L'Imperatrice

Scritto da , il 2015-03-18, genere etero

I suoi occhi erano chiarissimi ed il suo sguardo meravigliosamente torbido. Il ristorante era pieno e non avevamo prenotato: io, mia moglie ed un'amica di vecchia data, cosi la ricerca di un tavolo fu un po' laboriosa e quando riuscimmo a sederci notai per prima cosa quello sguardo, fisso su di me.
Cominciai anche io a gettare sguardi curiosi, cercando di evitare che mia moglie se ne accorgesse, ma l'attrazione divenne subito irresistibile.
Quello sguardo era una specie di mano tentacolare, di biscia che saliva dalle caviglie verso il mio inguine a ridestare l'altra biscia che sonnecchiava fra le mie gambe.
Il gioco andò avanti per tutta la cena, per fortuna la nostra amica era una donna loquace e molto autocentrata, per cui era sufficiente lasciarla parlare ed intervenire solo quando l'attenzione di mia moglie sembrava attenuarsi ed evaporare.
La donna mi stava esattamente di fronte ed era anche lei con due amiche. Non era più giovane, ma suppliva alla grazia della giovinezza con le stigmate di un fascino che era sicuramente cresciuto negli andirivieni di una vita movimentata. Forse era sempre stata affascinante, forse anche sfortunata, perché al fondo dei suoi occhi brillava come un'invocazione o un richiamo o quello che la mia fantasia liberamente così interpretava. Fatto stà che più il gioco andava avanti, e non era un'illusione, più affondavo nelle spire di quella strana fascinazione da rettile a rettile.
Avevo un'irresistibile erezione che fu una spinta decisa all'azione.
Mi alzai chiedendo venia alle mie commensali e andai alla ricerca di un bagno. Nel bagno oltre a dare un po' di respiro alla biscia, cercai nelle tasche un foglietto, trovai una ricevuta di bancomat che adattai a messaggera improvvisata del mio desiderio di approccio, sul retro scrissi nient'altro che il mio nome e numero di telefono e ripiegai.
Tornando al mio tavolo passai, naturalmente, accanto a quello della ispiratrice di tutto il gioco. Non feci altro che chinarmi, fingendo di raccogliere il biglietto, che avevo in mano, e deporlo accanto a lei sul tavolo.
“E' caduto a lei?”
“Oh...grazie, molte grazie.” - Lei parve intuire subito e con gesto rapido lo ghermì al volo e lo fece scomparire nella borsetta che aveva accanto.
Il mio gesto passò inosservato alle mie commensali ed io tornai a sedermi, cercando di mantenere la faccia il più allegramente inespressiva possibile.
Il giorno dopo non attesi a lungo la telefonata. Il cellulare squillò verso le dieci:
Adriano?
Si...
Sono la signora cui ieri sera hai gentilmente raccolto...
Un biglietto caduto dalla borsetta?
Esatto...Gloria e il mio nome per te! - La sua voce aveva una vibrazione calda, addirittura infuocata , imperiosa, sicura e sarcastica.
Mi inchino al nome, al significato e ad una fascinazione, ti assicuro, che dura da ieri sera...
E...chiede soddisfazione?
Naturalmente...dimmi solo dove e quando!
Può essere domani sera alle sette... al bar del...? - e disse il nome di un albergo del centro con tavoli nel parco interno.
Cercherò di non...peccare nell'attesa! - Mi piacque con lei usare formule antiquate.
Era come il profumo di una rosa autunnale, che nel roseto ormai quasi spoglio, tra foglie rade e bacche, si ergeva solitaria su di un ramo in alto, orgogliosa, padrona assoluta del giardino, al massimo del suo splendore.
E fu uno splendore raccolto la sera dopo, seduti al tavolo di quel bar, con un bicchiere in mano e guardandola senza più fretta, cercando di indovinare il suo corpo, sotto il vestito leggero, scollato, senza audacie eccessive, ma con i capezzoli che premevano il tessuto fragile, di seta cruda, chiaro, dai riflessi arancio, le gambe slanciate, la bocca a cuore ed i grandi occhi, quasi viola nella luce del tramonto.
Aveva un appartamento, non lontano, in una via silenziosa e alberata, che raggiungemmo a piedi. Era stata sposata più di una volta, l'appartamento era grande, con un profumo intenso di legni e fiori, ma già in ascensore avevamo cominciato a toccarci, a lasciare che le labbra si sfiorassero, che le voglie montassero insieme al salire della cabina e, quando la porta si chiuse dietro di noi, già i vestiti si aprirono e le bocche cominciarono a divorarsi.
Il seno mobido, il ventre ancora liscio, il pube vellutato, furono divorati dalle mie mani ansanti, voraci e si lasciarono indagare rispondendo con smaliziata lascivia.
L'altra sua bocca attirava irresistibilmente la mia ed i suoi umori furono un miele più intenso e conturbante di ogni profumo o nettare o bosco.
Prigioniero volontario fra le sue cosce restai a lungo sognando di potervi dormire, imprigionato per sempre...sognare...morire.
Vieni su, adesso, sono già un lago, ma voglio l'acqua del tuo affluente, torrente o fiume che sia!
Lo avrai, avrai tutto ciò che vuoi, non voglio essere solo il tuo schiavo, ma anche...il... il tuo regno!
Va bene...accetto, sdraiati sarò io a venire su di te!
Entrai in lei?...o fu lei ad entrare in me? Mi lasciai allattare dai suoi seni piccoli e la mia lingua non si stancò di succhiare, mentre venivo succhiato a mia volta e svuotato lungamente di tutto il mio seme, ma dopo...oddio... che lungo rinvenire sulla sua pelle morbida, sul pelo delicato del suo pube, sulla sua schiena d'avorio pregiato, fra le sue natiche, nel buio carezzato dalla mia lingua istancabile, dalle mie mani quasi sacerdotali, suscitatrici di muggiti sacrali, serali, notturni e poi ancora diurni e serali e notturni.
Passammo due giorni in quel tempo stregato che non è sonno né veglia e che dovetti giustificare con una scusa forzata, forse incredibile o plausibile...”Un reperto di età severiana, affiorato dai misteri dell'imperatore Eliogabalo”...non saprò mai, credo.

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