L'amica ritrovata

Scritto da , il 2015-08-30, genere trans

L’AMICA RITROVATA

Da adolescente, ho lavorato per un po’ di tempo in un albergo di montagna. Volevo guadagnarmi da sola un po’ di soldi, più in generale volevo provare a farcela da sola, per lo meno per un certo periodo di tempo.
Era l’antica locanda del paese, uno di quei posti cosiddetti caratteristici. Si trovava in una vecchia abitazione, un tripudio di legno, pietra e muri imbiancati a calce.
Facevo un po’ di tutto: accoglievo i clienti alla reception, servivo ai tavoli, rifacevo le stanze. Mi piaceva: mi sembrava di essere importante, più ancora di essere utile.
Erano stati i miei a consigliarmi di andare là: i proprietari infatti erano loro amici.
La prima volta che ci sono andata è stato durante le vacanze invernali: non ho fatto in tempo a finire la scuola che subito mi sono fiondata lassù.
Arrivata lì, il proprietario mi spiegò in breve quali sarebbero stati i miei compiti. Mi diede poi la divisa d’ordinanza che altro non era se non il costume tradizionale che le donne della zona indossavano un tempo nei giorni di festa. All’inizio ero un po’ spaesata: mi sembrava strano mettermi addosso i vestiti della nonna, poi mi ci abituai.
Il titolare aveva già provveduto anche alla mia sistemazione: avrei dormito da alcuni suoi amici, una coppia sulla sessantina che abitava in paese. Avevano un paio di stanze libere a casa loro e mi avrebbero ospitato lì. Insomma, era tutto pronto.
Avevo quindici anni. Erano i primissimi tempi che mi vestivo da donna. Avevo ancora un po’ di timore nel farlo (delle volte ce l’ho tuttora), però sentivo che la mia strada era quella.
Nessuno però lì parve accorgersi di questa mia “peculiarità” e, in ogni caso, non ci furono problemi per questo motivo.
I due ospiti mi volevano un bene dell’anima. La signora, poi, mi considerava la sua quarta figlia: mi preparava la colazione al mattino e mi lavava i vestiti.
Anche con gli altri colleghi i rapporti erano buoni. Con una ragazza soprattutto mi trovavo bene. Si chiamava Silvia e aveva quattro anni più di me. Quattro anni non sono molti, ma era quanto bastava perché io fossi ancora una ragazzina e lei già una giovane donna.
Era più alta di me e decisamente più grossa; non grassa, corpulenta. Il viso era un tondo quasi perfetto, leggermente più squadrato verso la mandibola. Aveva i capelli castano chiaro, tendenti al rossiccio, e gli occhi grigi. I suoi modi erano abbastanza spicci ma aveva il senso dell’umorismo, qualità che apprezzo in chiunque, in particolar modo in una donna. C’era un bel rapporto fra noi due, una simpatia reciproca con tratti quasi camerateschi da parte sua, ma comunque affettuosi nei miei riguardi. Silvia era riuscita a chiosare tutto questo in una sola frase, forse la prima che mi rivolse:
“Non mi sono mai piaciuti i froci ma, non so perché, tu mi stai simpatico”.
Io le replicai:
“Mi chiamo Beatrice, e quindi io non posso starti simpatico ma, casomai, simpatica”.
Lei rise con una risata piena, di petto, che poi trascinò anche me. Era nata un’amicizia.
All’epoca ero convinta di essere omosessuale. Mi sentivo donna in tutto e per tutto e soprattutto avvertivo di essere attratta esclusivamente dai maschi. Col tempo poi cambiai la percezione che avevo del sesso, ma in quei tempi le cose stavano così.
Silvia era bella, non c’erano storie. Però non mi sentivo in alcun modo attratta da lei.
Per prendermi in giro, mi metteva sotto il naso il suo seno. Aveva infatti due pere incredibili: enormi, sode, due bocce di marmo perfettamente levigate, roba da non crederci. Non ho mai più visto in seguito due tette così belle.
Fatto sta che, comunque, per sfottermi mi piazzava davanti alla faccia questi due dirigibili e mi diceva: “Hai visto che cosa ti perdi se continui a fare il ricchione?”
La mia risposta era quasi sempre la stessa:
“È inutile, non mi farai cambiare idea. A me piace il cazzo!”
Anche perché c’era un’altra persona che mi interessava in quel periodo. Si chiamava Andreas, aveva la stessa età di Silvia ed era anche lui un mio collega. La prima cosa che mi colpì di lui fu il nome straniero. Origini altoatesine, mi disse. Poi mi accorsi che era bello. Parecchio.
Media altezza, capelli castano scuro, occhi verdi, bel colorito in volto, lineamenti delicati.
Un giorno stavo passando davanti agli spogliatoi maschili e, per purissimo caso, buttai dentro lo sguardo.
C’era lui che si stava cambiando. Immediatamente rapita dalla curiosità, continuai ad osservarlo, cercando di tenere a bada l’ansia di essere scoperta sia da lui sia da chiunque potesse passare nelle vicinanze. Quando lo vidi nudo, mi mancò il respiro. Avrei voluto spalancare la porta, buttarmi a capofitto su di lui e fare sesso selvaggio.
Rimase spoglio solo pochi istanti, poi si rivestì; ma furono sufficienti per rimanermi impressi nella mente per il resto della giornata ed anche oltre. Quella notte stessa, infatti, non riuscì a prendere sonno. Mi giravo e rigiravo nel letto, continuando a pensare a lui.
Alla fine capì che dovevo sfogarmi. Mi alzai e mi diressi verso il bagno. Dopo essermi alzata la camicia da notte ed afferrata l’uccello con la mano, comincia a masturbarmi. Immaginai di essere nuda assieme a lui, che mi penetrava e mi faceva sentire veramente donna. Già mi pregustavo di prendere in bocca il suo cazzo e di cominciare a succhiarglielo fino a sentire il calore del suo seme nella mia bocca. A furia di rigirarmi in testa quest’immagine, fui io ad eiaculare, contenta ed appagata.
Mi sentivo decisamente meglio, soprattutto, mi sentivo più rilassata. Tornai a letto e dormì profondamente.
Il giorno dopo ne parlai con Silvia: stavamo risistemando assieme una delle camere dell’albergo.
“Sai che credo di essermi innamorata?”
“Addirittura! Volano parole grosse…”
“Comunque, ho trovato uno che mi piace parecchio”.
“Ma lui lo sa?”
“Non credo proprio”.
“E chi è?”
“Andreas”.
Il sorriso che Silvia aveva in volto morì all’istante. Lei riprese a rassettare le lenzuola, scura in volto.
“Beh, che hai?”
“Lascialo perdere”.
“Cosa?”
“Ho detto, lascialo perdere. Quello lì è una persona che è meglio perdere che trovare”.
“Perché?”
“Perché è un figlio di puttana”.
“Come fai a dirlo?”
A quel punto lei si fermò e mi piantò addosso uno sguardo duro come la pietra.
“Perché è il mio ex e credevo mi amasse. Invece una sera l’ho trovato a letto con un’altra donna”.
Silenzio da parte mia.
“Bea, te lo dico da amica: se non vuoi soffrire, lascialo perdere”.
Siccome mi sono sempre fidata di più delle amicizie che degli amori, accettai il consiglio.
Arrivò anche la fine delle vacanze invernali e quindi del mio lavoro all’albergo. Quella sera mi trovavo con Silvia negli spogliatoi femminili.
“Vedo solo ora quell’anello che hai al dito. È molto bello”.
“Grazie. Vuoi provarlo?”
“Volentieri, grazie”.
Se lo sfilò dal dito e me lo porse. Mi andava largo: se lei lo portava all’anulare, io dovetti infilarlo sul medio per tenerlo saldo. Era una semplice vera, con sopra un rubino a forma di cuore a sua volta tenuto fermo da un altro cuore d’oro costellato di brillantini. Non so se fosse di valore, però a me piaceva tantissimo.
“Eh sì, è davvero splendido”.
“Bene. Adesso ridammelo”.
Mi venne voglia di giocare un po’, così risposi.
“Sai che quasi quasi me lo tengo?”
La faccia di Silvia divenne improvvisamente seria e la voce ferma.
“Ridammelo subito e non fare la stronza”.
“No”.
“Ridammelo!”
“Vieni a prenderlo, se ci riesci”.
Io fuggì e lei mi corse dietro. Mi lasciai prendere però quasi subito. Lei mi saltò addosso, afferrandomi da dietro. Mi buttò per terra e si sedette sopra di me. Avvertì il suo peso sulla mia schiena. Poi mi afferrò la mano dove avevo infilato l’anello. Con la forza mi aprì le dita che avevo stretto a pugno e si riprese il maltolto. Infine, con l’altra mano mi afferrò per i capelli e mi sibilò all’orecchio:
“Guai a te se mi fai ancora qualcosa di simile”.
Mi girò, mettendomi schiena a terra. Adesso avvertivo il suo peso sulla pancia e sul torace. Mi dava già più fastidio, facevo un po’ fatica a respirare. Con le sue gambe mi bloccava le braccia. Vista dalla mia prospettiva, mi sembrava ancora più alta.
Lei intanto era a braccia conserte e mi guardava dritto negli occhi.
“Sei proprio un frocetto. Non sai nemmeno difenderti da una donna”.
“È comodo prendersela coi più mingherlini, vero cicciona?”
Lei mi tirò uno schiaffo. Quando non si sa rispondere a parole, si usano le mani.
“Sai che potrei rimanere qui seduta per molto tempo? Mi sento comoda”, disse sorridendo.
Ebbi come l’impressione che le stesse passando l’arrabbiatura.
“Piuttosto, ricchioncello, non vuoi proprio approfittare della situazione? Ci sono uomini che pagherebbero per essere sotto una bella donna”.
Si alzò la sottana del vestito d’ordinanza.
“Guarda, hai pure la mia figa a tua disposizione”.
“Non mi interessa”.
“Ti interesserà”.
Con un piccolo balzo, si spostò verso di me. Mi mise poi una mano dietro la nuca e mi spinse la testa verso il suo inguine. Avvertì subito il sintetico dei collant contro la mia faccia e ancora di più la sua vagina calda.
“Oh sì, dai. Lecca! Datti da fare!”
Cercavo di sfuggire a questa morsa ma non potevo muovermi perché mi aveva afferrato per i polsi e mi teneva ferma. Intanto, mi spingeva la sua figa contro il mio viso.
“Dai, da bravo, così! Sii un vero uomo!”
Si spostò ancora un po’ e, anziché la figa, mi ritrovai in faccia il suo culo.
“Uh, ma allora sei proprio un birbantello. Baciamo il culetto, dai”.
Mi mancava l’aria, non riuscivo a respirare. Cominciai ad agitarmi seriamente. Avrei voluto urlare ma non riuscivo a farlo.
Dopo un tempo che mi parve infinito, Silvia si sollevò ed io potei tornare a respirare.
Quando sentì di aver ripreso le forze, vinsi l’imbarazzo e le dissi:
“Scusa per prima. Non pensavo fossi così affezionata a quell’anello”.
Lei mi sorrise.
“Nessun problema. Anzi, scusami te se mi sono lasciata prendere la mano”.
“Figurati”.
“Ma almeno un po’ ti è piaciuto?”
“No!”
Risata da parte sua.
“Senti, posso però sapere chi ti ha dato quell’anello?”
Attimi di silenzio.
“Andreas”.
***
Tornai a lavorare all’albergo l’estate successiva. Volevo ripetere l’esperienza, mi era piaciuta e poi con le vacanze estive avevo a disposizione un mare di tempo: potevo benissimo passare il mese di luglio a lavorare. Anche perché mettere da parte ancora un po’ di soldi mi avrebbe fatto decisamente comodo.
Rividi nuovamente la coppia che mi aveva ospitato durante l’inverno. Rividi Silvia che fu felicissima di riabbracciarmi. E rividi anche Andreas.
Cercavo di seguire i consigli che avevo ricevuto ma non era facile: la tentazione di cedere si faceva sempre più forte.
Un giorno il titolare dell’albergo chiese a me e ad Andreas di andare in un paese lì vicino per ritirare frutta e verdura da un contadino della zona.
Avrei voluto rifiutarmi ma non potevo. Ero tesissima, avevo la netta sensazione che questa volta sarebbe stata la tentazione suprema.
Guidava lui perché io all’epoca ero minorenne. Per tutto il viaggio d’andata non dissi una parola. Rimasi sulle mie anche al ritorno. Quando ormai pensavo che fosse tutto finito, Andreas accostò la macchina in una radura a bordo strada.
Sudai freddo.
“Che succede?”
“Noi due dobbiamo parlare”.
“Non abbiamo niente da dirci”.
“Invece sì. Anzi, no, hai ragione te. In effetti, conviene agire anziché parlare…”
Mi mise una mano sul ginocchio e scese ad accarezzarmi il polpaccio, per poi risalire ed infilarsi sotto la gonna a tastarmi la coscia.
Cercai di fermarlo:
“Basta o mi metto a urlare!”
“No, non lo farai invece, perché questo è proprio quello che vuoi”. Cominciò a baciarmi e leccarmi sul collo.
Ero terrorizzata. Avrei voluto cedere ma avevo paura che, così facendo, avrei fatto il suo gioco. Mi sembrava di avere di fianco a me il diavolo in persona.
A un certo istante, si sbottonò i pantaloni ed estrasse il suo uccello.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Incollai la mia bocca alla sua e cominciai a ricambiare i suoi baci. Con le mani prima gli accarezzai il volto ed i capelli, poi gli afferrai l’uccello e cominciai a masturbarlo. Quando raggiunse delle dimensioni considerevoli, iniziai a succhiarlo. Lo sentivo fremere sotto di me, come una scossa di terremoto.
Andai avanti per un po’, poi mi prese per i fianchi e sollevandomi mi disse:
“Sto per esplodere, facciamolo”.
Non me lo feci ripetere due volte. Mi sedetti sopra il suo inguine, alzai la gonna, abbassai collant e mutandine e mi infilai il suo membro su per il culo.
Mi muovevo su e giù, sentendo questo cilindro diventare sempre più grande. Nonostante lo sforzo fisico, pensavo. Mente e corpo in quel frangente avevano infatti preso strade diverse.
Pensavo che non valeva la pena resistere e negarsi dei piaceri solo in nome di ragioni di convenienza, tanto valeva godersela un po’.
Lo sentì venire distintamente dentro di me. Ci risistemammo e tornammo subito all’albergo: eravamo ormai partiti da tempo, era meglio non far insospettire nessuno.
Non so se quella fra me e Andreas fu una vera e propria relazione. Ci vedevamo di nascosto, sia fuori sia, a maggior ragione, dentro l’hotel. Eravamo entrambi d’accordo su una cosa: nessuno doveva sapere. Sembravamo dei carbonari che si riunivano in segreto per tramare contro l’oppressore.
Comunque, ci parve che nessuno sospettasse di nulla. Anche Silvia, con cui il rapporto di amicizia si consolidava ogni giorno di più, non mi sembrava avesse capito la situazione.
Una sera mi propose di cenare fuori, in un ristorante ad una quindicina di chilometri di distanza dal paese. Ti voglio elegante, mi disse. Signorsì.
Quella sera mi misi tirata come forse non avevo mai fatto in vita mia. Indossavo un tubino nero, collant marroni e scarpe col tacco alto nere. Mi ero truccata ed avevo addirittura messo dei gioielli, un paio di orecchini, cosa che non facevo mai. Avevo anche indossato un push up per creare un’apparenza di tette.
Avevo grandi aspettative per la serata. Non venni delusa.
Passò a prendermi lui con la sua macchina e mi accompagnò al ristorante. Il posto era veramente lussuoso: mi faceva anche un po’ specie essere servita al tavolo quando normalmente accadeva il contrario. La cena comunque andò bene. Rimanemmo tranquilli. Almeno in apparenza. Sotto il tavolo infatti infuocava la battaglia: lui mi tastava in continuazione le gambe, mentre io gli rispondevo facendogli piedino.
Una volta, usciti, mi propose di andare nel vicino stabilimento termale.
“Ho un amico che ci lavora lì. Potrebbe aprirci alcune parti solo per noi due…”
“Bella pensata, ma meglio di no”. In bikini avrei fatto davvero una magra figura, col reggiseno miseramente piatto e le mutande, al contrario, inspiegabilmente gonfie.
“E se andassimo a casa tua?”
“No. Io ed il cuoco dell’albergo condividiamo la stanza”.
“Ah, peccato”.
“Ho un’idea. L’albergo ha una dependance che però ormai utilizzano come magazzino. A nessuno verrà in mente di cercarci là”.
Lo seguì.
Arrivammo ad una piccola casetta non molto distante dall’albergo. Dentro era ancora ben curata, anche se regnava un certo disordine e soprattutto un po’ di odore di chiuso.
Andreas mi portò in una camera matrimoniale e lì ci spogliammo.
Mi misi in ginocchio e cominciai a succhiargli il cazzo per prepararlo alla scopata. Nel frattempo, lo eccitavo sfiorandogli, quasi come in un gioco, i coglioni e tastandogli il culo.
Lo sentivo diventare sempre più duro e muoversi dentro la mia bocca. Ogni tanto facevo apposta a dargli dei piccoli morsi per stuzzicarlo un po’.
Quando capì che era ormai sufficientemente in tiro, smisi e, guardandolo dall’alto al basso, gli dissi:
“Sono tutta tua”.
Lui mi prese con sé e mi mise di schiena sul letto. Mi tenne le gambe alzate e divaricate. Così potrai godere di più, mi disse. Aveva ragione. Quando mi sodomizzò, mi sembrava che non solo il suo pene ma tutto Andreas entrasse dentro di me, come se volesse prendermi in ogni mia parte, come se volesse arrivare alla mia anima. Da distesa com’ero, gli accarezzavo il petto e, mettendogli le mani dietro la schiena, cercavo di spingerlo verso di me, per farlo entrare ancora più in profondità.
Dopo un po’ mi tolse l’uccello dall’ano e mi mise a pecorina. Poi mi infilò due dita nell’ano. Non si limitò a questo. Con le sue dita giocherellava col buco del culo, si divertiva ad allargarlo, quasi a plasmarlo a suo piacimento.
“Mi fai male, basta”, gli dissi con un filo di voce.
“Ti sto preparando per il dopo”, mi rispose.
Mi tolse le dita per sfondarmi il culo col suo pene. Mi prese da dietro con irruenza, come se volesse portarmi via con sé. Come se volesse possedermi. Ed aveva ragione: mi sentivo totalmente alla sua mercè. Poteva fare di me quello che gli pareva, poteva scoparmi da lì all’eternità.
Lo sentì venire dentro di me. Poi, dopo una pausa, mi penetrò un’altra volta ma, prima di venire, si interruppe e mi chiese di succhiarglielo fino all’amplesso. Poco prima del botto finale, mi tolse il pisello di bocca e mi eiaculò in faccia.
Quando si alzò dal letto, lo abbracciai da dietro. Nel frattempo, cominciai a masturbarmi e a premere contro le sue chiappe il mio pisello che stava andando in tiro.
“No. Di noi due sono io il maschio”.
Queste parole un po’ mi ferirono, però cercai di ignorarle.
Prese una macchina fotografica. Era una delle prime macchine digitali, per l’epoca un oggetto quasi fantascientifico.
Voleva fare qualche foto di noi due insieme. Sono un appassionato di fotografia, fu la giustificazione.
Scattammo diverse immagini: un primo piano di noi due assieme, lui sopra ed io sotto; un altro dove la situazione era capovolta; un sessantanove e tante altre. La più riuscita era una dove io ero a pecorina e lui me lo infilava da dietro. Traspariva benissimo la sua possenza virile che io accettavo con remissione. La cosa più strana è che nelle foto io sorridevo mentre lui era serio, quasi accigliato.
***
Andammo avanti ancora un po’ coi nostri incontri fuggitivi nel nostro rifugio segreto.
Una sera avevamo iniziato da poco, quando la porta della stanza si aprì.
Era Silvia.
Istintivamente mi coprì dalla vergogna. Anche Andreas perse il suo solito applomb ed il suo “Cosa ci fai qui?” era scosso da una vena di vivo stupore.
Chi invece manteneva una calma invidiabile era Silvia.
“State pure comodi, volevo solo portarvi alcune foto”.
“Che foto?”, chiese lui.
“Queste”, rispose Silvia scaraventando delle immagini sul letto.
Andreas gettò loro un’occhiata e cominciò subito a raccoglierle impulsivamente, perdendo ancora di più l’autocontrollo. Riuscì a strappargliene qualcuna dalle mani. Avevo diritto anch’io di guardare.
Quello che vidi, però, prima mi lasciò di ghiaccio, poi mi disgustò, infine mi fece scaturire una furia cieca. Nelle foto infatti c’era Andreas a letto con un’altra ragazza. Che non ero io. E la conoscevo pure bene: era Rebecca, una nostra collega.
Mi uscì fuori un urlo che, ancora adesso, mi colpisce per la sua rabbia.
“Cosa cazzo è questo?”
“Bea, posso spiegarti tutto…”
“C’è poco da spiegare, stronzo! Vaffanculo te e quell’altra troia!”
“Amore, aspetta…”
“Amore un cazzo! Non dire una parola e, soprattutto, non mi toccare!”
“No, ma calmati…”
“Calma un cazzo! Da quanto va avanti questa storia?”
“Da ben prima che voi due vi frequentaste”.
A parlare questa volta fu Silvia che, mentre intorno a lei infuriava la tempesta, rimaneva imperturbabile.
“Bea, mi ero accorta subito che lui era riuscito ad irretirti. Quando ho scoperto che vi ritrovavate qui dentro, ho provveduto a correre ai ripari prima che fosse troppo tardi”.
Calò un silenzio irreale.
“Mi meraviglio di te però, Andreas. Un dongiovanni come te che si mette all’improvviso a prenderlo nel culo…”
“No, questo non l’ha mai fatto. Non ha mai voluto stare sotto”, dissi interrompendo il discorso.
“Ah, no? E come mai, se non sono indiscreta?”
Silvia mi guardò con un’aria complice. Ricambiai il sorriso, ma non capivo dove volesse andare a parare.
“Perché mi ha detto che di noi due il maschio era solo lui”, risposi io colmando il silenzio di Andreas.
“Ah, sì? E allora non sarebbe meglio rimediare a questa lacuna? Chissà, magari così facendo, a Bea passerà la rabbia.”
Un’idea mi passò in testa veloce come un fulmine. Ma vuoi vedere che…
Lui rimaneva immobile.
“Fallo e fallo subito!” La voce di Silvia era diventata decisamente più perentoria.
Era proprio come avevo intuito. Mi sdraiai sul letto a gambe aperte.
“Avanti, dai. Io sono qui che aspetto…”
Andreas ci guardò entrambe con aria intimorita. Poi si abbassò verso il mio pube e cominciò a succhiarmi l’uccello.
Era una sensazione paradisiaca. Sentivo la sua bocca scorrere avanti e indietro lungo il mio pene, millimetro dopo millimetro. Nel mentre mi faceva un pompino, gli accarezzavo i capelli e con le mani rallentavo il ritmo della succhiata per godere ancora di più.
“Oh sì, dai, bravo, ancora…”
Adesso le parti si erano invertite: lui era mio. E non lo avrei lasciato andare facilmente.
Dopo un po’ lo fermai. Con la sua testa fra le mani, lo guardai dritto negli occhi e gli dissi:
“Adesso dammi il culo”.
Si girò, dandomi la schiena. Io afferrai il mio pene, lo toccai un pochino per renderlo ancora più lungo e lo penetrai.
Finalmente. Adesso il capovolgimento di ruoli era totale. Lo possedevo in tutto e per tutto. Con la mia minchia lo inculavo fino in fondo, finchè potevo: era come se gli ricacciassi indietro tutte le sue menzogne. Mi sembrava di essere un’amazzone che doma un cavallo imbizzarrito.
Nel frattempo Silvia scattava foto. Con la coda dell’occhio vidi che, nel momento in cui sodomizzavo Andreas, si lasciò scappare un sorriso.
Aumentai il ritmo della scopata: volevo raggiungere l’apice, la vetta e cercare di protrarre quel momento il più possibile. Venni dentro di lui.
Prima di estrarre il mio uccello dal suo culo, mi adagiai mollemente sulla sua schiena.
“Sei stato bravissimo”, gli sussurrai in un orecchio.
Mentre mi risistemavo, Silvia riprese la parola.
“Adesso ascoltami bene. Come hai visto, ho fatto parecchie foto a questa scopata. Pensa se qualcuno le vedesse. Magari qualcuno all’interno dell’albergo. Magari Rebecca”.
Andreas era terreo in volto. Aprì la bocca come per dire qualcosa ma non uscì nessun suono.
“Scegli tu cosa fare, e vedi di deciderti in fretta. Bea, andiamo! Ormai lo spettacolo è finito!”
La seguì fuori dalla stanza.
Il giorno dopo Andreas diede le proprie dimissioni. Se ne andò, facendo sparire le proprie tracce. Non lo vidi più.
Chiamai Silvia in disparte. La guardai negli occhi e le dissi:
“Grazie mille”. Mi venne spontaneo abbracciarla.
“Prego. Però la prossima volta vedi di seguire i miei consigli, ricchioncello”.
***
E così anche quel mese di luglio volse al termine. Siccome l’ultima sera coincideva col mio compleanno, le proposi di uscire a cena insieme.
“Ottima idea! Anch’io faccio gli anni quel giorno!”, rispose lei.
“Che coincidenza! Allora è fatta!”
Passò lei a prendermi sotto casa. Non so perché, ma quella sera scelsi di vestirmi esattamente come la volta in cui Andreas mi aveva portato fuori al ristorante. Forse perché, dopotutto, sotto certi punti di vista mi aveva portato bene…
Silvia invece era vestita in modo più sportivo. Indossava una camicia bianca che lasciava vedere benissimo il reggiseno in pizzo nero, una gonna di jeans, collant e stivali marroni. Inoltre, a differenza di me, non si era quasi per nulla truccata.
Nonostante fosse estate, tirava un venticello fresco mica da ridere. Io stessa mi ero portata un maglioncino con cui coprirmi le spalle. D’accordo, non era per nulla elegante; però che cazzo, avevo freddo!
“Come mai ti sei vestita come una mignotta d’alto bordo?”, mi chiese Silvia. “Sei alla ricerca di qualcun altro che ti apra il culo a colpi di minchia?”
“Tu invece sei sempre vestita di merda, come al solito”.
La serata stava procedendo benissimo, ci stavamo divertendo come pazze.
“Senti, toglimi una curiosità”, chiesi a Silvia.
“Dimmi”.
“Perché ieri sera ti sei messa a ridere quando mi sono messo sopra Andreas?”
“Perché ho pensato che questa volta lo prendeva nel culo lui, e nel senso letterale del termine. E poi era troppo buffo vedere te così piccolino che ci davi dentro con uno più grande di te”.
Mi mise la sua mano sopra la mia.
“Quindi domani te ne vai…”
“Già”.
“Mi spiace. Mi ero affezionata a te”.
“Possiamo comunque rimanere in contatto, sentirci via telefono, magari vederci qualche volta. Mica sparisco dalla faccia della terra”.
“Senti, ti va se dopo cena andiamo a casa mia?”
“Volentieri, grazie. Sei gentilissima”.
Arrivammo a casa sua e rimanemmo in salotto a bere qualcosa ed a parlare del più e del meno.
Ad un tratto si alzò.
“Vieni. Voglio farti vedere una cosa”.
Non feci in tempo ad alzarmi a mia volta che Silvia mi prese in braccio.
“Ma cosa fai? Sei matta?”
Ero sorpresa ma al tempo stesso divertita. Mi portò in camera da letto e mi mise davanti ad uno specchio.
“Chiudi gli occhi”.
Obbedì.
“Riaprili”.
Obbedì ancora, ma quando lo feci rimasi senza parole.
Attorno al collo avevo una collana. Come pendente c’era un acquamarina, e una serie di piccoli cerchi d’argento fungeva da catenina. Era magnifica.
“Buon compleanno, Bea.”
“Grazie, grazie infinite. È un regalo splendido, Silvia”, risposi io abbracciandola.
Mi ammiravo e rimiravo nello specchio. Lei mi mise le braccia attorno al collo ed io le presi le mani.
“Guarda, Bea. Siamo belle, vero?”
“Sì, siamo bellissime”.
“Tu anche di più…”
Cominciò ad annusarmi i capelli. Poi passò a mordicchiarmi un orecchio e a baciarmi sul collo.
“Silvia, ma cosa fai?”
Mi staccai dall’abbraccio e mi posi di fronte a lei.
“Oggi è anche il mio compleanno, ed ho voglia di spassarmela un po’. Dopotutto, siamo sempre un uomo ed una donna da soli in una camera da letto…”
Si tolse la camicetta e restò in reggiseno. Venne verso di me e mi mostrò i suoi colossali seni, toccandoseli con voluttà.
“No, Silvia, io… io non posso farlo. Non… non sono in grado di fare questo. Proprio non…”
“Secondo me invece puoi farlo. Sei soltanto un po’ timido.”
Mi strinse a sé, mettendomi le mani attorno alla vita. Poi la sinistra salì dietro la mia nuca, avvicinando il mio volto al suo, mentre la destra scese a tastarmi il culo.
Mi baciò. Era forse la prima volta che lo facevo con una donna. Mi colpì la sensazione di umido e caldo fra le nostre lingue che nell’oscurità giocavano, esattamente come noi.
Mi slacciò la cerniera del vestito e lo lasciò cadere, ed anche lei si tolse la gonna.
In breve tempo, ci spogliammo entrambi. Non so perché lo feci. Forse per amicizia, forse perché le volevo bene e mi sarebbe spiaciuto dirle di no ed andarmene via.
Continuammo a baciarci. Lei strusciava il suo corpo addosso al mio. Sentivo le sue tette premere contro il mio petto e la sua peluria sfiorarmi il pene.
Quando Silvia capì che, nonostante tutti i suoi sforzi, non mi stavo eccitando, si fermò e, guardandomi negli occhi, mi chiese:
“Proprio non ti faccio nessun effetto?”
Abbassai lo sguardo.
“Mi dispiace”.
Lei non si perse d’animo. Con un gesto fulmineo, mi infilò due dita su per il culo.
Questa proprio non me l’aspettavo ed accusai il colpo. Sentì però qualcosa sciogliersi dentro di me.
“Prova a immaginare che queste due dita siano in realtà un cazzo bello grosso”.
Feci come suggeritomi e in effetti funzionava. Cercavo di pensare che qualche bel figo mi stesse aprendo il culo per bene.
Con la mano sinistra, intanto, Silvia iniziò a masturbarmi. Quel qualcosa che si stava squagliando nella mia anima iniziò a prendere fuoco.
Quando il mio pene raggiunse le dimensioni volute, se lo ficcò dentro la figa.
La sensazione di calore che prima avevo avvertito in bocca adesso la sentivo a livello pubico.
Nel mentre Silvia mi inserì altre due dita, questa volta della mano sinistra, su per il buco del culo.
Mi sembrava di essere in un sogno. Non riuscivo a capire dove finisse il mio corpo e dove iniziasse il suo.
Con le altre dita libere, Silvia mi brancò per le chiappe e mi sollevò da terra. Più lei mi spingeva le dita dentro il culo, più io avevo la forza di penetrarla. Era come se volessi restituirle quel vigore che lei mi stava donando.
Si buttò di schiena sul letto e me la ritrovai sotto.
“Adesso hai tu il controllo della situazione”.
Ormai mancava davvero poco. Con uno sforzo di immaginazione, diedi gli ultimi colpi di reni e venni dentro la vagina di Silvia.
Dopo alcuni attimi di silenzio che parvero infiniti, ritornò l’atmosfera domestica di prima. Parlammo ancora un po’, poi ci addormentammo abbracciate l’una all’altra.
***
Molti anni dopo, mi ritrovai in viaggio per motivi di lavoro. Andai all’albergo dove avevo prenotato. La tizia alla reception mi chiese i documenti. Quando li aprì, mi guardò e mi chiese:
“Scusa, ma tu sei la Bea?”
Rimasi stupita. Come faceva a conoscere il mio nome femminile? La guardai meglio. Il viso mi era familiare.
“Sono Silvia. Ti ricordi di me?”
Ecco chi era! Era decisamente dimagrita rispetto all’ultima volta che l’avevo vista, e le era spuntata qualche ruga attorno agli occhi. Però, guardandola meglio, si riconosceva.
“No, non ci credo! Quanto tempo!”
“Cosa ci fai qua?”
“Sono in città per lavoro. E tu?”
“Io invece qui ci lavoro. Sono la direttrice”.
“Però! Ne hai fatta di strada rispetto a quando eri una cameriera!”
“In effetti… Senti, rimani tanto?”
“Riparto domani”.
“Hai già cenato?”
“No”.
“Bene, allora ceniamo assieme”.
Continuammo la chiacchierata in un ristorante e ci riaggiornammo sulle nostre vite. Scoprì che era sposata già da qualche anno.
“Bea, non sei cambiata per niente”.
“Grazie. Ti trovo bene. Stai meglio così magra”.
“Grazie. Non sai la fatica che ho fatto per perdere dei chili. Tu invece sei ancora dell’altra sponda?”
“Ti stupirò: in questi anni ho rivalutato la vagina”.
“Ottimo! Sei tornato sulla retta via!”
“Aspetta. Continua a piacermi anche il cazzo”.
“Ma come sei complicato!”
“E ti dirò di più. Le vedi queste?”, feci tenendomi il seno con le mani.
“Sì”.
“Sono vere”.
“Ma dai?”
“Mi ero stufato di portare continuamente il seno finto, così ho deciso di farmi operare per averne uno mio”.
“Quindi vuoi diventare donna a tutti gli effetti?”
“No. Me l’hanno chiesto e mi piacerebbe anche avere dei fianchi più femminili, ma ho troppa paura dell’operazione. Soprattutto, ho una fottutissima fifa della terapia ormonale”.
“Visto che ci sono queste novità, posso chiederti un favore? Se vuoi, puoi dirmi anche di no…”
“Ma ci mancherebbe. Dimmi pure”.
La sua voce si fece improvvisamente seria.
“Io e mio marito non riusciamo ad avere figli”.
“Oh, mi spiace. Non lo sapevo”.
“Abbiamo provato in tutti i modi, anche con l’inseminazione artificiale, ma non è servito a nulla. Abbiamo trovato una clinica austriaca specializzata in queste cose. Pensiamo di rivolgerci a loro, ma costa molto”.
Continuava a spiacermi, ma non riuscivo a capire io cosa c’entrassi.
“Tu e lui vi somigliate parecchio. Anche lui è biondo con gli occhi azzurri. Se ti andasse…”
Adesso cominciavo a capire.
“Mah, non lo so. Mi sembra una cosa così strana…”
Mi mise una sua mano sulla mia.
“Ti garantisco che poi non ti darò più fastidio. Sarà come se tu non ti fossi intromesso fra noi due”.
Continuavo ad essere perplessa. Dopo quattordici anni di assenza, la rivedevo per purissimo caso e lei mi proponeva una cosa così contorta.
“Ti prego”.
L’ultima volta che mi aveva fatto una proposta simile alla fine non mi ero tirato indietro. E ne era valsa la pena.
“Ci sto”.
Lei sorrise.
“Grazie. Sapevo di poter contare su di te. Ti raggiungo io in camera tua”.
Ero in camera e qualcuno stava bussando. Andai ad aprire. Era lei. Chiusi la porta a chiave. Non si sa mai.
Ci ritrovammo l’una di fronte all’altra. Eravamo due trentenni in stile “donna in carriera”. Indossavamo entrambi un tailleur giacca – gonna, collant e scarpe col tacco. Ci differenziavamo solo per i colori. Il mio completo era color sabbia come le scarpe e le calze color carne. Il suo invece virava su varie tonalità di marrone.
Ci abbracciammo e ci baciammo. A lungo. Intensamente. Poi ci spogliammo.
Lei si abbassò a farmi un pompino. Sentì la sua lingua rifilarmi i contorni del pene e insistere sul buco del membro. Le accarezzai i capelli mentre lo succhiava.
Ci mettemmo sul letto. Io mi sdraiai sopra di lei. Mi sentivo abbastanza agitata: quella non era una scopata come tante altre. Continuai a baciarla su tutto il corpo, ad esplorare ogni centimetro quadro della sua pelle candida come il latte. Fortunatamente, i suoi seni continuavano ad essere generosi. Lei fece lo stesso con le mie tette.
“Mi fa strano vederti con queste due pere. Adesso non posso più nemmeno più chiamarti frocetto…”
“Dovresti saperlo ormai che sono sempre stata una donna”.
Poi ci ritrovammo faccia a faccia.
“Sei pronta?”, mi chiese.
“Sì”, rispondo io.
Ormai il mio uccello era diventato duro a sufficienza. La penetrai.
Lei ansimava ed io con lei. Cercai di prolungare il più a lungo possibile l’amplesso ma non semplicemente per piacere. Questa volta, quando io avrei goduto, nulla sarebbe più stato come prima. Per lo meno, per lei.
Il ritmo incalzava
“Silvia, sto per venire”.
“Sì, dai, Bea, vieni”.
Sentì il mio cazzo dilatarsi al massimo dentro di lei. Poi eiaculai.
La tensione calò. Ci baciammo per l’ultima volta.
“Grazie mille. Sei un’amica”.
“Prego”.
***
Qualche mese dopo, ricevetti una telefonata. Era Silvia.
“Ciao, Silvia!”
“Ciao, Bea! Ti disturbo?”
“No, figurati. Dimmi”.
“Ho una bella notizia. Sono incinta”.
Bingo.
“Ma è una notizia magnifica, Silvia! Sono contentissima per te!”
“Sono al settimo cielo! Anche mio marito è entusiasta. Però senza di te non sarebbe stato possibile. Non so davvero come ringraziarti!”
“Figurati. Stando così le cose, verrò a trovarti più spesso!”
“Mi farebbe solo piacere, va bene!”
“Sai già il sesso del bambino?”
“Vorrai dire dei bambini?”
“Come sarebbe a dire?”
“Sì, sono due gemelli, un maschio ed una femmina”.
“No! Siamo state brave, allora!”
“Certo. Ti voglio al battesimo. C’è ancora tempo comunque, siamo solo al quarto mese”.
“E avete già deciso come chiamarli?”
“Certo. Per il maschio c’è stata un po’ di discussione fra me e mio marito. Io avrei preferito Filippo, lui invece Enrico. Alla fine abbiamo scelto Giacomo e buona notte”.
“E la femmina?”
“Me lo chiedi pure?”
“Voglio sentire dirlo da te”.
“Che domande… Beatrice!”




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