Fottimi, lurido porco

Scritto da , il 2012-03-04, genere etero

Seduto al tavolino di un bar annaspo nel fuoco della controra che mi dilania con i suoi artigli. Sono al terzo mojto quando la vedo passare. In realtà sento prima i passi sui sampietrini della piazza deserta e morsa dal sole. Toc toc toc. Alzo lo sguardo dal giornale e la vedo, mora, tutte curve strette in un vestitino corto così attillato che le cuciture sembrano lì lì per cedere. Il vestito è bianco, così da risaltare l’abbronzatura. Deglutisco mentre lo sguardo mi si appiccica irrimediabilmente a quel culo grosso e tondo, come un melone venuto su col sole di mezzanotte. Lascio qualche banconota sul tavolo, recupero le sigarette e m’incammino dietro la procace sirena, con gli occhi sbarrati e un filo di bava alla bocca. Esalo sudore e testosterone. Ad ogni passo i capelli neri le ondeggiano morbidi sulle spalle rotonde, appena velate da una patina luccicante di sudore. Il culo michelangiolesco è sorretto da un paio di cosce tornite, massicce, imponenti, dai polpacci che sembrano usciti fuori dalle mani dello stesso Fidia. Insomma, completamente fuori di me, seguo come ipnotizzato quel culo fin quando non s’infila in uno dei tanti vicoli che sfociano come estuari nella piazza. Si ferma davanti ad un portone, ravana nella borsa, estrae un mazzo di chiavi. Osservo ogni suo movimento fingendo di essere interessato alle ultime novità disposte nella vetrina di una libreria. Mi accendo una sigaretta, mentre la chiave entra nella toppa e fa scattare la serratura del portone. C’è un dispositivo di chiusura automatica e il portone prende a chiudersi lentamente. Scatto come una faina ed evito che si chiuda completamente. Entro e richiudo il portone alle mie spalle. L’atrio è in penombra e piuttosto fresco. Non si sentono rumori, eccetto il ronzio metallico dell’ascensore. Do qualche altra boccata, poi spengo la cicca nel vaso di un ficus e mi avvicino all’ascensore, che è di nuovo libero. Il display accanto al bottone di chiamata segna il numero 4. Schiaccio il pulsante e aspetto. Grondo sudore, le mani sono scivolose come saponette, la camicia incollata alla schiena come un sudario. Quando l’ascensore apre le porte a due dita dai miei piedi ho un ripensamento, tipo che cazzo sto facendo, ma il pacco gonfio e dolorante respinge il buonsenso da dov’era venuto. Varco la soglia, schiaccio il tasto 4. Lo specchio rimanda la mia immagine stravolta dall’arrapamento e dalla tensione. La camicia è chiazzata sotto le ascelle e sullo stomaco. Non devo avere nemmeno un buon odore, suppongo. Mi passo le mani sul viso, poi le strofino sui jeans. Con un clang secco e un rinculo che mi prende di sorpresa, l’ascensore apre le porte. Sul pianerottolo ci sono tre porte. Escludo quella senza targa, al centro, e scelgo quella di sinistra. Una striscia di carta fissata con dello scotch sul campanello riporta la scritta Oliviero, in stampatello. Schiaccio e aspetto. Preceduta da un pesante scalpiccio mi apre una donna in ciabatte e vestaglia, sui 45-50, capelli tinti con una mistura fai da te che, deduco, non ha sortito l’effetto sperato, il naso grosso incassato al centro di un viso piuttosto gonfio, con un paio d’occhi bovini e liquidi. Imposta un sorriso sgangherato, dal quale fa capolino una dentatura non proprio perfetta, pesantemente macchiata dalla nicotina. Porta con sé un odore di fritto e di alcol. Mi guarda senza dir nulla.
"Buongiorno, signora",improvviso, "mi manda l’amministratore per dare una controllatina agli appartamenti. Lei ha qualche problema da far menzione?"
Mi guarda come se fossi un marziano, poi si scosta e mi fa segno d’entrare. L’appartamento è avvolto nell’oscurità. La seguo per il corridoio, poi in soggiorno. La luce filtra dagli interstizi della persiana scrostata dal sole e dall’incuria, dando vita ad infiniti pulviscoli di polvere che danzano febbrili. C’è un tavolo, un divano, due poltrone, una credenza, un mobile con lo specchio, insomma un arredo che ha conosciuto tempi migliori e che è rimasto lì a simboleggiare la deriva distruttrice del tempo. Accanto alla finestra c’è un giovane seduto, col capo reclinato sulla spalla sinistra, gli occhi sbarrati, un ghigno che gli deforma la bocca, dalla quale fuoriesce un bel grumo di saliva secca. Quando mi giro me la ritrovo incollata alla schiena. Trasecolo, spaventato. Faccio un passo indietro, ma lei subito riazzera la distanza.
“Mi dia qualcosa", mi dice con voce roca, slacciandosi lentamente la vestaglia, "mi dia qualcosa per me e per quel disgraziato seduto lì".
"Signora", quasi piagnucolo, "cosa fa, aspetti".
Troppo tardi. I lembi della vestaglia si aprono come il sipario sdrucito di un teatro fuori uso ed esplodono nella stanza due enormi seni, bianchicci e cascanti, dalle aureole di un rosa pallido grosse come hamburger. Porto una mano dietro, sempre indietreggiando, recupero il portafogli e le porgo una banconota da 20 euro.
"Grazie", mi fa stringendomi la mano tra le sue, le dita sono grassocce, umide, giallastre e baciandomi entrambi i dorsi, "lei è un sant'uomo".
Mi libero a fatica dalla stretta, la dribblo e guadagno l’uscita.
"Aspetti", la sento ripetere più volte mentre chiudo la porta.
Mi fiondo sull’ultima porta. Non bado alla targa sul campanello. Non è chiusa, ma accostata allo stipite. Con cautela l’apro e dò una sbirciata dentro. Silenzio. Richiudo e mi avventuro per il corridoio. La prima porta a sinistra è la cucina. Nessuno. Avanzo ancora. Sulla destra un’altra stanza. La donna mi dà le spalle, ha le mani aperte sul tavolo, il culo spinto leggermente all’infuori. Le sono addosso. L’afferro per i capelli, profumati di shampoo alla malva, e le azzanno il collo, mentre l’altra mano è già sotto la gonna.
"Ahh, porco", grugnisce, "che vuoi da me?"
"Adesso lo vedrai, baby", le rantolo all’orecchio col fiato rovente.
Le alzo il vestito sopra le reni et voilà, il culo appare in tutta la sua magnificenza, completamente nudo. Stano tra le chiappe il filo del perizoma e lo tendo ad arco su una chiappa.
"Adesso ti do una bella ripassata, puttana", ansimo arrapato mentre traffico con la lampo e lo tiro fuori, duro e palpitante, "guarda che voglia che hai, troia",
commento passandole il medio tra le chiappe umide, fino alla fica bagnata dalle labbra già aperte. La schiaccio sul tavolo e la tengo giù per il collo, mentre le entro dentro in un colpo, liscio liscio fino alle palle.
"Ahhh", starnazza, mentre le infliggo una serie di colpi rapidi e violenti.
Mentre la chiavo selvaggiamente le cingo la vita col braccio libero e con le dita le stropiccio il clitoride. Ha un boschetto morbido e folto laggiù, tutto umidiccio, come il pelo di un gattino che ha preso pioggia. Urla e dimena il culo, la vacca, andando incontro ad ogni mio affondo. Il suo “godo, lurido maiale” raspa l’aria calda del soggiorno, come una graffiata sulla lavagna, e a quel punto, come se mi stessero sgozzando, rantolo e le schizzo dentro tutto ciò che ho.
Stremato, crollo su una sedia, ansimante, il petto che va su e giù spasmodicamente, le brache alle caviglie, il cazzo che vibra ancora una volta prima di abbattersi anche lui su un lato. Lei si tira su, si acconcia il vestito stirandoselo addosso con le mani. Si gira, spettinata, il viso ancora un pelo stravolto. Mi guarda. Mi sfila il pacchetto di sigarette dal taschino della giacca, se ne accende una e me lo rilancia. Ne accendo una anch’io. Tira qualche boccata, sbuffando il fumo verso il soffitto. Guardo il suo volto riacquistare progressivamente il giusto decoro e il fumo sfilacciarsi nell’aria satura di calore e del nostro sudore. Dopo avermi squadrato ancora per un po’ fa:
"Non pensavo che avresti avuto le palle di venirmi dentro casa".
Non so che risponderle. In effetti, nemmeno io l’avrei mai pensato.
"Mi piace essere violentata", prosegue come se avesse dichiarato la sua preferenza per il pistacchio, "ti ho visto al bar, ho visto che ti sei alzato e che mi hai seguito. Ci ho sperato. Ma quando sono salita in ascensore senza di te, ho concluso che t’era venuto meno il coraggio. Sono stata violentata solo altre due volte, prima di oggi. È difficile per una donna bella trovare un uomo, sai. Tutti la vedono inaccessibile. È uno strazio".
"Ma il modo in cui vesti, come ti muovi... ti rendi conto che metti un uomo alla tortura?"
"Certo che me ne rendo conto", dice scrollando la cenere in una tazzina da caffè, "mi eccita vederli arrapati, con gli occhi di fuori, la bava alla bocca e la patta dei calzoni gonfia. Sento il loro odore di maschi arrapati, i loro sguardi bavosi che mi scivolano su ogni punto del corpo. Potessero verificare tra le mie cosce che effetto mi fa..."
"Sei proprio una troia. Com’è che ti chiami?"
"Anna. Tu?"
"Roberto".
"La prossima volta usa la cinghia, Roberto".
"La cinghia?"
"Sì, prendimi a cinghiate sulle cosce, sul culo. Fammi male, poi ficcamelo dentro. Dimmi che violenti".
"Bene. Adesso ti meno", dico alzandomi, "adesso ti violento".
Avanzando goffamente, con le caviglie ancora bloccate dai calzoni, l’afferro per i capelli, la bacio selvaggiamente, le mordo la lingua.
"Fottimi", dice, "fottimi, lurido porco!"
"Aspetta".
Mi dà una spinta e ricado pesantemente sulla sedia. Afferra l’orlo della gonna e sfila il vestito dalla testa. Ha un paio di bocce belle grosse, compresse in un reggiseno nero. Si sfila il perizoma e senza perdere altro tempo si genuflette tra le mie cosce. Mi afferra il barzotto in una mano e comincia a succhiarlo, avidamente, senza tanti preamboli e tecnicismi. Un pompino rude, ma certamente efficace. L’uccello prende immediato vigore e si inturgidisce nella sua mano, si gonfia come un pavone dalla testa violacea. Con un verso di volgare risucchio, Anna stacca le labbra e contempla gli effetti della sua arte.
"Mmm... che bel cazzo. Così tozzo, largo. Bellissimo. Lo voglio tutto nel culo. A mio marito non piace, ha paura di farmi male".
"Sei sposata?"
"Oh sì, con un uomo meraviglioso che mi adora", detto questo, riprende a succhiare.
"Mamma mia", dico completamente cotto, "mamma mia!"
Ci lavora ancora per qualche minuto, succhiandomelo più lentamente però, gustandoselo, dandomi palpate ai coglioni come ritmo. Quando si accorge che sto per venire, si tira su e monta a cavalcioni, facendo sparire l’erezione fra le cosce. Comincia a cavalcarmi disperata, tenendosi alle mie orecchie.
"Ahhh, chiavami bastardo. Oddio, oddio come lo sentooo..."
Praticamente fa tutto lei, allora, con le orecchie in fiamme, le slaccio il reggiseno e mi avvento avido su quelle grosse mammelle, succhiando i capezzoli con la voracità di un lupo affamato. Più la mordo e più lei gode e aumenta il ritmo. Il sudore ci rende scivolosi e selvatici, i suoi capelli sono incollati alla fronte, il volto deformato in un ghigno satanico, gli occhi come di brace, mentre ripete come una cantilena “fottimi, fottimi, fottimi!”
Avverto il sangue caldo sgocciolarmi lungo il collo. La troia con quelle unghie deve aver fatto un bel macello. Allora le stacco con forza le mani dalle orecchie, grugnendo di dolore, e le mollo un bel cartone sulla guancia sinistra. Anna barcolla e perde l’equilibrio, rovinando all’indietro. L’afferro per una tetta, evitando che sbatta con la testa e dandole il tempo di poggiare ambo le mani per terra. Continuo a fottermela in quella posizione, tenendola per i fianchi. Poi lo tiro fuori e lo oriento verso il buco di dietro. La cappella dilata lentamente l’anello di carne del suo buco di culo, mentre lei miagola come una gatta in calore.
"Aaah, bastardo", sibila con tono arrochito dalla voglia e dalla posizione, "vuoi sbattermi quel grosso affare nel culo".
Glielo spingo dentro con forza e prendo a farmela nel culo, mentre con due dita della destra le pompo la fica e col pollice sinistro gli sgrilletto forte e veloce il clitoride, lungo e carnoso come un pistillo. Urla in maniera inarticolata, roba incomprensibile che le gorgheggia in gola ed evapora in raschi voluttuosi, quasi inquietanti. Riesco a cogliere solo qualche oscenità diretta alla mia persona. Continuo a fottermela selvaggiamente, mordendomi il labbro per ricacciare l’orgasmo che sento montare nelle viscere. Friziono il suo clitoride forsennatamente, come un giocatore malato che gratta un gratta&vinci, ed avviene... senza preavviso m’investe uno spruzzo abbondantissimo di quello che lì per lì mi sembra piscio. Mi arriva in bocca, sul petto, tra le gambe. Anna crolla sulle braccia, con la testa piegata sul collo, le palpebre tremolanti. Continuo a tenerla per le cosce, mentre mi tiro su e continuo a fottermela a quel modo, nel culo, i cui sfinteri mi stringono il cazzo così forte che sembra mi stiano spompinando. È come se stessi chiavando una bambola, da come è disarticolata e inerme, come una morta. Il pensiero mi fa eiaculare come non ho memoria e le inondo gli intestini di sbrodo rovente, prima di stramazzare sul pavimento sfinito... inerme a mia volta.

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