La Gita

di
genere
etero

Ero stata indecisa fino all’ultimo momento.

Negli anni precedenti, a quella ‘gita parrocchiale’ c’eravamo andati sempre insieme, io e Francesco, mio marito, ma lui m’aveva lasciato, per un infarto fulminante, da circa dieci mesi.

Poi, un po’ per la pressione di Don Mario che mi diceva che la vita prosegue, e che non dovevo quasi autopunirmi isolandomi, e un po’ perché l’itinerario mi attraeva, scelsi di parteciparvi.

Penultimo posto disponibile, ultima fila del pullman.

Partenza, sabato mattino, ore otto, dal cortile della Parrocchia.

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L’autopullman era moderno, e molto ben tenuto.

Conteneva 50 posti, oltre l’autista e l’accompagnatore. Dodici file da quattro posti, due a destra e due a sinistra, quelli per accompagnatore e autista ovviamente davanti (quello per l’accompagnatore era ripiegabile per far salire e scendere le persone), in fondo, due posti. Solo due perché sull’altro lato s’apriva un altro sportello d’accesso.

Quando salii, ovviamente dallo sportello posteriore, quell’ultimo sedile era già occupato da un signore che era vicino al finestrino. Persona di mezza età (un po’ più della mia) vestito con accuratezza, ben sbarbato, con un abito sportivo, pantaloni grigi e giacca sull’azzurrino, a spighe. Sotto la giacca indossava una camiciola in lana, moderna, a quadri piccoli, in tinta col resto dell’abbigliamento. Scarpe nere, anch’esse sportive, di ottima marca e lucide.

Quando mi avvicinai, capì che ero l’altra viaggiatrice assegnata a quei posti (del resto tutti gli altri erano già sistemati), si alzò e mi cedette, malgrado io gli dicessi di restare pure comodo, il posto accanto al finestrino.

Il volto non m’era del tutto nuovo, ma non ricordavo dove e quando l’avevo visto. Del resto, il quartiere è un po’ come un piccolo paese, e ci si incontra spesso.

Gli sportelli si chiusero, il pullman s’avviò lentamente, e Don Mario ci invitò a fare il segno della croce.

L’uomo mi guardò sorridendo gentilmente, fece un piccolo inchino della testa.

“Permette, signora, visto che siamo compagni di viaggio, vorrei presentarmi, e scusi se non mi alzo. Sono Piero Molari.”

Gli tesi la mano.

“Piacere signor Molari, o devo chiamarla dottore, avvocato, ingegnere… ? Io sono Camilla Zanini.”

Mi strinse la mano. Era liscia, ben curata.

Almeno parlava, non ero costretta a starmene zitta durante il viaggio. Anzi pensai io di rompere il ghiaccio.

“E’ la prima volta che partecipa a una gita parrocchiale…signor…dottor Molari?”

Sorrise divertito.

“Senta, signora, mi chiami Piero, per favore.”

“Va bene Piero, se lei mi chiama Camilla.”

“Con piacere. Sì, è la prima volta. Da quando sono separato da mia moglie, da due anni, mi sto guardando in giro per cercare di socializzare, ma, anche per la mia professione, non mi è facile perché di tempo non ne ho troppo. Adesso che posso disporre di qualche giorno di riposo –e spero meritato- ne profitto per allontanarmi dal solito ambiente di lavoro.”

“Che sarebbe?”

“L’ospedale.”

“Medico?”

“Chirurgia d’urgenza, pronto soccorso, e, per l’età, e solo per questo, ho anche la responsabilità del servizio. E lei, come mai è sola.?”

“Perché sono vedova da qualche mese, e non piace l’ipocrisia dei raduni tra colleghi. A me la scuola, dove insegno alle medie, mi vede solo per le ore di lezione, per incontrare le famiglie, i consigli di classe o se convocata dal preside.”

Ero veramente curiosa di comprendere come mai una persona che appariva tanto a modo fosse separata dalla moglie.

Guardai distrattamente fuori dal finestrino. L’autobus si districava nel traffico cittadino per raggiungere l’autostrada.

Decisi di fare l’impicciona.

“Scusi, Piero, ma come mai s’è separato dalla moglie? Forse lei è un po’, come dire, bricconcello?”

Sorrise divertito.

“Sono stato lasciato, cara Camilla, lasciato dopo venti anni di matrimonio e, purtroppo non abbiamo avuto figli. Mia moglie, un tipo sempre scontento di tutto e di tutti, pur vivendo una vita abbastanza agiata, anche per le sue non indifferenti rendite immobiliari, ha finalmente incontrato il suo uomo che, guarda caso, era un giovane medico tirocinante con me. Ora se ne stanno insieme, lei oltre i quarantacinque e lui manco trenta, in un piccolo capoluogo del nord, dove il suo ganimede fa il medico all’ospedale, soprattutto grazie alle mie referenze. Che vuole, lui è giovane ed io sono entrato nei cinquanta proprio l’altra settimana.”

Aveva raccontato tutto con un certo distacco, senza acrimonia, come se non riguardasse lui. Ma c’era un senso di amarezza nelle sue parole.

Non so dire come sia capitato, ma mi venne spontaneo posare la mia mano sulla sua, che teneva poggiata sulla gamba. Lui voltò la mano e strinse la mia.

“Grazie, Camilla, è molto gentile.”

“Vede, sono cose che non lasciano indifferenti. Io credo di poterla capire. Quando ci si divide, dopo anni, per qualsiasi motivo, naturale o meno, c’è sempre di ché pensare. Capita anche a me che, del resto, fra qualche anno giungerò al mezzo secolo, se dio vuole.”

Le nostre mani avevano disteso le dita e le avevano intrecciate.

Era la prima volta, dopo che il povero Francesco m’aveva lasciata, che la mia mano e quella d’un uomo si stringevano in quel modo.

Riaffioravano sensazioni che credevo sepolte definitivamente, con lui.

Camilla dette testimonianza di esistere.

Devo precisare, non parlo di Camilla ‘io’, ma della mia Camilla.

Forse ci vuole un chiarimento.

C’è un detto dialettale, a Roma: ‘la sora Camilla tutti la vonno nessuno la pija’, e si riferisce a quelle donne che sembrano cercate da tanti e poi rimangono… zitelle. Ma dicendola in fretta, la frase, e con qualche malizioso aggiustamento, suona : ‘la sor..,ca mia, tutti la vonno nessuno la pija’. E anche a Roma la ‘sorca’ ce l’hanno solo le femmine. Da qui l’attribuzione del nome Camilla a quella importante parte anatomica femminile, che altrove è chiamata ‘fica’, o ‘figa’, a seconda della latitudine.

Si, Camilla aveva commentato che era davvero una bella mano.

Rimanemmo così, a lungo.



Credo che quel contatto non dispiacesse a Piero, perché spostò le nostre mani dalla sua gamba alle mie, proprio dove esse si univano, e il dorso della sua mano doveva certamente accorgersi della sempre più inquieta Camilla. Veramente, a guardarlo bene, anche il suo ‘pierino’ non era insensibile a quel contatto, che con la scusa degli sobbalzi del pullman, stava divenendo un vero e proprio massaggino delizioso. Visto che le cose stavano così, mi accomodai meglio, sul sedile, e allargai un po’ le gambe. Tanto non ci poteva vedere nessuno.

La situazione diveniva sempre più piacevole, e lui ne era, logicamente, conscio, e anche io m’ero accorta del gonfiore nei suoi pantaloni.

Le nocche s’erano alloggiate tra le grandi labbra. Il leggero vestito era un velo e lo slippino, in fondo, più o meno inesistente.

Stavamo quasi imboccando l’autostrada quando m’accorsi che il mio bacino ondeggiava. In una parola, stavo godendo!

Piero fu gentilissimo, seguitò con sapiente ritmicità, e fece finta di guardare fuori dal finestrino quando io finsi di dormire, chiudendo gli occhi per giustificare il respiro profondo.

Era solo l’anticamera d’un orgasmo, perché il mio piccolo clitoride, un bocciolino, anche se sapientemente confricato non riusciva a farmelo raggiungere pienamente. Se non c’era quella che maccheronicamente era detta la ‘penetratio penis’, non c’era orgasmo. Mi sembra che si dicesse pure: ‘intra est voluptas’!

Avevo cercato qualche espediente. Ero andata perfino in un’altra zona della città, in un famoso sex-shop, dove avevo acquistato un costoso ‘surrogato’ che aveva tutta la forma d’un vivace fallo, ricoperto d’una sostanza che, mi aveva assicurato il venditore, assicurava le stesse emozioni di quello ‘vero’; non solo, ma c’era anche un complesso sistema di riscaldamento regolabile e una specie di scroto di gomma contenente un liquido denso e gommoso che, al momento opportuno, ti sarebbe schizzato dentro solo strizzandolo.

Massima delusione, mi sembrò di aver sorseggiare vinello di cattiva qualità mentre desideravo d’inebriarmi di champagne sopraffino.

Dopo la prima volta lo misi in un cassetto. Non ricordo quale.

La mano continuava a farmi sentire in quella specie di nirvana, ma era come se stessi in attesa, nella sala d’aspetto, dell’inizio dello spettacolo.

Stavamo giungendo alla prima fermata, la stazione di servizio che ci dava la possibilità di prendere un caffè, di andare al bagno, di sgranchirci le gambe. Forse quella sosta era provvidenziale, spezzava una certa tensione che non sapevo come sarebbe andata a finire.

Bevemmo un cappuccino assieme, andammo verso le toilette, lì ci separammo. Ci rincontrammo all’uscita, tornammo sul pullman. Mi aiutò a risalire, e colse l’occasione per accertarsi della consistenza delle mie natiche che, modestia a parte, sono ben sode e tonde.

La cittadina méta della gita fu raggiunta dopo un’ora e mezzo.

Piero non cessò di proseguire i suoi esami anatomici.

Mano dietro la mia schiena, poi sottobraccio, quindi sulla tetta sinistra, con controllo del capezzolo, palpazione del grembo. A giudicare dal comportamento del suo ‘pierino’ ritengo che fosse soddisfatto.

Quando giungemo all’Abergo, grazioso, moderno, abbastanza elegante, mi tirò un po’ da parte.

“Ma noi, dopopranzo, dobbiamo proprio andare a visitare il rifugio dell’eremita solitario?”

Assunsi un’aria ingenua.

“Perché?”

“Dai, che hai capito benissimo. Non ti sembra che ci siano migliori rifugi?”

“Ad esempio?”

“Il tuo letto.”

Mi avviai verso l’entrata dell’albergo, senza rispondere, scotendo la testa.

Sulla soglia mi fermai.

Mi domandavo a chi aspettavo per sfamarmi un po’. Piero era gentile, attraente, prestante… e Camillina fremeva.

Gli sussurrai sottovoce che l’avrei atteso, ma doveva salire prima lui, andare in camera sua ed accertarsi che nessuno lo vedesse entrare da me, quando mi avrebbe raggiunta, dopo mezz’ora.

Essendo gli ultimi prenotati alla gita, ci furono assegnate le camere della dépendence, e pure alla vedova Rosi.

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Ero ansiosa, agitata, eccitata, come una adolescente al suo primo incontro.

Nello stesso tempo mi auguravo che non fosse uno di quelli che si dilungava un’eternità in preliminari per poi concludere tutto frettolosamente. Ho già detto che per me ‘no in, no climax’. E di climax ne sentivo proprio l’esigenza. Avevo un po’ confidato il mio comportamento erotico a una cara amica, ci conosciamo dalle elementare, ed è un tipo simpatico e arguto. Mi aveva detto che potevo certo definirmi una ‘only hole lady’, ossia una donna tutto buco.

In fondo aveva ragione.

Dopo pranzo, che io assaggiai appena, mi guardò di sfuggita, s’avvicinò a Don Mario, gli disse qualcosa e s’avviò alla dépendence.

Già, anche io dovevo informare il nostro caro accompagnatore che non sarei stata con loro nel pomeriggio. Lo feci accusando una lieve emicrania.

Salii in camera.

Feci una doccia tiepida, e stavo per rivestirmi quando sentii grattare alla porta. Dovevo affrettarmi ad aprire, qualcuno, magari la vedova Rosi, poteva vederlo lì. Avevo indossato calze e reggicalze, mi gettai sulle spalle la vestaglia.

“Avanti!”

Lui entrò, con un elegante pigiama. Si accorse che avevo solo la vestaglia appoggiata alla meglio. Chiuse la porta, venne verso me, e con dolcezza, ma decisamente, mi spinse sul letto. Istintivamente aprii le mani, la vestaglia scivolò sul pavimento, io caddi sul letto, col reggicalze non ancora al suo posto.

Istintivamente portai una mano sul seno e l’altra tra le gambe, con civetteria, provocatoriamente, più a mostrare, a offrire, che a nascondere.

Lui si avvicinò sorridendo, mi sfilò il reggicalze, le calze, si liberò del pigiama e, con ugual astuzia esibì un attraente e promettente attrezzo che non rispondeva, però, al ‘pierino’ che gli avevo appioppato io prima di conoscerlo, ora, dopo tale chiara ed evidente presentazione, ben gli competeva l’appellativo di ‘pierone’.

Che dio lo benedica, rimuginai nella mia mente.

Mentre i luoghi che avrebbero potuto e voluto dargli il benvenuto, fremevano in concorrenziale impazienza.

Non dovevo prendere io l’iniziativa, però. Doveva cominciare lui.

E non si fece pregare, né indugiò.

Mi manovrava con tenera destrezza, sicuro dei suoi movimenti.

Mi fece voltare, inginocchiare, poggiare la testa sul cuscino…

Non dovetti attendere molto, per sentilo in me.

Finalmente!

Dopo tanto tempo.

Ed era veramente un fuoriclasse, entrava e usciva con un tempismo da manuale, aveva sfiorato il mio clitoridino ed aveva compreso che quel cosino voleva solo carezze delicate.

Provò anche la reazione delle tette. Capì che alle sue strizzatine corrispondeva l’aumentare delle contrazioni della mia vagina.

Lo affondava con perizia, andava toccare appena il ‘portio’ del mio utero, senza spingere troppo, sentivo benissimo il suo glande infuocato baciare il mio muso di tinca.

Come prevedevo e sapevo, quella magistrale penetrazione, l’esperto ritmo, e le ben dosate palpazioni, mi fecero rapidamente salire di giri, e lui seguitava diligentemente. Tra i miei gemiti che andavano crescendo, sentivo sussurrarmi qualcosa. Ecco, stavo capendo.

“Vieni, cocca bella, vieni… brava Camilla… quanto sei brava… ecco… vieni… tesoro…”

E non c’era bisogno di quell’invito, di quel sollecito.

Fui travolta da un orgasmo lungo e vibrante che mi fece quasi svenire. No, non volevo svenire, dovevo sentirlo, ancora, perché a me piace quando il seme m’invade… si… così… oddio, adesso sì che svengo… ma no, venni ancora!

M’abbandonai sul letto, con Piero sopra e pierone ancora dentro.

Poi, spossata ma paga, mi rigirai piano. Lui si sollevò, lo sentii sfilarsi da me. Poi si riadagiò su me, carezzandomi. E caddi in un sonnellino ristoratore.

Quando mi risvegliai, era supino, a fianco a me, a braccia e gambe aperte, con un sorriso soddisfatto sulle labbra.

Il fallo era in una via di mezzo, tra lo stato di riposo e quello di combattimento.

Quanto era bello.

Pensai subito, come una sciocca adolescente, che quello altro che medico era… era un avvocato di grido, un vero e proprio ‘principe del foro’! E sorrisi tra me e me, mentre non riuscivo a vincere la tentazione di carezzarlo, stringerlo nella mia mano… e non solo.

Battaglia perduta la mia.

Mi chinai su lui, e questa volta fu la mia golosa bocca ad avere la meglio. Agii con la massima delicatezza, ma ‘pierone’ si risvegliò di colpo, piacevolmente sorpreso per la nuova accoglienza.

La mia lingua sembrava impazzita intorno a quella deliziosa ‘cappella’, la picchiettava, lambiva circolarmente, mentre le mie guance testimoniavano l’avida golosità d’un ciucciamento che avrei voluto non finisse mai.

Gli carezzavo lo scroto, e sentivo in esso muoversi i testicoli, lui riuscì a raggiungere il mio culetto con le dita, entrò tra le chiappe e cominciò a titillare il buchetto che fremeva e palpitava.

Ero certa che gli diceva qualcosa, vi fece penetrare un dito, cautamente, in perlustrazione. Proseguì, e non mi dispiaceva affatto. Anche la mia camillina dava segni di compiacimento. Quella manovra era chiaramente un preavviso, un preciso ammonimento, anzi una esortazione che ha radici evangeliche: estote parati! Preparatevi. Ma il mio non aveva bisogno di esortazione.

Mentre ero intenta in quella deliziosa degustazione, la bocca confermò quello che già camillina aveva constatato ma che aveva attribuito al mio essere incontrollabilmente allupata per troppo lunga continenza. Fare confronti è più che naturale e spontaneo, e ciò mi condusse alla conclusione che il pur ben-dotato Francesco, di felice memoria, era decisamente surclassato da Piero. Il ché, in effetti, non poteva che gratificarmi.

Dissetatami a tanta fonte, dopo essermi sfamata in altra sede, e profittando della prestanza di quello che era divenuto il mio miglior ‘medico curante’, pensai che ancora non l’avevo potuto guardare bene in faccia, ‘durante’ la sua pregevole prestazione, ed ero curiosa e ansiosa di farlo.

Forse era il momento propizio, perché m’ero accorta che la mia scrupolosa performance era stata molto apprezza.

Profittando del fatto che si era sdraiato e che il suo fallo, malgrado tutto, svettava baldamente, mi misi a cavallo a lui e con molta destrezza, mi ci impalai con voluttuosa lentezza.

Finalmente lo potevo scrutare mentre mi dondolavo lascivamente, traendo piacere anche dal godimento che leggevo nel suo volto. Fu un inizio delicato, come l’ondeggiare d’una culla che il lungo e flebile gemito che usciva dalle mie labbra sottolineava a mo’ di esotica nenia rituale. Nelle orecchie mi risonavano le note dello struggente ‘canto indù’.

Poi, proprio come nelle danze erotiche cui avevo assistiti nelle isole della Polinesia, il ritmò incalzò sempre più, fino a divenire cavalcata impetuosa che finì quando, travolta dal godimento mi riversai su lui, in attesa di sentire la bramata irruente invasione che mi faceva deliziosamente rilassare, appagata.

Mi meravigliavo io stessa per quelle così profonde sensazioni, e mi chiedevo mentalmente se non fosse il mio ‘canto del cigno’.

Sarebbe stato troppo presto, per la mia età.

Forse era l’inizio di una nuova stagione della mia vita sessuale.

La maturità mi rivelava un nuovo aspetto del succulento e appetitoso godimento del sesso.

Indugiammo, poi, in baci e carezze, fino a quando l’ora non ci avvertì che s’era avvicinato il tempo della cena.

Ci alzammo, pigramente, io andai nella doccia, lui nella sua camera.

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Quando entrai nel bar, dove erano quasi tutti per prendere l’aperitivo, Don Mario mi venne incontro, mi guardò.

“Come sta, cara Camilla. Ha un volto raggiante, ma appare anche molto sbattuta. Perché non profitta della presenza del professor Molari, sa è un medico bravissimo, per vedere se può fare qualcosa per lei? Eccolo, è li. Ora lo chiamo.”

Si voltò verso Piero che era nei pressi del bancone.

“Professor Molari, per favore, può venire qui?”

Pier si avvicinò, gentile, sorridente.

Don Mario seguitò.

“Qui, la cara Camilla forse ha bisogno di lei, può interessarsene, per favore?”

“Certo, reverendo, e sono sicuro di avere qualcosa che potrà recare beneficio alla signora.”

Si voltò verso me, con una faccia impenetrabile.

“Dopo cena, gentile signora, vada in camera e si metta a letto. Passerò a visitarla.”

Stavo scoppiando a ridere, ma feci il volto d’occasione.

Don Mario volle che Piero sedesse assolutamente vicino a me, a tavola, e dopo un drink brindando alla comunità e alla gita, mi suggerì di seguire quanto aveva detto il medico: andare a letto ed attendere che venisse a vistarmi.

Non potevo disattendere l’invito di quel santo uomo, e me ne andai alla dépendence, in camera. Non erano ancora le undici, di sera, quando Piero venne a visitarmi.

Fu molto tenero, con me, dolce, meraviglioso.

Volle che mi liberassi subito della pur velata camicia da notte, come lui aveva fatto col suo superfluo pigiama. E i nostri corpi godevano nel sentirsi così vicini, nell’abbracciarsi. Le nostre bocche si univano ardentemente, e poi si lasciavano per avventurarsi in appassionate esplorazioni che ci facevano fremere e palpitare.

Credo che Piero avesse compreso il mio desiderio e piacere di guardarlo in viso mentre scopavamo.

Infatti, si mise supino, mi fece sedere sul suo pube, col suo grosso fallo tra mie gambe, e con una mano era andato a sfruculiare il mio buchetto che non aveva certo dimenticato il precedente annuncio. Il suo dito era abbondantemente pieno di saliva, ed egli provvide a spanderla tutt’intorno. Poi, lo stesso dito andò a raccogliere quanto la mia vagina andava abbondantemente stillando e trasferì il tutto intorno e dentro lo sfintere anale che, intanto, s’era messo a palpitare.

Mise le sue palme sotto le mie natiche, mi sollevò.

Bastò un suo sguardo per farmi capire cosa dovevo fare.

Condussi il glande vicino al buchetto, con le mani discostai le chiappe e appena cominciò a penetrarmi, mi calai lentamente, fino a che non lo sentii interamente in me. Una voluttuosa e inebriante invasione.

Fui io ad iniziare il movimento che ci portò ad apprezzare sempre più le sue vibrazioni che percepivo sempre più frementi, e lui non nascondeva il gradimento delle mie contrazioni che contribuivo a causare per mungerlo fino all’ultima stizza.

Io, ad un certo momento, persi quasi ogni controllo, tra quel grosso battaglio nel di dietro e le sue ditone che mi frugavano irrequiete la vagina, stavo sprofondando in un gorgo di voluttà, per risalire e di nuovo ripiombarvi, in più di un orgasmo, di intensità e durata sconosciute, ma benedette. Quando esplose in me, mi sembrò d’impazzire, e lo strinsi come a svellerlo e a trattenerlo per sempre.

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Don Mario giustificò la mia assenza, sia per tutta la domenica che fino al pranzo del lunedì, poco prima di partire. Mi facevo vedere solo per i pasti. Quel santo uomo era comprensivo, e non cessava di lodare lo spirito di sacrificio e l’abnegazione del medico che si costringeva a restare in albergo, per non lasciarmi privo della sua preziosa e determinante prestazione professionale.

Quando la sera del lunedì giungemmo in sede, nel cortile della Parrocchia, io non sapevo come sarebbe andata a finire quella storia.

Era tutto finito?

Ero pensosa.

Mario prese il telefonino e chiamò un taxi.

“Ti accompagno a casa, non posso certo lasciarti sola, nel tuo stato. Che direbbe Don Mario?”

Il bravo sacerdote lo ringraziò molto e gli disse che certamente la sua opera non sarebbe rimasta priva di riconoscenza.

Mario si schernì, e disse che era suo dovere andare in aiuto di chi aveva bisogno di lui.

“Non dimentichi, caro Don Mario, che io sono del ‘pronto soccorso’”
di
scritto il
2014-12-11
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