo che fa i piedi saranno sporchissimi, per non parlare della puzza!”. “Meglio!” fece Erika “a che ti serve uno schiavetto leccapiedi se hai piedi puliti e profumati?”.

Giusy fece una faccia perplessa “Vabbè, se lo dici tu…poi però non ti lamentare”. Si slacciò i nodi e si sfilò le scarpe di ginnastica, ciascuna grande come una nave. Non credo di essere molto distante dalla realtà se dicessi di aver visto del fumo bianco uscire da quelle “navi”. La gigantessa si sfilò poi i calzini bianchi e li mise all’interno delle scarpe, e, infine, posò i piedoni nudi a terra, provocando uno schianto che, come al solito, mi fece cadere a gambe all’aria. In breve tempo arrivò un tanfo talmente insopportabile che cominciai a tossire…e in alto la situazione non doveva essere tanto diversa, perché Erika fece “Oddio, Giù!” mentre si tappava il naso. “Te l’avevo detto!” rispose seccata Giusy “Ma se questa puzza è insopportabile per noi, immagina per lui! È così vicino ai miei piedi, non so se il suo nasino microscopico riuscirà a resistere”. “Giù non ti dimenticare che è un insetto, e gli insetti sono a tratti dagli odori, non è vero pidocchio?”.

Le parole di Erika celavano un comando abbastanza chiaro su cosa fare. Incurante dell’odore mi lanciai verso il piede sinistro di Giusy, pregando di non morire asfissiato. Per la prima volta feci attenzione alle fattezze delle estremità della gigantessa: i piedi erano lunghi ed affusolati, le unghie curatissime…insomma Giusy era perfetta anche lì. Arrivato alle dita l’odore era davvero potentissimo, sembrava che mi penetrasse dentro fino alle ossa. Ma mi feci coraggio pensando che quelle erano comunque le estremità della ragazza più bella che avessi mai visto e mi lanciai verso l’alluce, che mi arrivava più o meno al ginocchio e diedi una prima leccata. Immediatamente mi dimenticai del terribile tanfo che respiravo quando il sapore acre del sudore caldissimo mi riempì la bocca. In più sentivo sulla lingua grumi di sporcizia e piccoli pezzi di cotone, staccatisi probabilmente dal calzino, che fui costretto ad ingoiare (Erika mi osservava, non sarebbe stato saggio mettersi a sputare).

“Oddio, mi sta leccando le dita del piede” disse Giusy, tra il sorpreso e il disgustato. “Te l’ho detto che all’insettino piacevano il sapore e l’odore del tuo piedone” disse Erika, con aria quasi di saccenza.

Intanto io mi dimenavo all’interno di quel sudiciume, leccando, baciando, massaggiando come potevo; totalmente assuefatto all’odore di quel piede e al sapore di quel sudore, l’unica cosa che ormai sentivo era la sporcizia accumulata tra i cerchi dei polpastrelli e nelle fessure tra le dita, che ingoiavo come se fosse il piatto preferito. La gigantessa rispondeva alle mie attenzioni muovendo alzando leggermente le dita interessate; per quel poco di esperienza che avevo fatto con Erika, quello era segno che stava gradendo.

Giusy, dall’alto, confermò questa supposizione “Però, mi sta piacendo…oltre al fatto, già piacevole in sé, di avere un ragazzo microscopico che si sta occupando di pulire il mio piedone sporco, riesco a sentire la sua minuscola lingua dimenarsi sotto le mie dita…mi fa come una sorta di solletico piacevole…e poi mi sembra di vedere il mio alluce lindo e pinto…l’insettino si è pappato tutta la sporcizia e il sudore”. “Che ci vuoi fare, Giù? Ha fatto molta pratica!” disse Erika ridendo e indicando i suoi piedoni.

Mentre io continuavo il mio lavoro di pulizia, le due gigantesse accesero un po’ di musica e iniziarono a spettegolare su persone a me ignote. Ogni tanto Giusy mi dava istruzioni su cosa fare: “più su” “più giù” “più a fondo” e io obbedivo immediatamente. Quando ebbi finito con le dita, la gigantessa alzò il piede verticalmente: era alto come un obelisco, io le arrivavo al tallone. “Bene schiavo” disse “Ora occupati della pianta”. Io, non sapendo come arrivare a trattare la gigantesca pianta, rimasi immobile. “Beh, allora? Che stai aspettando insettino?”. Erika proruppe in una grossa risata. “Che c’è?” chiese Giusy infastidita. Erika rispose prontamente: “Ma non lo vedi che a stento ti supera il tallone? Come pretendi che ti pulisca la pianta? Ho capito che è un insetto, ma non è mica spiderman!”. “Ops” disse Giusy mentre metteva il piede longitudinalmente a terra. A quel punto mi avvicinai e potei cominciare a massaggiare e leccare la mastodontica pianta della gigantessa. Finito col piede di sinistra, mi recai presso quello di destra, deciso a fare le stesse operazioni, e cominciare, quindi, dalle dita. Senonchè l’enorme piedone si alzò decine di metri sopra di me…istintivamente tentai di scappare, ma il piedone, grande quanto un traghetto, ricadde su di me prendendomi in pieno e schiacciandomi il pavimento. “Eri, è fantastico! In questo preciso istante sotto il mio piede c’è un uomo adulto, tecnicamente più grande di me, che ha passato gli ultimi 20 minuti a massaggiarmi e a togliermi via la sporcizia dai piedi con la sua lingua…totalmente schiavizzato…e io posso fare di lui quello che voglio, un pizzico di pressione in più e lo distruggo! È totalmente in mio potere, qualunque cosa io gli chieda la farà. È meraviglioso, mi sento come una vera…” “DEA!” disse Erika “Lo so bene cosa si prova, però adesso alza il piede sennò il microbo soffoca. Sai gli insetti sono molto fragili”.

Effettivamente, dopo essere stato per 30 secondi sotto la soffice e immensa piante del piede di Giusy, il respiro cominciava a mancarmi. La gigantessa finalmente sollevò il piede, consentendo ai miei poveri polmoni di espandersi. Guardai verso l’alto, incontrai il volto angelico di Giusy e vidi nel suo volto quasi una rabbia che precedentemente non c’era: “Schiavo! Nullità che non sei altro! Pulisci per bene il piedone della tua dea e, mi raccomando, non lasciare neanche una goccia di sudore o di sporco, ingoialo tutto, oppure di te non resterà che una poltiglia informe sotto il mio tallone”. Mentre finiva la frase, sbattè con violenza il piede a terra davanti a me, facendomi volare, per lo spostamento d’aria, diversi metri lontano. “Hahaha, che essere insignificante! Il mio piedone è talmente potente rispetto a te, che può farti saltare in aria senza nemmeno toccarti!”. Mi prodigai a rendere quel piede più pulito possibile, finché la gigantessa non fu soddisfatta…me lo fece capire semplicemente tirandomi un calcio che mi spedì direttamente ai piedi di Erika, la quale non perse l’occasione di calpestarmi sotto il suo piedone. “Microbo, mi sa proprio che hai trovato un’altra dea, non sei contento?” mi disse mentre con la titanica pianta schiacciava il mio minuscolo corpicino.

* * *

"Prima gli ospiti!” esclamò Erika e, contemporaneamente, diede una spinta in avanti col piede sotto il quale ero schiacciato lasciando la presa delle dita e facendomi volare sul dorso del piede sinistro di Giusy, la quale a sua volta mi fece rotolare sulle sue dita. Erika si inginocchiò sul pavimento (provocando uno schianto fragoroso a terra) e mi piantò la boccetta dello smalto davanti, con il tappo già svitato. “Fa’ un bel lavoro, schiavetto!”. Io, però, ero abbastanza perplesso di riuscire nell’impresa di pitturare le unghie delle due quindicenni, almeno in quelle dimensioni…la boccetta da sola era più alta di me, e, infatti, quando provai a sollevare il tappo-pennello, persi l’equilibrio e finii a terra, con il tappo che mi cadde addosso. Sentii dall’alto due fragorosi boati che corrispondevano alle risate delle due gigantesse. Vidi il piedone di Giusy avvicinarsi e prendere tra due dita il pennello “Schiavetto, ti voglio dare una mano, anzi, un piede”. Senza il peso del tappo-pennello riuscii ad alzarmi, ma quando il piedone della gigantessa me lo riconsegnò non riuscii a resistere, e caddi di nuovo travolto da esso. “Schiavo, ma ti rendi conto quanto sei infimo rispetto a me? Io riesco a prendere il pennello tra le dita del mio piede e tu non riesci a reggerlo neanche con tutti i muscoli del tuo corpo! Sei proprio una nullità!” sottolineò Giusy. “Vabbè, ho capito” disse Erika, alzandosi.

Prese la sua borsetta e cacciò il rimodulatore molecolare. Settò la grandezza sui 10 cm e lo puntò contro di me. Giusy rimase senza parole. Poi commentò: “Ora ho capito come hai fatto a procurarti uno schiavetto personale…scommetto che quel coso te l’ha dato tuo padre. Uh, guarda! L’insetto è cresciuto, ora è grande quasi quanto un criceto”. Mise il suo piede sinistro in verticale per confrontarlo a me. “Beh, alla fine non è che sei cresciuto più di tanto, il mio piede è ancora più di due volte più grande di te!” disse mentre mi schiacciava a terra.

Alle dimensioni a cui ero cresciuto era abbastanza facile gestire il pennello (comunque gigantesco)…anzi avendo una visuale perfetta dell’unghia potevo fare un lavoro davvero preciso, senza sbavature. In breve tempo smaltai le unghie di Giusy, e poi mi diressi verso i piedoni della dea Erika per lavorare anche su quelli. Mentre smaltavo il dito medio della mia padrona, sentii Giusy parlare: “Non riesco ancora a credere che ai nostri piedi ci sia un ragazzo di 24 anni che ci sta mettendo lo smalto…e su li lui possiamo fare tutto ciò che vogliamo! È elettrizzante!” “Lo so, Giù. Dovevi vederlo quando era grande come faceva il presuntuoso. A me piaceva e mi ha detto di no perché mi reputava una bambina. Poi la bambina è un po’ cresciuta, e adesso il microbetto non riesce più a staccarsi dal mio piedone. Non è vero, pidocchio?”. Io decisi di rispondere coi fatti: posai il pennello e strisciai a leccare le dita di Erika. “Eri, sei grandissima! In tutti i sensi!” disse Giusy, provocando le fragorose risa di entrambe.

Finito il lavoro di smaltamento ai piedi delle due gigantesse, Giusy mi prese in mano per giocherellare ancora un po’ con me prima di andarsene. “Piccoletto, penso che con queste dimensioni entri perfettamente nelle mie tette." Mi fece sorvolare le due gigantesche montagne dei suoi seni e poi mi fece cadere dentro quella incredibile morbidezza…ed aveva ragione, ci entravo perfettamente. “Eri non ci credo! Ho una persona nelle mie tettone, è fantastico! Uffa vorrei avere anch’io un microscopico schiavetto tutto mio…non è che puoi prestarmi quell’aggeggio rimpicciolitore?” “No, Giù. Già se mi scopre papà che ho rimpicciolito lui, passo un guaio. A proposito, è inutile che te lo dico: nessuno deve sapere del microbo, ok?” “Muta come un pesce” “Sei l’unica a conoscere. Se qualcuno lo viene a sapere, ti prendo e ti rimpicciolisco…ti vedo bene a leccarmi i piedi da brava schiavetta! Ahahaha” “Tesò, sai che per te farei questo ed altro!”.

Incredulo, vidi Giusy avvicinarsi a Erika e iniziare a baciarla. Io, dal bel balconcino su cui mi trovavo, vidi le gigantesche tette di Erika entrare in collisione con quelle ancora più grandi di Giusy e formare come un'unica mastodontica sexy morbida mole, con me giusto in mezzo. In tutta quella sofficità, con le gigantesse intente a scambiarsi affettuose effusioni, il mio membro divenne turgido fino all’eiaculazione. “I’m in heaven!”.

Si era fatta ora per Giusy di andare…la gigantessa quindi mi cacciò dalle enormi tettone e mi pose a terra, davanti ai titanici piedi, affinché le dessi il saluto come si conveniva ad uno schiavo. Dal basso potevo vedere Giusy in tutta la sua bellezza, potenza e imponenza. Notai per la prima volta che era ben più alta di Erika…era più o meno sull’1.80. Quella ragazza a dimensioni reali era una super-modella e deificata in quella maniera era uno spettacolo unico. Mi gettai ai suoi piedi, profumati dello smalto che io stesso avevo applicato con estrema cura. “Dea Giusy, la ringrazio umilmente per avermi reso l’onore di prestarle i miei servigi questo pomeriggio. Essere stato suo schiavo è un’emozione che…” fui bloccato dal piede di Giusy che mi calpestò violentemente “Insetto, poche parole e molti fatti…LECCA SCHIAVO”. Ma alla fine ero felice di leccare quel gigantesco piedone…se doveva esserci una dea, beh Giusy lo era. Come ultimo gesto prima di indossare le scarpe, la gigantessa mi scalciò via, facendomi finire sotto la scrivania, alla mercè dei piedi della mia effettiva padrona, Erika.


Grazie anche al comportamento impeccabile avuto in presenza di Giusy, Erika cominciò a concedermi sempre più libertà: potevo andare al bagno da solo, potevo farmi un giretto per casa quando mi andava, ma, soprattutto, ero libero di muovermi come volevo quando la mattina andava a scuola.

E un giorno si presentò l’Occasione, con la O maiuscola. Era tarda mattinata ed io ero seduto su una ciabatte di Erika, alto 4 cm, non sapendo come ingannare il tempo…squillò il citofono…di solito riuscivo a sapere chi fosse perché la finestra della camera che dava sul cancello era aperta e di lì mi arrivava la voce di chi citofonava. A quello ora doveva essere il cestino. “Ciao zia, sono Marta!”. Il cuore mi saltò in gola. Con le gambe tremanti dall’emozione mi alzai: il momento a cui mi preparavo da un mese era arrivato.

Corsi fuori dalla stanza di Erika giusto in tempo per aggrapparmi al colossale infradito di Marta, presi a pugni e calci il suo enorme alluce, mi guardò per un secondo e finalmente, mi riconobbe. Stupita disse alla zia che doveva andare in bagno, appena chiuse la porta si tolse l'infradito e mi prese nel suo pugno, "Michele?! Che ci fai tu qui?" Le spiegai tutto e promise che mi avrebbe aiutato.
Nel frattempo la zia di Marta era uscita lasciandole l'occasione di parlarmi fuori di lì, ma non appena uscimmo in casa entrò Erika.

Intanto, da fuori, provenivano le voci delle due gigantesse, leggermente affievolite."Oh ciao Marta! Come sta... cos'hai in mano?" "oh no nulla Erika" "ti ho sentito parlare prima, aspetta un attimo, non sarà mica..." “Eri, guarda, non ho niente in mano!” “Davvero credi che non mi sia accorta di nulla? Per chi mi hai preso?” “Eri, non so di cosa tu stia parlando” “Te lo faccio vedere subito, cuginetta”.

Poco dopo, un terremoto scosse l’ambiente in cui mi trovavo…Marta stava correndo! La fuga però si arrestò molto presto, quando sentii il rumore di una scossa familiare, seguito dalle urla di dolore di Marta. Le cose si stavano mettendo male, molto male.



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