La neve può essere tiepida (cap.3 di 7)

Scritto da , il 2012-01-20, genere sentimentali

Al fine di limitare, per quanto possibile, la valanga di trivialità che il cretino di turno sta rovesciando in coda ai miei racconti, sbeffeggiando non solo il sottoscritto ma anche tutti coloro che civilmente hanno voluto lasciare un commento, e sporcando con le sue volgarità l'intero sito, prego i lettori DI NON LASCIARE COMMENTI IN CODA A QUESTO E AI SUCCESSIVI MIEI RACCONTI. Lasciamo la lavagna libera ed il gesso in mano al somaro in questione, lasciando a lui solo i suoi demenziali divertimenti.
Con l'augurio che l'idiota si possa stancare, o che gli amministratori del sito trovino il modo d'impedire tali comportamenti assolutamente incivili.
Grazie e un caro saluto a tutti.
Diagoras

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Dopo un paio d'ore di quel lento procedere, dopo numerose cadute nella neve, dopo un’infinità di quei " dieci passi ", dopo innumerevoli lotte con me stesso per non accoccolarmi in quel bianco giaciglio, quasi irresistibile nella sua promessa di porre fine alle mie sofferenze, all’improvviso la vidi.
Era spostata un pò sulla mia destra, ed alle spalle aveva quel bosco di betulle che stavo tentando così disperatamente di raggiungere.
Era una semplice baracca di legno, una modesta costruzione di tronchi con il tetto spiovente ricoperto da uno spesso strato di neve ghiacciata.
Vidi un tenue chiarore brillare da una stretta finestra ed un filo di fumo, spazzato subito via dal vento, uscire quasi timoroso dal camino.
Luce e un pò di calore.
Solo quello desideravo.
Solo di quello avevo necessità.
Pensai per qualche momento che avrei corso un grosso rischio ad avvicinarmi a quella baracca, perché gli occupanti avrebbero potuto essere magari dei partigiani, i quali mi avrebbero ucciso subito, senza esitare nemmeno per un istante: mi avrebbero visto come un nemico da abbattere, da cancellare con un colpo di fucile in un solo attimo.
E, dal loro punto di vista, avrebbero avuto anche le loro ragioni.
Ma non m’importava più di nulla.
Anche morire rapidamente, in quelle ore di disperazione, era meglio di quella lenta e tormentosa agonia.
La mia famiglia, i miei genitori, i miei fratelli.
Sapevo che non avrei rivisto più nessuno, che tutta la mia vita era irrimediabilmente perduta.
Volevo solo trovare il modo più semplice per non soffrire più.
Se non mi fossi diretto verso quella baracca, sarei anche potuto arrivare al bosco e lì, svuotato d’ogni energia, attendere la " dolce morte ".
Ma non volevo più attendere: volevo che, in un modo o nell'altro, la mia agonia terminasse.
Con le ultime energie che non credevo nemmeno più di avere, mi diressi verso la baracca e, quando mi fui trascinato fin davanti alla porta di legno, non riuscii neppure a bussare: caddi letteralmente addosso al legno di quel battente, con tutto il mio peso, e svenni.

Quando ripresi i sensi, mi ritrovai al buio.
Completamente al buio, senza capire dove fossi e senza ricordare cosa mi fosse successo.
Mi ci volle più di qualche istante prima che i ricordi ed i pensieri tornassero ad occupare la mia mente.
Ero adagiato su una coperta ed altre coperte mi avvolgevano il corpo, che qualcuno pietosamente aveva spogliato, liberandolo dagli abiti laceri e gelati che indossavo.
Ero nudo, avvolto da quel meraviglioso e dolce tepore che solo la lana ci sa regalare.
Molto lentamente i miei occhi si abituarono alla mancanza di luce, a quella oscurità che però, sia pur vagamente, qualcosa lasciava intravedere.
Mi trovavo in uno spazio molto ridotto, lungo poco più del mio corpo sdraiato, largo forse un metro e mezzo, e alto qualche centimetro di più.
Con circospezione tirai fuori le braccia da sotto le coperte, e subito il freddo mi aggredì mordendomi le carni, facendomi di colpo tornare alla mente tutte le sofferenze che avevo patito.
Con la mano sinistra toccai un muro di ciocchi di legna accatastata; anche dietro la mia testa e oltre i miei piedi c'era legna per la stufa.
Alla mia destra, invece, sentii, con l’altra mano, una parete liscia, di legno piallato, meravigliosamente calda come un radiatore: udivo muoversi oltre quella parete, un insieme di rumore di stoviglie e voci di esseri umani.
Mi resi conto di trovarmi in una legnaia, annessa alla baracca che ora ricordavo di aver vista; oltre la parete alla mia destra vi era la casa, e sicuramente una stufa accesa che rilasciava il suo vitale e benefico calore.
Mi accostai il più possibile a quel legno caldo e, strettamente avvolto nelle coperte, mi addormentai quasi senza nemmeno accorgermene.

Più tardi fui svegliato dal rumore di una porta che si apriva scricchiolando, per poi richiudersi rapidamente.
Vidi una debole luce che filtrava tra i tronchi accatastati e udii qualcuno salire e scalare quella montagna di legna.
Alzai gli occhi e mi accorsi che il soffitto dello stretto ambiente in cui mi trovavo era composto da una larga tavola, sicuramente a meno di un metro e mezzo dalla mia testa.
Sentii spostare la legna e poi la tavola fu tolta, e un uomo si calò agilmente nel mio nascondiglio.
Aveva una cinquantina d'anni e l'aspetto tipico di un contadino russo: occhi chiari, capelli radi e biondi, carnagione arrossata dal freddo intenso.
La lampada a petrolio (la luce che avevo vista poco prima) era rimasta in alto, tenuta in mano da una seconda persona.
L'uomo mi guardò un attimo, forse sorpreso di trovarmi sveglio, mi sorrise debolmente, e poi, scostando le coperte, mi scoprì i piedi; da una tasca della giacca sformata che indossava estrasse una piccola bottiglia, si versò del liquido nel palmo di una mano, e iniziò a strofinarmi energicamente le due estremità.
Non avvertivo assolutamente nulla di quel massaggio.
Il congelamento ai piedi mi aveva tolto ogni sensibilità.
Continuò a massaggiarmi con vigore per alcuni minuti.
Alla fine mi guardò di nuovo negli occhi, poi mi ricoprì con le coperte i piedi, avvolgendomeli con cura, e dicendo un qualcosa, che però non ero in grado di comprendere, alla persona che era rimasta in alto con la lampada in mano.
Quindi l’uomo si arrampicò velocemente sulla legna ed uscì dalla mia visuale.

Subito dopo scese la seconda persona: era una ragazza di circa vent’anni, evidentemente la figlia dell’uomo che mi stava curando, perché, pur nella scarsa illuminazione, notai una certa somiglianza tra i due.
Il padre passò alla figlia prima la lampada e poi una scodella, si parlarono a bassa voce ancora per un attimo, e poi l’uomo se ne andò.
Sentii nuovamente la porta aprirsi e chiudersi, tra cigolii di cardini vetusti e scricchiolii di legno antico.

La ragazza s’inginocchiò accanto a me: posò la lampada in un angolo e, con un cucchiaio, prese delicatamente ad imboccarmi.
Ogni volta che accostava il cucchiaio alla mia bocca, mi guardava con occhi dolci e compassionevoli.
La minestra di cavoli e patate che lei mi stava offrendo forse non era la cosa più appetitosa di questo mondo, ma ricordo ancora oggi il senso di benessere che quel liquido caldo, scendendo nel mio stomaco, regalava al mio organismo.
Tra un boccone e l'altro, guardai con maggior attenzione la mia benefattrice: indossava una scura maglia informe di lana, sicuramente più grande della sua taglia, su una gonna tutta rattoppata, anch'essa di lana pesante.
Il suo abbigliamento era completato da pesanti scarponi, adatti alla neve ed al ghiaccio, e da spesse calze.
I capelli, biondi come la paglia, lunghi, ma arricciati e spettinati, e nemmeno tanto puliti, le incorniciavano il viso incantevole: naso piccolo, grandi occhi chiari, una bocca perfettamente disegnata dalle labbra morbide, la pelle rosea, luminosa e delicata.
Non so se fosse il mio precario stato di salute, ma la vidi bellissima, un angelo sceso in terra a prendersi cura di me.
Tirai fuori un braccio da sotto le calde coperte e con un dito indicai verso di me: " Ciao, io mi chiamo Enrico. Sono italiano… " le dissi con un sorriso.
Anche lei sorrise e, mostrando di avere capito il mio gesto, indicò se stessa dicendo: " Natasha ".
Continuò ad imboccarmi fino a quando la scodella fu vuota; poi con un panno mi pulì le labbra e, quindi, forse per sentire se avevo la febbre ancora alta, mi appoggiò con delicatezza una mano sulla fronte.
Quel semplice contatto, quel gesto carico d’umanità e di premura, dopo tutto quello che avevo passato e dopo tutti gli orrori che avevo vissuto, mi commosse quasi fino alle lacrime.
In quel mondo impazzito, dilaniato dalla guerra e travolto da mille orrori, anche una semplice mano, posata delicatamente sulla fronte di una persona, assumeva il significato della speranza, della speranza che tutto quell'odio venisse sconfitto e che l'umanità si riprendesse da quell'abisso infernale in cui era così drammaticamente precipitata.
Con un ultimo sorriso, Natasha andò via: riposizionò la tavola a fare da soffitto al mio giaciglio, la nascose sotto la legna, e uscì, tornando in casa.

- continua -

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